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mercoledì 4 aprile 2018

La sinistra, uno spezzatino simbolico che sa di "già visto"

I cultori della censura di Mamma Rai, se sono pure drogati di politica e aneddotica, ricordano - magari leggendo libri come Proibitissimo di Menico Caroli - che ad Alighiero Noschese nel 1972 si impedì tra l'altro di dire una battuta memorabile mentre imitava Pietro Nenni: "Non si può negare che il socialismo sia in ascesa. Noi iniziammo infatti nel '46 con un partito socialista e oggi abbiamo tre partiti socialisti. E non si può escludere che se mi fanno innervosire diventeranno quattro". La frase ricorda un po' un'altra massima mitica (chissà quando l'avrà detta) di Giulio Andreotti, ispirata a un epigramma di François Mauriac: "Amo tanto la Germania che ne preferisco due". Soprattutto, però, era un ritratto perfetto della cifra principale del socialismo e dell'intera sinistra in Italia: la tendenza immutabile allo spezzatino
Il percorso per indagarla, anche limitato agli ultimi decenni, è labirintico e il rischio di perdersi è alto. Serve una guida, anzi, un "decifratore": il ruolo che nel programma Agorà ha Francesco Cundari, fresco autore di Déjà vu (Il Saggiatore, 2018). Il libro è proprio la guida di cui si può avere bisogno, in una selva di "episodi, iniziative e protagonisti" scelti con "assoluta arbitrarietà e soggettività", perché a quanto pare non si può fare diversamente, in una storia che - lo si legge anche nel titolo - "non ha un inizio e non ha una fine. Di fatto, non conosce alcuno sviluppo, alcuna evoluzione, alcun cambiamento".
Per capire perché la recensione di questo libro abbia pieno diritto di cittadinanza su queste pagine, è sufficiente leggere questo capoverso:
Ogni giorno in Italia nasce – se non un partito – una corrente, un movimento o almeno un appello per rinnovare radicalmente la sinistra. E per farla finita, va da sé, con le divisioni. Per questo farne la storia è impossibile: perché l’infinita serie di scissioni, riaggregazioni e successive riscomposizioni che caratterizza la parabola del centrosinistra non disegna, per essere esatti, alcuna parabola. Semmai, un frattale. Un’immagine dotata cioè di autosimilarità, in cui ciascuna delle parti ripete su diversa scala la figura dell’intero.
Va altrettanto da sé che molte di queste "scissioni, riaggregazioni e successive riscomposizioni" si sono concretizzate in un simbolo. E non solo o non tanto nel logo ibrido che campeggia sulla copertina del libro, che al martello e alla stella abbina lo swoosh della Nike nel ruolo che sarebbe della falce (richiamando così un altro libro da considerare per chi si occupa di simbologia politica tra identità e marchio, Falce, martello e Nike di Alessandro Di Caro).
La storia, per la verità, inizia con il soffocamento di un simbolo, o se si preferisce, con la sua decapitazione: la vittima era l'Ulivo, il boia Massimo D'Alema; il luogo dell'esecuzione era il castello di Gargonza, la data l'8 marzo 1997. Non era passato un anno (tutt'altro che squillante) dalla vittoria della coalizione guidata da Romano Prodi e, davanti a una platea ricca "dei più bei nomi dell'intellighenzia progressista" (come li chiama Cundari), l'allora segretario del Pds - e non era certo un'ombra, essendo pure presidente della Bicamerale - liquidò l'Ulivo come un cartello elettorale (perché altrimenti per avere senso sarebbe dovuto diventare un partito nuovo unico al posto delle formazioni esistenti, cosa che i piccoli non volevano, D'Alema e Franco Marini - come leader di Pds e Popolari - probabilmente nemmeno). Soprattutto, però, stroncò ogni velleità di creare una forza politica di comitati, più vicina alla società civile e distinta dai partiti, bollandola come "tardosessantottesca": "se c’è qualcosa che somiglia ai partiti in ciò che di nobile sono stati nella crisi attuale, siamo noi, non sono gli altri… Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica" e, ovvio, dai suoi professionisti. Il tutto mentre i presenti sbarravano gli occhi disorientati e Omar Calabrese, organizzatore dell'incontro-dibattito, era costernato quanto Romano Prodi nel vedere di fatto naufragare il progetto ulivista dopo aver assistito alla nascita del simbolo a Bologna alla fine del 1995, quando Andrea Rauch presentò il primo disegno (senza sapere che sarebbe già stato quasi definitivo).
