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lunedì 18 agosto 2025

Quale Dc vuole? La 1, la 2 o la 3? (a essere ottimisti)

Alle volte alcuni comunicati stampa politici sembrano relativamente inoffensivi, portatori di notizie destinate al più a lasciare tracce lievi, appena percettibili. Chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica, tuttavia, non si lascia ingannare e sa che certe notizie nascondono un potenziale esplosivo notevole, qualcosa sia colto dalle persone giuste; se quelle notizie riguardano la Democrazia cristiana, poi, la deflagrazione è più che probabile, per ragioni che chi frequenta con costanza questo sito conosce fin troppo bene.
Si prenda, per esempio, una nota diffusa il 5 agosto dall'ufficio stampa del gruppo di Forza Italia al Senato e divulgata, ad esempio, dall'agenzia Agenparl:
In un incontro tra il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, e il senatore Raffaele De Rosa, rappresentante della Democrazia cristiana, è stato siglato un accordo politico che ha confermato l’appartenenza del senatore De Rosa al Gruppo del Senato di Forza Italia - Berlusconi Presidente - PPE in qualità di senatore indipendente e rappresentante politico della Democrazia cristiana. Nell’occasione, è stato ribadito il rapporto di sinergia e collaborazione tra il gruppo di Forza Italia e la Democrazia cristiana, nella piena valorizzazione delle rispettive identità politiche e dei valori che le contraddistinguono. Il senatore De Rosa continuerà ad esercitare la propria autonomia politica, programmatica e decisionale. Gli atti di voto, così come le valutazioni politiche in Aula e nelle Commissioni del Senato, saranno espressione della linea autonoma della Democrazia cristiana, nel quadro di un confronto leale e costante con il Gruppo di Forza Italia. È stato, infine, confermato l’impegno reciproco a sostegno delle rispettive iniziative, nella consapevolezza del contributo che la cooperazione tra Forza Italia e la Democrazia cristiana può offrire alla promozione dei valori cristiani, della dottrina sociale della Chiesa, dell’economia sociale di mercato e dei principi ispiratori che accomunano le tradizioni politiche di riferimento.
Online si può trovare traccia - in un articolo del Roma - della possibilità che Raffaele De Rosa, eletto senatore nel 2022 nel collegio uninominale di Acerra per il MoVimento 5 Stelle, uscito dal gruppo stellato all'inizio di febbraio del 2024 per passare - il giorno 21 - a quello di Forza Italia, già a fine luglio si preparasse a un nuovo passaggio, questa volta al gruppo misto, con la volontà di rappresentare la Democrazia cristiana. La nota del gruppo senatoriale forzista, in questo senso, suonava come una precisazione, per cui De Rosa, a prescindere dalla sua scelta di aderire a un altro partito, sarebbe rimasto nel gruppo da indipendente.
L'aderente alla citata schiera dei #drogatidipolitica che si fosse imbattuto in quella nota, però, si sarebbe già posto - anche con una certa enfasi - una domanda inevitabile: "Sì, va bene, ma di quale Dc stiamo parlando??" Già, perché nella nota in questione non è presente alcuna indicazione circa il vertice politico della Democrazia Cristiana evocata nell'accordo: questo non stupisce, dal momento che - secondo un copione ben noto - ognuna delle molte, innumerevoli Dc operanti ritiene di essere la Dc, l'unica legittima e originale e chi sigla accordi con uno qualunque di questi soggetti ha interesse a far intendere che a essere coinvolta è proprio la Dc "giusta", l'unica vera.
Indicazioni, insomma, non ce ne sono, dunque tocca andare per esclusione. Dall'elenco si può certamente depennare la Dc che ha come segretario nazionale Totò Cuffaro (www.dcitalia.it), visto il comunicato diffuso dai media il 10 agosto: "Il senatore Raffaele De Rosa non fa parte della Democrazia cristiana e non ha nessun titolo a firmare documenti per conto della Dc, utilizzandone impropriamente il nome. Non riusciamo a capire perché il senatore Maurizio Gasparri firmi accordi con chi sa non far parte a nessun titolo della Dc. Ingenerare confusione non serve certo alla coalizione e di centrodestra di cui la Dc fa parte". Torna in mente, in qualche modo, il periodo precedente le elezioni europee dello scorso anno, in cui proprio Cuffaro lamentò l'esclusione dalle potenziali candidature di Forza Italia (e non andò meglio con altri partiti in seguito), anche se poi alla fine disse che il suo partito - guidato prima di lui da Renato Grassi e Gianni Fontana - avrebbe comunque sostenuto il centrodestra. Non ha cambiato idea, ma veder spuntare un'altra Dc nel rapporto con Forza Italia, mentre erano alla vista altre consultazioni elettorali, non deve avergli certamente fatto piacere.