Il simbolo, a dire il vero, sarebbe tornato sulle schede anche nel 2001, nel 2004 alle europee (con il "triciclo" Uniti nell'Ulivo) e, soprattutto, nel 2006, senza scritte diverse dal nome, come una sorta di anticipo di quel partito dei riformisti (auspicato da D'Alema nel 2003) che - più in teoria che in pratica - si sarebbe chiamato Pd. Il rametto d'Ulivo, peraltro, si sarebbe visto solo alla Camera: al Senato, a dispetto delle soglie di sbarramento più elevate che avrebbero suggerito una corsa unitaria, sarebbero riapparsi i simboli di Ds e Margherita, le due punte dell'Unione, coalizione che sulle schede non vide mai arrivare il suo fregio (se non in Alto Adige), ma la somma di una marea di emblemi, assieme a quelli che rimasero fuori. 
Un problema, volendo, non limitato al centrosinistra: per Cundari in Italia "le coalizioni sono a tutti gli effetti una materia fluida, vivente, in perpetua ebollizione: un brodo primordiale nel quale ora confluiscono e ora si distaccano un’infinità di microrganismi, in formazioni sempre cangianti eppure, in qualche modo, sempre uguali a se stesse", rendendo quasi impossibile capire chi ne faccia parte in un determinato momento. E' qui che, per gli appassionati di scissioni con relativi emblemi, parte uno dei "passaggi simbolici" più significativi di Déjà vu, per cui merita di essere riportato quasi per intero:
Giunto a questo punto, immaginiamo che l’ingenuo lettore comincerà a contare tra sé e sé, richiamando con qualche sforzo alla memoria le sbiadite figure di quell'antica saga: Margherita, Udr, Udeur… Ma cosa potrebbe replicare se qualcuno lo interrompesse d’un tratto, domandandogli a bruciapelo: «Scusa tanto, ma il partito di Mastella quante volte lo hai contato?». Perché il primo problema che si trova davanti chi voglia seriamente dare una definizione delle coalizioni del bipolarismo italiano sta proprio qui: nelle duplicazioni.Certo, in modo superficiale, potremmo dire che la risposta giusta è «tre volte», giacché effettivamente Clemente Mastella è stato con la sua pattuglia uno dei promotori dell'Udr prima e dell'Udeur poi, la quale a sua volta è stata, per qualche tempo, tra i partiti-componenti della Margherita. Del resto, la stessa Margherita è nata a sua volta dall'aggregazione tra Lista Dini, Democratici, Popolari di Pierluigi Castagnetti e, per l’appunto, Udeur. Senza dimenticare che ben due su quattro dei partiti appena citati (Lista Dini e Udeur) non si limitavano a popolare in diverse configurazioni la coalizione di centrosinistra, per esempio fuori o dentro la Margherita, ma saltavano anche da una coalizione all'altra, passando così dal governo all'opposizione e dall'opposizione al governo. E a volte ne determinavano la caduta.[...] Quello che ci preme sottolineare è che la vita delle coalizioni nella Seconda Repubblica è caratterizzata sin dall'inizio da questa perpetua danza dionisiaca di accoppiamenti improvvisi e smembramenti reciproci, da questo continuo, vorticoso brulichio di particelle che incessantemente si incontrano e si scontrano, per poi scindersi e quindi ancora ricomporsi in sempre nuove aggregazioni.