Depennata la Dc di Cuffaro, comunque, nel giro di ventiquattr'ore si è potuta tranquillamente escludere anche la Democrazia cristiana con Rotondi, quella con la balena bianca nel simbolo (il sito è www.dcconrotondi.it). Permette di escluderlo una breve dichiarazione proprio del suo leader, Gianfranco Rotondi: "Il nome Dc è stato concesso in uso solo al mio partito nel 2004, come tutti i tribunali hanno confermato. Tutti gli altri ne abusano, sono stato costretto ad aggiungere il mio nome per poter distinguere il nostro partito dal proliferare (misterioso e inquietante) di imitazioni strumentali. Guarda caso le Dc si moltiplicano da quando abbiamo deciso di sostenere Giorgia Meloni e Fdi". Va detto, a onor del vero, che la moltiplicazione delle Democrazie cristiane era iniziata ben prima del 2022 e dell'avvicinamento a Fratelli d'Italia della stesso Rotondi (e lui lo sa molto bene, avendo denunciato spesso il proliferare di scudi crociati). Quella breve nota di Rotondi, in ogni caso, sembrava diretta tanto a smentire eventuali legami di De Rosa con il suo partito, quanto a rispondere a Cuffaro, amico e compagno di storia democristiana ma accomunato dal deputato irpino a coloro che abusano del nome della Dc. Il che non contrasta con la proposta che lo stesso Rotondi fece tra gennaio e febbraio di quest'anno, invitando tutti coloro che avessero ritenuto di vantare qualche diritto o pretesa (politica o giuridica) sulla Dc a costruire un soggetto nuovo per poter rappresentare quell'area più concretamente e senza ulteriori contestazioni. 
Finora, in effetti, questo scenario di "ripartenza da zero" non sembra essersi verificato (per cui la causa intentata da Cuffaro davanti al Tribunale civile di Avellino continuerà), anche se qualcosa sul piano elettorale si muove. Si parla con una certa insistenza, infatti, della collaborazione tra Udc, Dc con Rotondi e Dc-Cuffaro per la presentazione di liste comuni alle prossime elezioni regionali, in particolare quelle previste in Calabria in autunno (del resto, c'è pur sempre una soglia del 4% da superare e unire le forze può fare comodo); ciò, tuttavia, non basta a spegnere le dispute giuridico-politiche in casa democristiana.
Il dubbio originario, comunque, non è ancora stato sciolto: se non si tratta della Dc-Cuffaro o della Dc con Rotondi, di quale Democrazia cristiana sarebbe espressione Raffaele De Rosa? Sembra di dover escludere la Dc che si riconosce nella segreteria di Nino Luciani (il quale rivendica, dopo essere stato primo firmatario della richiesta di convocare l'assemblea dei soci del 2016 a norma del codice civile, di avere materialmente convocato quella riunione e di avere continuato l'opera iniziata come presidente da Gianni Fontana): il fatto che il suo sito (www.democraziacristianastorica.it), l'account Fb di Luciani o le newsletter mandate periodicamente via e-mail non contengano accenni alla vicenda di De Rosa suggerisce di guardare altrove. Né questo altrove sembra potersi identificare nelle Dc guidate da Franco De Simoni o da Emilio Cugliari, sempre in mancanza di segni che rivendichino collegamenti con De Rosa. Nulla di simile appare anche dalle parti della Dc che riconosce come segretario Angelo Sandri, che certamente non si lascerebbe sfuggire l'occasione di comunicare di avere ottenuto in qualche modo una rappresentanza parlamentare. 
Sembra invece che la Dc di cui sostiene di essere rappresentante De Rosa possa identificarsi con quella che, dopo avere avuto come segretario Antonio Cirillo, a seguito del XX congresso di febbraio attualmente è guidata dall'ex ministra Elisabetta Trenta. Il partito, infatti, sta cercando da tempo di affacciarsi alla politica rilevante e in varie competizioni elettorali; in più in Campania, la regione di De Rosa, questa Dc sembra particolarmente attiva. La segretaria campana, Giuseppina Crescenzo, giusto l'11 agosto in un comunicato - pubblicato sul sito www.democrazia-cristiana.net - si è espressa sulla possibile partecipazione alle elezioni regionali, precisando che "La presenza della Democrazia cristiana nel Consiglio Regionale può significare il punto di equilibrio nel confronto politico e un punto di forza per la risoluzione dei temi più importanti che interessano il Paese. Il nostro impegno ha come obiettivo quello di far rivivere la Democrazia cristiana e con essa la vera politica, quella autentica che persegue il bene comune, che unisce giustizia, partecipazione, competenza e visione globale, stando vicino alla gente, ai lavoratori e alle imprese per ridare speranza e dignità all'Italia. [...] Siamo il partito al centro degli interessi del Paese e insieme ricostruiremo il nostro futuro". Prima ancora, a metà luglio, sempre Crescenzo aveva voluto smentire "categoricamente le affermazioni dell’On.le Gianfranco Rotondi, il quale si autoproclama presidente della Democrazia cristiana e annuncia un sostegno alla candidatura di Edmondo Cirielli", precisando che egli non rappresentava la Dc nata nel 1943 e che la Dc campana da lei guidata stava lavorando per la preparazione delle liste e confrontandosi con altre forze politiche "al fine di individuare il candidato presidente alla Regione Campania che meglio incarni i valori e gli obiettivi di sviluppo e benessere per la nostra regione".
Insomma, passa il tempo, passano le elezioni e le compagini parlamentari, ma la disfida politica e giuridica su chi rappresenti la Democrazia cristiana e chi possa utilizzarne i segni distintivi (in particolare il nome e lo scudo crociato) non sembra conoscere fine. Al punto tale che verrebbe davvero la tentazione di imitare Mike Bongiorno e di chiosare "Quale Dc vuole? La 1, la 2 o la trèèèèè?": non fosse che il numero 3, per quanto perfetto, non può bastare per esaurire tutte le Democrazie cristiane in circolazione...

mercoledì 23 aprile 2025

Addio a Carlo Senaldi, impegnato in una lunga rinascita della Dc

In questi giorni in cui l'attenzione mediatica è catturata pressoché per intero dalla morte di papa Francesco, è giusto che su questo sito non passi sotto silenzio la scomparsa di un'altra persona, dal percorso politico rilevante e con profili d'interesse specifico per i drogatidipolitica. Si parla di Carlo Senaldi, classe 1941, morto il 19 aprile a Busto Arsizio, a una decina di chilometri dalla sua Gallarate, in cui aveva il suo studio da commercialista.
Il primo tempo della vita politica di Senaldi è stato legato indissolubilmente alla Democrazia cristiana, per la quale sedette in consiglio comunale a Gallarate (diventando anche assessore della giunta pentapartita guidata dal socialista Andrea Buffoni), alla Camera per due legislature (1983-1992) e in quota alla quale fu nominato sottosegretario durante la sua seconda legislatura, in tutti e quattro i governi in cui si articolò (occupandosi di trasporti nel governo guidato da Giovanni Goria, per poi approdare alle finanze nell'esecutivo presieduto da Ciriaco De Mita, venendo confermato da Giulio Andreotti nei suoi due ultimi governi).
Nel 1980, sempre sotto le insegne dello scudo crociato, Senaldi era stato candidato alle elezioni regionali in provincia di Varese. Era riuscito a raccogliere 9190 preferenze: certo non poche, ma in quell'occasione non sufficienti per risultare tra i tre eletti democristiani della circoscrizione, considerando che il terzo ne aveva ottenute oltre tremila in più e il distacco era rilevante. Sarebbe potuta andare nello stesso modo tre anni dopo, alle elezioni politiche del 1983, ma così in effetti non fu. Lo ricorda con buona precisione in un commento sul quotidiano online da lui diretto, Malpensa24, Vincenzo Coronetti:
Senaldi militava tra i dorotei, componente tra le più attive e, se si vuole, tra le più spietate nei giochi della politica. Vi era approdato quasi per caso, quando, poco prima delle elezioni politiche del 1983, alla Dc varesina venne a mancare uno dei quattro candidati da lanciare alle urne: Michele Galli, un altro gallaratese, si tirò indietro per ragioni personali. Rimasero in gara Giuseppe Zamberletti, Paolo Caccia, Costante Portatadino. E Carlo Senaldi, propostosi all'assemblea nella sede varesina dopo che altri rinunciarono a candidarsi, fu il quarto uomo. Venne eletto al primo colpo, contro ogni previsione.  