Per capire cosa c'entri Clemente Mastella con il principio di indeterminazione di Heisenberg e la fisica quantistica, si deve rimandare al libro. Basta ricordare che proprio Mastella con la sua Udeur (evoluzione polemica - verso Cossiga - dell'Udr, senza dimenticare che l'Uomo di Ceppaloni nell'Udr era entrato armi e bagagli, cambiando schieramento, con i suoi Cdr... e se non li ricordate andateli a cercare!) fu protagonista della fine da psicodramma del pletorico governo Prodi-bis, togliendogli la fiducia in versi (quelli di Lentamente muore, che Mastella attribuì a Pablo Neruda, cadendo nell'errore di molti, magari gli stessi che credono che la Preghiera semplice l'abbia scritta san Francesco) dopo che Walter Veltroni aveva annunciato la corsa solitaria del Pd alle nuove elezioni. 
Archiviate le liriche mastelliane, a Palazzo Madama sarebbe scoppiata una gazzarra da osteria, con gli insulti da malore a Nuccio Cusumano (Udeur) rimasto con Prodi e la bottiglia di champagne stappata da Domenico Gramazio (An) alla proclamazione del voto sulla fiducia (di quella spuma sguaiata la tappezzeria degli scranni governativi dell'aula porta ancora le tracce); erano stati più sobri Franco Turigliatto (ex Prc) e Lamberto Dini (Liberal Democratici), ma il loro voto contrario - benché fossero stati eletti con l'Unione, che aveva vinto e governato fino ad allora senza avere la maggioranza dei voti e con una risibile maggioranza al Senato - era stato ancora più amaro per il centrosinistra.
Nel mezzo, tra il 1997 e il 2008, si sono succeduti vari avvenimenti interessanti, a partire dal "complotto" del 1998 per cacciare la prima volta Prodi da Palazzo Chigi, che per gran parte della stampa - ma non per i suoi protagonisti - sarebbe stato ordito da D'Alema e da Marini, volto a mandare il primo al governo e il secondo (o Rosa Jervolino come sua persona di fiducia) al Quirinale: saltò quest'ultima parte del progetto, mentre riuscì tutto il resto, con la complicità degli scissionisti di Rifondazione comunista (i futuri Comunisti italiani di Cossutta) e dell'Udr di Francesco Cossiga. Prodi sarebbe tornato in campo solo nel 1999 come presidente della Commissione europea (anche e soprattutto grazie a D'Alema che convinse gli altri leader europei a mandarlo lì), non prima di aver creato i suoi Democratici, durati un paio d'anni ma quanto bastava per farla pagare ai maggiorenti della coalizione che di fatto aveva scaricato il Professore. 
Nel frattempo, il 13 febbraio 1998, erano nati i Democratici di sinistra ("una breve e indolore rifondazione, che - per Cundari - si risolve sostanzialmente nell'abbandono anche di quella piccola bandiera del Pci rimasta alle radici della Quercia, simbolo del nuovo partito, e nella perdita della P"), si era tentata una riforma estesa della Costituzione con la convergenza dei partiti maggiori dei due poli (affossata a maggio del 1998 dalla virata a 180 gradi di Forza Italia) e ci si accapigliava persino su come mettere per iscritto il centrosinistra (se col trattino "alla Cossiga", tutto attaccato alla maniera degli ulivisti, oppure  staccato senza trattino). 
Era questo il minimo che potesse capitare, a quanto pare, in una coalizione "che va dalla lista di Lamberto Dini al partito di Antonio Di Pietro, passando per Verdi, Repubblicani, Liberali, Laburisti, Comunisti unitari, Comunisti italiani, Cristiano sociali, Rete, Patto Segni, Alleanza democratica, Udeur e almeno un’altra dozzina di minipartiti e micromovimenti di cui è letteralmente impossibile tenere il conto": una "dinamica entropica" e un frullato di sigle e simboli che, per l'autore del libro, rendeva dannatamente facile a chiunque consumare la propria vendetta e in cinque anni di legislatura vide avvicendarsi quattro governi e tre capi del Governo. 
C'era poi stata la morettata - alla Edmondo Berselli - cioè il famoso fendente di Nanni Moretti sul palco centrosinistro (e sinistrato, sempre bersellianamente parlando, trattandosi di una manifestazione post-sconfitta) di Piazza Navona nel 2002: "con questo tipo di diriggenti non vinceremo mai!". Quel grido di dolore non produsse partiti o simboli, ma "solo" un'immagine - il girotondo, in realtà inaugurato pochi giorni prima a Milano - e un colore - quello del Popolo Viola; il resto fu una serie di incontri-scontri (a partire da "Sinistra, cultura, società italiana", andato in scena il 22 febbraio in San Michele a Ripa, con interventi sulfurei di Alberto Asor Rosa, Furio Colombo e Antonio Pennacchi, e parole interessanti ma poco rilanciate di personaggi come Roberto Cotroneo ed Ettore Scola) destinati a ripetersi dio sa quante volte negli anni.
Anche di recente si è assistito alla nascita di una marea di progetti senza veri simboli, col solo nome (si pensi al Campo progressista di Giuliano Pisapia o all'Alleanza popolare per la democrazia e l'uguaglianza di Tomaso Montanari e Anna Falcone) che però si sono arenati in fretta. Gli ultimi capitoli del libro, dedicati all'ascesa di Matteo Renzi, al suo arrivo al governo (oggetto di infinite ricostruzioni politiche e non solo), alla lunga battaglia per la riforma costituzionale e per il referendum, nonché al seguito della vittoria del No, sono puntate recenti: oltre a essere note perché vissute da molti, non hanno la stessa carica simbolica delle storie precedenti, anche se non si è smesso di creare o scindere partiti. Merita però almeno di essere ricordato come anche nel Movimento democratico e progressista, subito ribattezzato Articolo 1 per evitare altri guai legali, si sia posto lo stesso problema di sempre: "è opportuno che D'Alema si candidi?" (si candiderà, naturalmente, ma stavolta non sarà eletto).
Il libro di Francesco Cundari è stato stampato a febbraio, prima che le urne certificassero l'ennesima batosta elettorale della sinistra. Di certo, non è la fine del percorso: pur non conoscendo ancora l'esito elettorale, l'autore ha potuto mettere nero su bianco: "sappiamo benissimo come andrà a finire. Perché in fondo è sempre e solo la penultima tappa di un gigantesco, innocente, inconcludente gioco dell’oca: quello che abbiamo cercato di raccontare fin qui. E che non finirà mai". Quel gioco dell'oca, a quanto pare disseminato di "torna alla casella 1", è stato ben raccontato in quelle pagine, anche recuperando episodi (come quello originario di Gargonza) ben noti ai cronisti e agli analisti, ma forse sfuggiti ai drogati di politica junior - che non c'erano o erano in fasce - o ai semplici curiosi. In più, volendo, permette già una prima applicazione post-elettorale: Liberi e Ugualil'ennesima riaggregazione della sinistra parlamentare, frutto soprattutto dell'apporto di Articolo 1, Sinistra italiana (già Sel) e Possibile, è riuscita per un soffio a entrare in Parlamento con un pugno di eletti, ma - tanto per cambiare - rischia di sfasciarsi un'altra volta; ancora più a sinistra, Potere al Popolo!, che raccoglieva un ampio spettro di sinistra (da Rifondazione comunista al ricostituito Pci a vari centri sociali), nemmeno questa volta riesce a eleggere qualcuno, proprio come Rivoluzione civile nel 2013, la Lista anticapitalista Prc-Pdci alle europee del 2009 e la Sinistra l'Arcobaleno nel 2008. Benché le singole forze politiche alla base non abbiano intenzione di sciogliersi, però, i PotPop il loro percorso pare vogliano continuarlo: resisteranno, almeno loro, all'inesorabile tendenza allo spezzatino?