In effetti, nella circoscrizione che per la Camera univa i territori di Como, Sondrio e Varese, la Dc ottenne 8 dei 20 seggi disponibili (con il suo 36,76% di voti), mentre il Pci si fermò a 5 (come primo eletto passò Aldo Tortorella) e il Psi a 2 (primo eletto Francesco Forte). Zamberletti, ministro uscente del coordinamento della protezione civile, fece il pieno con 57916 voti, Caccia e Portatandino ne raccolsero oltre 33mila a testa; il conteggio delle preferenze in seguito collocò Paolo Enrico Moro, Francesco Casati e Stefano Rossattini, ma Senaldi con 24858 consensi personali riuscì a passare (e ci fu spazio per un ottavo eletto). Fu di certo un risultato rilevante, confermato da quello del 1987: di deputati democristiani alla Camera, in quella stessa circoscrizione, ne arrivarono solo 7 (anche i comunisti ne persero uno, mentre i socialisti divennero 4 dopo la legislatura dominata dalla figura di Bettino Craxi al governo) e le quasi 79mila preferenze di Zamberletti restarono inarrivabili da quelle parti, ma Senaldi vide aumentare le proprie a 36485 e confermò il seggio da penultimo degli eletti in quel territorio.
Nel 1992 Senaldi fu nuovamente candidato nello stesso collegio plurinominale di Como-Sondrio-Varese, ma era decisamente cambiato il tempo: dei 19 seggi della Camera che si assegnavano in quella circoscrizione, per la Dc ne restarono disponibili solo 5, anche perché 6 li conquistò la Lega Lombarda - Lega Nord, divenendo il primo partito. In casa democristiana Zamberletti non era più candidato, del trio di testa era rimasto solo Caccia (comunque con poco meno di 27mila voti, un po' di più della metà di quelli ottenuti cinque anni prima); Senaldi si collocò di nuovo al settimo posto nella classifica delle preferenze, ma i suoi 14351 consensi personali - qui più che dimezzati - non furono sufficienti a confermare il seggio. Questo sfumò per poco più di 600 voti (e la delusione fu anche più profonda per Francesco Casati, fuori da Montecitorio per sole 400 preferenze avendo ottenuto un terzo dei voti raccolti cinque anni prima). La batosta dovette essere dolorosa, soprattutto a voler dare credito alle "leggende di famiglia" in base alle quali "la Democrazia cristiana lo tradì, nella notte pre-elettorale del 1992. Un pacchetto di voti sposati all’ultimo verso amici di partito più generosi, non nello spirito. Vicende prescritte, morte prima di lui come tutti i protagonisti".
Le parole sono di Pietro Senaldi, condirettore di Libero e nipote dello stesso Carlo Senaldi, da lui descritto così sulla Prealpina il 20 aprile:
Mio zio era un politico, lo si resta per tutta la vita. Anche in ospedale, quando nel caos della malattia confondeva le persone, tracciava scenari. D'altronde la sfida all’impossibile ha caratterizzato gli ultimi trent'anni della sua esistenza. [...] Dopo che tutto era crollato, Silvio Berlusconi gli offrì un seggio nel 1994, come a tanti, quando doveva formare la sua classe dirigente. Il Carlo declinò l'invito. Nulla di personale, anzi: non invidiava il talento altrui, lo rispettava. Solo voleva morire democristiano, e ce l'ha fatta. Non usò mai lo Scudo Crociato per nascondercisi dietro e farsi gli affari propri. Il poco potere che ha avuto non l'ha arricchito e l'ha usato per gli altri; talvolta forse anche per chi non meritava, ma sono certo che non se ne sia mai pentito. Lui lo Scudo Crociato lo portava fiero in battaglia e ha combattuto in maniera irrazionale, inarrendevole e pressoché solitaria per farlo avanzare, con tutti noi ad ascoltarlo affettuosamente attoniti. 
Chi scrive ora - lasciando in disparte ogni considerazione sull'agire di Pietro Senaldi in altre circostanze - trova particolarmente significative le ultime frasi di questa citazione, ritenendole adattissime al secondo tempo della vita politica di Carlo Senaldi. Un tempo lontano dalle aule che contano - e, tutto sommato, con poca aderenza a quelle di tribunale, visto che "Mani Pulite" lo sfiorò soltanto, con la vicenda Enimont che per Senaldi si chiuse con un lieve patteggiamento - ma certamente tutt'altro che inattivo. Già, perché dal 1996 da varie parti si era sentito il bisogno di mettersi in movimento per cercare di far rinascere la Democrazia cristiana, dopo il cambio di nome in Ppi nel 1994, il disastro elettorale di quell'anno (con contorno di prime fratture) e la scissione dolorosissima del 1995 tra Popolari guidati da Gerardo Bianco e Cristiani democratici uniti seguaci di Buttiglione. Tra il 1997 e il 1998 a reggere le fila di quel movimento pensò Flaminio Piccoli, che della Democrazia cristiana divenne presidente, mentre come segretario fu indicato proprio Senaldi. Fin dall'inizio, tuttavia, fu difficile - per non dire difficilissimo - presentare liste con quel nome, ma soprattutto con il simbolo dello scudo crociato, vista la lotta continua tra Ppi e Cdu e la presenza in Parlamento di quest'ultimo: lo scudo saltò alle provinciali di Roma del 1998 e in tante occasioni successive, così il gruppo preferì cambiare nome (Partito democratico cristiano) e simbolo.
Morto Piccoli l'11 aprile 2000, Senaldi ne continuò il progetto. Non lo fece però con il Pdc, la cui guida passò nelle mani del napoletano Alfredo Vito (che nel 2001 sarebbe stato eletto alla Camera, candidato dalla Casa delle Libertà in quota Biancofiore, poi iscrittosi al gruppo di Forza Italia): divenne presidente di Rinascita della Democrazia cristiana, rifondata alla fine del 1999 da Angelo La Russa in Sicilia (stesso nome dell'associazione costituita nel 1996 da Andreino Carrara e del soggetto di coordinamento delle prime realtà ri-democristiane) e che a luglio 2000 riprese il cammino come partito, guardando soprattutto al centrodestra (ma considerando anche Democrazia europea alle politiche del 2001), con Senaldi che entrò a far parte del consiglio nazionale del Cdu ("ci avviciniamo per darvi il nostro aiuto nelle singole realtà regionali e provinciali - disse alla fine del 2000 - I cattolici democratici ormai hanno soltanto questa possibilità: si rimettano insieme, facciano la parte, perché noi dobbiamo difendere interessi che non sono particolari, ma di carattere generale").
Nel 2002, tuttavia, Senaldi come presidente di Rdc divenne membro di diritto della direzione nazionale dell'Udeur, partito fondato da Clemente Mastella dopo la fine dell'esperienza dell'Udr cossighiana (e che, dopo aver preso parte alle elezioni politiche del 2001 con la Margherita, aveva proseguito il cammino da solo). Nel frattempo, peraltro, si era verificato un passaggio rilevante: un gruppo di iscritti alla Dc nel 1993 si era rivolto ad Alessandro Duce, ultimo segretario amministrativo della Dc, perché si attivasse per "risvegliare" la Dc ufficialmente mai sciolta; una delle azioni legali ottenne una certa attenzione dalla stampa, che credette alla versione in base alla quale il tribunale di Roma avrebbe invalidato gli atti del 1994 riattivando il partito storico (anche se così non era).