domenica 12 novembre 2017

Max, la proposta (bocciata) di Toscani per la sinistra

Il simbolo elaborato da Toscani
Come si corre nell'immediata sinistra del Pd? Un po' più uniti rispetto alla situazione attuale sarebbe meglio, anche perché altrimenti la soglia del 3% rischierebbe seriamente di apparire irraggiungibile. Certo, ci vorrebbe un simbolo unico e, probabilmente, non è il tempo di biciclette o tricicli grafici, considerando che con Articolo 1 potrebbero schierarsi Sinistra italiana e Possibile. Proprio in questi giorni, però, si apprende che un primo tentativo blasonato di elaborare quell'emblema è naufragato con fragore, sia per l'accoglienza a dir poco imbarazzata dei possibili utenti del logo, sia per il prestigio del creativo che lo aveva concepito (e per la reazione tutt'altro che diplomatica al rifiuto della sua idea).
Il nome in questione è quello di Oliviero Toscani: il suo curriculum non ha bisogno di presentazioni, la sua attitudine alla provocazione (e il suo piglio nelle reazioni) nemmeno. La sua comparsa sulla scena è stata raccontata così due giorni fa da Goffredo De Marchis sulla Repubblica: 
L'abboccamento risale a un paio di mesi fa. Il fotografo si propone per dare un'identità grafica al nuovo soggetto che deve riunire sotto lo stesso tetto Bersani, D'Alema, Pisapia e ora Grasso. "Sono amico di Pisapia da decenni. Ho curato la campagna per Bersani quando diventò presidente dell'Emilia Romagna. Il simbolo ve lo disegno io". Agli inizi di ottobre l'entusiasmo di Toscani si traduce in un marchio. Chiama i dirigenti di Mdp e dice: "Sono pronto". Arrivano in sede il coordinatore Roberto Speranza, i capigruppo Giuseppe Laforgia e Maria Cecilia Guerra, Arturo Scotto. Ci sono anche i comunicatori del movimento bersaniano. Saluti e convenevoli via Internet poi il Maestro svela la sua creatura. Avvicina un cartoncino alla telecamera e a Roma appare il logo che dovrebbe andare sulle bandiere, sui gadget, sui manifesti e in tv per la campagna elettorale. 
Più che un simbolo, sullo schermo presente nella sede di Articolo 1 in via Zanardelli un mesetto fa è apparso un logo composto da una sola parola: MAX. Un emblema che oggi Helga Marsala su Artribune descrive così
un simbolo grafico secco, sintetico, squillante, massiccio, dal taglio assai pubblicitario o televisivo, lontano dai classici simboli romantici di partito (falce e martello, garofano, ulivo, asinello…) ma anche da un certo minimalismo imperante o dal gusto progressista made in USA in stile Obama. Toscani spalma le tre lettere cubitali su un cerchio convesso, arrotondandole, e le trasforma in un brand sfacciato, senza fronzoli. Sta tutto nel nome. Max come “massimo”: dare il massimo, fare il massimo, scommettere su un’idea e spingerla… Al massimo, per l’appunto. Questo il concept. E poi, ha spiegato con convinzione, “suona bene”. Il colore? Manco a dirlo, un rosso lacca che più rosso non si può. Perché la tradizione, per un progetto di questo tenore, resta un riferimento essenziale: le radici solide su cui ricostruire un mondo, tra nostalgia e progressismo, rigore purista e sperimentazione. 
Tutto bene? Insomma. Perché i vertici di Mdp hanno immediatamente pensato quello cui, a quanto pare, non era venuto in mente a Toscani: Max, Massimo rimanda inevitabilmente a Massimo D'Alema, tra i registi della scissione rispetto al Pd, detestato apertamente da chi è rimasto nella casa dem e probabilmente non troppo amato nemmeno da alcuni di Articolo 1, che lo vedono come una presenza ingombrante e - in prospettiva - divisiva. Alle perplessità manifestate dai potenziali utilizzatori del simbolo, Toscani ha ribattuto confermando la propria idea, come De Marchis ha debitamente annotato:
A suo modo, è un'idea geniale. Si dà un'etichetta nuova a una storia che da anni oscilla, nella terminologia e nella simbologia, tra democratici, progressisti e sinistra con esiti sempre meno incoraggianti. Si mette la minigonna a una tradizione che segna il passo in tutto il mondo, si colora la polvere dell'ideologia. E si ribalta il vecchio in nuovo, nuovissimo. Un tocco di dadaismo. "Non vi sembra moderno?", insiste Toscani. Eliminato il sospetto di una presa in giro del fotografo che ha creato per due decenni la pubblicità di Benetton, che ha scritto "chi mi ama mi segua" sul sedere di una modella fasciata dagli short dei Jesus Jeans, autore di mille campagne sociali incisive, scioccanti e per questo denunciate o censurate, i dirigenti di Mdp ascoltano il guru. Toscani spiega e rispiega. Fa notare che l'incrocio tra la A e la X crea anche l'effetto di una falce e martello stilizzati. Lista Max suona bene? Maxisti è un bel nome per gli elettori di sinistra? Segue dibattito.
Il primo logo diffuso dai media
Tutto questo, però, non è bastato, così l'offerta sarebbe stata cortesemente declinata. E Toscani, ovviamente, l'ha presa malissimo e non le ha mandate a dire: "Sono dei coglioni così, tutta gente che non è capace a fare un cazzo" (intervistato da Radio Capital e rilanciato dalla Repubblica); "D'Alema porta sfortuna. Max è un soprannome sbagliato per un tipo come lui, tutt'altro che maximo. Io avevo un cane e un cavallo. Sa come si chiamavano? Entrambi Max. Non ho mica pensato a loro. Perché Max non è un nome, è un concetto" (sulle pagine di Vanity Fair). Come se non bastasse, Oliviero Toscani ha prontamente disconosciuto la versione del simbolo fatta circolare dai media (a partire dalla Repubblica) che sarebbe stata alterata: "Quello non è il mio simbolo. Gliel'ho fatto vedere e loro lo hanno disegnato a caso, ad occhio, la cosa più pirla che potessero fare". In effetti, la prima immagine mostrata era molto più simile a una sfera su cui era impresso il nome, complicando probabilmente il messaggio comunicativo (era serissimo il rischio dell'effetto "pallone gonfiato") e alterando anche il colore, assai meno rosso e meno squillante rispetto all'originale. Di rimetterci le mani, ovviamente, nemmeno a parlarne, anzi: secondo Toscani "a loro piace in realtà, non piace solamente perché ha Max e a loro ricorda Max D'Alema, tutto lì". Una cosa da nulla, insomma.

venerdì 24 febbraio 2017

Democratici e progressisti, il simbolo che non sarà

Così il simbolo non sarà di certo...
Sotto quali insegne, dunque, si presenteranno coloro che usciranno dal Pd e che vorranno costituire un nuovo soggetto politico a sinistra? Un giorno dopo l'altro si sono rincorse varie ipotesi, specie per quanto riguarda il nome. 
L'ultima, da più parti la più accreditata per identificare gli scissionisti di Roberto Speranza ed Enrico Rossi, assieme alla pattuglia di dem pronti a seguirli - da Nico Stumpo a Davide Zoggia, da Federico Fornaro a Miguel Gotor, unendo a loro Arturo Scotto e altri ex Sel che non hanno partecipato a Sinistra italiana - sarebbe Democratici e progressisti, secondo lo schema ormai consolidato che affianca due parole, congiunte dalla "e" (e c'è il rischio che dai dintorni di Cassano d'Adda si senta dire, chiaro e forte, "l'ho inventato io!", visto che l'ex cancelliere Ugo Sarao rivendica da tempo come il suo partito Pensioni & Lavoro sia stato "il precursore di tutti i partiti e movimenti che poi hanno usato la 'e' di congiunzione".
E se la struttura del nome somiglia a quella dei Conservatori e riformisti, si sarebbe tentati in un momento di follia di immaginare un simbolo affine a quello, che come animale di riferimento scelga l'asinello democratico - ma non certo quello disegnato da Francesco Cardinali dei Democratici di Arturo Parisi, che non lo concederebbe mai, vista la distanza di posizioni - e come elemento tricolore riprenda le due tracce di gesso/pastello che nel 1994 Bruno Magno realizzò (appunto) per l'alleanza dei Progressisti. Nessuna possibilità, ovviamente, che l'emblema sia fatto così, ma chissà che qualcuno non ci abbia pensato sul serio.