A occuparsi delle operazioni di tesseramento - almeno prima che le bloccasse lo stesso tribunale di Roma - era stata proprio la struttura della Rinascita della Democrazia cristiana, presieduta da Senaldi e coordinata dal friulano Angelo Sandri. Intanto, visto che dai tribunali non arrivavano buone notizie e che Rdc si poneva come partito, aveva colto l'occasione delle elezioni amministrative del 2001 e del 2002 per presentarsi alle elezioni, ma raramente lo scudo crociato arrivò sulle schede elettorali. Lo stesso Senaldi, per evitare contenziosi quando si candidò - fuori dai poli - alle elezioni provinciali a Varese nel 2002, fece elaborare un contrassegno nuovo, che in un cerchio bordato di blu con dodici stelle ricreava su fondo bianco una croce grazie a due pennellate rosse. Per qualche membro delle commissioni elettorali che ricevettero quel simbolo si trattava di una figura "sanguinolenta, due macabre pennellate da Grand Guignol che nemmeno lontanamente facevano ricordare lo scudo crociato della vecchia Dc", ma oggettivamente sulle schede (anche fuori da Varese: per esempio a Borgomanero, in provincia di Novara) ci arrivò e, pur se su territori limitati, rimase (al punto che la foto pubblicata dal quotidiano La Prealpina comprendeva proprio quel simbolo). Nel frattempo, a luglio del 2002, Senaldi era stato indicato come presidente della Dc che - a dispetto del primo stop dei giudici romani all'iniziativa di Duce - aveva continuato a operare scegliendo Sandri come segretario (iniziando, tra l'altro, la causa che sarebbe finita in Cassazione nel 2010, generando una serie di pronunce molto commentate, poco lette e ancor meno comprese); il livello di confusione della vicenda fu tale che, nel giro di qualche mese, lo stesso Senaldi si trovò citato in tribunale proprio da Sandri, perché smettesse di utilizzare il nome della Dc per il suo partito, rimasto in piedi.
In seguito, sempre nel tentativo di riportare sulla scena una Dc, Senaldi scelse di concorrere - sempre grazie al suo gruppo della Rinascita - a rinforzare la Democrazia Cristiana (poi per le autonomie) di Gianfranco Rotondi, operante dal 2005, senza scudi crociati (o loro surrogati), ma almeno con il nome storico concesso in uso dal Ppi - ex Dc (e dunque senza il rischio che qualcuno lo contestasse). Quella scelta riavvicinò Senaldi alla coalizione di centrodestra, probabilmente nella convinzione che fosse da quella parte la vera continuità politica con la sua esperienza democristiana. Non a caso, nelle sue ultime candidature la collocazione nel centrodestra è stata una costante, anche se sotto diverse insegne elettorali.
Nel 2014, per esempio, Senaldi fu inserito nella lista di Fratelli d'Italia del Nord-Ovest alle elezioni europee: quella scelta - che di fatto anticipò di otto anni quella fatta alle politiche del 2022 dallo stesso Rotondi - portò 518 preferenze a Fdi (che comunque non ottenne eletti, non avendo superato di poco lo sbarramento del 4% a livello nazionale). Quei voti raccolti erano decisamente in quantità minore rispetto al passato - i numeri sono in grado di parlare da sé - ma è probabile che Senaldi non l'abbia presa troppo male, continuando la sua professione senza smettere di guardare con attenzione alla politica, innanzitutto locale. 
La sua ultima candidatura, a quanto si sa, risale alle elezioni regionali lombarde del 2023, quando è stato inserito nella lista Lombardia ideale, formazione un po' civica e un po' contenitrice di varie esperienze a sostegno della ricandidatura di Attilio Fontana. Pure in questo caso il conteggio finale dei voti raccolti non deve essere parso troppo soddisfacente, se rapportato al percorso politico passato (49 voti in tutto, peraltro raccolti nella circoscrizione di Milano e non in quella "naturale" di Varese), ma Senaldi, che probabilmente immaginava che la competizione sarebbe stata difficile, la sfida l'aveva raccolta lo stesso e si era impegnato (aprendo anche un proprio ufficio a Milano e riallacciando contatti in loco). 