Al di là della boutade, dalla corsa al simbolo bisogna escludere anche quello adottato dalla lista Democratici progressisti - Calabria, presentata alle ultime elezioni regionali a sostegno di Mario Oliverio: l'emblema ora caratterizza il gruppo corrispondente nato in consiglio regionale. "Il simbolo dei Democratici Progressisti è il simbolo del Pd nei territori - si leggeva in un sito molto snello approntato all'epoca della presentazione delle liste -. Non siamo qualcosa di diverso dal Pd ma siamo il Pd". Al di là della grafica, con il tricolore interpretato a pennellate, sorge qualche dubbio sull'opportunità di usare quel nome (e non è detto che la "e" sia sufficiente a evitare confusioni di sorta tra chi ritiene di non far parte del Pd e chi invece si proclama all'interno).
Qualche altro problema di confondibilità se lo sarebbe posto anche qualcuno degli scissionisti, nel momento in cui - secondo quanto anticipato poco fa da Alessandro De Angelis su HuffPost - la dicitura corretta del nuovo soggetto politico sarebbe Movimento democratico e progressista, per evitare che, come aveva scritto il Secolo d'Italia, si passasse "dal Pd a Dp", ricordando l'acronimo di Democrazia proletaria. Certo è che sperare che le sigle scelte siano libere è particolarmente difficile: Mdp, per esempio, era l'acronimo del Movimento democratico popolare, formazione che presentò il suo emblema alle politiche del 1994 e del 1996. Ovviamente la sigla Mdp non è privata, né qualcuno ricorderà facilmente quel precedente, ma c'è...
E, a proposito del voler evitare assonanze con Democrazia proletaria, per fortuna è stata abbandonata in fretta l'idea di voler chiamare il nuovo gruppo Nuova sinistra, anche qui mutuando lo schema da Ncd. Ai veri drogati di politica, infatti, sarebbe venuta in mente subito la Nuova sinistra unita, cartello elettorale non troppo fortunato, presentatosi alle elezioni del 1979 per unire quasi tutte le sinistre estreme all'infuori del Pdup: essendo profondamente legato all'esperienza di Democrazia proletaria, schierava in bella vista lo stesso pugno chiuso, stavolta senza falce, martello e globo stilizzato che avrebbero caratterizzato per qualche anno l'attività del partito di Mario Capanna.
A quelle stesse elezioni, peraltro, fu presentato anche un altro simbolo, che peraltro figura tra quelli "senza effetti", con il nome Nuova sinistra. Composizione più che essenziale, caratterizzata soltanto da una freccia che puntava in alto a destra (ma proveniva da sinistra), ricavata all'interno di una corona nera, l'emblema era chiaramente figlio di una grafica ancora rigorosamente in bianco e nero; paradossalmente, tuttavia, non sfigurerebbe oggi, nell'epoca della sparizione dei simboli all'interno dei contrassegni, poiché la costruzione tutta geometrica sembra pensata più e meglio di quanto non siano alcuni emblemi concepiti oggi. Una goccia di futuro nel passato, che però resterà dov'è.
Da ultimo, visto l'identikit di chi sembra pronto a lasciare il Pd per un nuovo inizio, verrebbe la tentazione di domandarsi come mai nessuno abbia pensato in questi giorni di utilizzare l'etichetta che Massimo D'Alema ha lanciato per un movimento-rete sui generis nei giorni scorsi, per capitalizzare la lotta sul fronte referendario del No alla riforma costituzionale. Così Consenso potrebbe far nascere Consenso democratico, riuscendo a sfruttare tra l'altro il verde del fondo della prima parola, affiancando ad essa la seconda tinta in rosso per ricostruire il tricolore. Che non è certo di proprietà del Pd, come non lo è la parola "democratico".