Non aveva peraltro rinunciato a fare politica con la "sua Rinascita della Democrazia cristiana: nel 2021, per dire, la Rdc aveva partecipato a due liste composite, presentate alle amministrative di Busto Arsizio e di Gallarate (in quest'ultima, denominata Centro popolare Gallarate, era candidato anche Guido Senaldi, uno dei figli di Carlo). La commissione elettorale, tuttavia, chiese di sostituire il simbolo in entrambi i casi: alla base della richiesta, a quanto si sa, non c'era una ritenuta somiglianza con lo scudo crociato, ma l'aver considerato come "soggetto religioso" le due pennellate del simbolo di Rdc. Si dovette correre rapidamente ai ripari e il simbolo fu ridisegnato con una sola pennellata: pur dimezzato e accanto ad altri, il simbolo di Senaldi riuscì a tornare sulle schede (e in entrambi i comuni concorse a ottenere un eletto). 
I passaggi descritti fin qui rendono evidente l'interesse per la figura di Carlo Senaldi da parte dei drogatidipolitica, anche di coloro che non sono particolarmente attratti dalle traversie e dalla diaspora dei democristiani. Si condividano o meno determinate idee e posizioni, non può non colpire la determinazione nel non demordere, su ampia o su ridotta scala, per poter portare avanti un messaggio in cui si crede e nel proporlo ad elettrici ed elettori, sperando di trovare chi lo accoglie una volta di più: Senaldi è rientrato certamente nel paradigma, essendo stato tra coloro che hanno fatto tutto questo, più che con il timore di nuove delusioni, con il sorriso e la serenità per non avere perso l'occasione di provarci.

venerdì 28 febbraio 2025

Dc, il tribunale di Roma nega a Luciani l'esclusiva di nome e simbolo

Lungi dall'essersi esaurite, le vicende giuridiche relative ai tentativi di risvegliare la Democrazia cristiana offrono una nuova puntata "ambientata", in un certo senso, presso il Tribunale civile di Roma. Il 25 febbraio in cancelleria è stata infatti depositata la sentenza di primo grado - decisa il giorno prima - che fa seguito all'atto di citazione presentato lo scorso anno da Nino Luciani e Carlo Leonetti, che si qualificano rispettivamente come segretario politico e segretario amministrativo (nonché legale rappresentante) della Dc, almeno sulla base del percorso di riattivazione del partito da questi ritenuto legittimo. Il giudice Corrado Bile (della sezione Diritti della persona e immigrazione civile), lo stesso che a maggio dello scorso anno aveva negato la tutela cautelare a Luciani e Leonetti - richiesta in vista delle elezioni europee e delle altre consultazioni elettorali della primavera del 2024 - con la sentenza n. 2847/2025 ha però respinto le loro domande. 
Luciani e Leonetti, in particolare, avevano chiesto che il tribunale accertasse che la Dc da loro guidata era "in continuità giuridica soggettiva con il Partito della Democrazia Cristiana fondato nell’anno 1943" e che, su quella base, aveva titolo per rivendicare la piena ed esclusiva titolarità della denominazione "Democrazia cristiana" e dello scudo crociato, sulla base del "diritto al nome" previsto dall'art. 7 del codice civile; in base a quest'accertamento, secondo gli attori, il giudice avrebbe dovuto ordinare a tutti coloro che erano stati convocati in giudizio di smettere di usare in qualunque occasione il nome e il simbolo della Dc o altri segni identificativi confondibili, prevedendo anche una penale per ogni ulteriore uso indebito di quei segni e condannando, in ogni caso, quei soggetti al risarcimento dei danni già prodotti alla Dc-Luciani. L'elenco dei soggetti che avrebbero dovuto cessare ogni molestia, del resto, era piuttosto lungo: l'Unione dei democratici cristiani e democratici di centro (vale a dire l'Udc), rappresenta dal segretario Lorenzo Cesa e dal segretario amministrativo Regino Brachetti; Maurizio Lupi, quale presidente di Noi moderati (la cui presenza può spiegarsi soltanto in virtù della partecipazione dell'Udc a Noi moderati, inteso non ancora come partito, ma come cartello-federazione di partiti per le elezioni politiche del 2022); Gianfranco Rotondi, in proprio e quale presidente della Democrazia cristiana con Rotondi; varie persone che attualmente si qualificano come segretari politici della "loro" Dc, in particolare Salvatore "Totò" Cuffaro, Antonio Cirillo (nel processo è intervenuta anche la Dc da lui guidata, attraverso il suo segretario amministrativo e legale rappresentante Sabatino Esposito), Angelo Sandri, Franco De Simoni (era stato citato anche il nuovo segretario amministrativo, Mario De Benedittis), Emilio Cugliari (in effetti si qualifica come "presidente facente funzione"), Lupo Rosario Salvatore Migliaccio di San Felice, ma anche Raffaele Cerenza, in qualità di presidente dell'Associazione Iscritti alla Democrazia Cristiana del 1993 (ed ex segretario amministrativo della Dc-De Simoni).

La sentenza

Per Luciani e Leonetti questa causa doveva servire ad "accertare definitivamente l'identità e la continuità politico-storica" (stranamente qui non è stata indicata anche quella giuridica, l'unica che per il diritto abbia valore, ma la si ritrovava in seguito) con la Dc "storica": in quel modo si sarebbe potuta fondare la rivendicazione e tutela (ex artt. 6 e 7 c.c.) verso tutti i soggetti - individuali e collettivi - "che, a decorrere dall'anno 1994 e sino ad oggi, hanno utilizzato illegittimamente la denominazione ed il simbolo del partito fondato da Alcide De Gasperi nel 19 marzo 1943". La continuità sarebbe dovuta discendere dalla nascita di altri partiti - incluso, pare di capire, il Partito popolare italiano, ritenuto soggetto diverso dalla Dc - generata "dal recesso di alcuni soci dalla Democrazia Cristiana, circostanza che non avrebbe dato luogo ad una scomparsa dell'ente dante causa": Leonetti e Luciani sostenevano in particolare che esistesse "un'identità tra i propri iscritti e quelli costituenti l'originario partito nell'anno 1993". Su queste basi, tutti gli accordi stipulati tra soggetti ritenuti "nuovi" e relativi (anche) al nome e al simbolo della Dc - inclusi i c.d. "accordi di Cannes" del 1995 - si sarebbero dovuti ritenere nulli, visto che solo quel partito - mai estinto - avrebbe potuto disporne; allo stesso tempo, l'uso del nome e dello scudo crociato sarebbe avvenuto in violazione delle leggi elettorali che tuttora non ammettono la presentazione di contrassegni "riproducenti simboli, elementi e diciture, o solo alcuni di essi, usati tradizionalmente da altri partiti".
Erano di ben altro avviso i soggetti convenuti, a partire dall'Udc: il partito aveva innanzitutto sostenuto che i giudici si erano già espressi in modo definitivo sulle questioni legate alla Dc (a partire dalla nota sentenza della Corte d'appello civile di Roma n. 1305/2009, confermata dalla Cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 25999/2010), decidendo che - secondo il riassunto fatto dalla difesa dell'Udc - "tutti gli attuali soggetti che pretendono di accreditarsi nell’opinione pubblica come Partito della Democrazia cristiana, non hanno, in verità, alcuna continuità storico giuridica con tale soggetto", dunque nessuno può agire in suo nome e per suo conto; secondariamente, l'Udc ha rivendicato di aver impiegato lo scudo crociato in tutte le competizioni elettorali dal 2002 in poi, per cui quel simbolo "ha finito per essere, inequivocabilmente, ricondotto dalla coscienza collettiva a tale Partito, insediato da tempo, con una propria rilevante rappresentanza, in Parlamento nazionale ed europeo", Lupi, per parte sua, ha negato qualunque responsabilità circa l'uso del nome e del simbolo della Dc, ricordando l'episodio della lista comune Noi moderati del 2022, ma precisando che "i singoli partiti non abbandonano la loro identità" (per cui aveva chiesto di essere estromesso dal giudizio, auspicando comunque il rigetto delle domande degli attori e la condanna di questi ultimi al risarcimento "da lite temeraria").
Quanto alle "altre Dc", la Democrazia cristiana con Rotondi aveva formulato varie eccezioni in rito (sulla corretta notificazione dell'atto di citazione e sulla corretta rappresentanza dell'associazione guidata da Luciani) e aveva chiesto che fosse chiamato in giudizio il Ppi - ex Dc, quale soggetto che nel 2004 aveva concesso a Rotondi l'uso del nome "Democrazia cristiana", chiedendo piuttosto che fosse inibito alla Dc-Luciani l'uso del nome della Dc, con tanto di condanna al risarcimento del danno. La Dc-Cuffaro aveva ricordato che era già pendente la causa iniziata 2023 da quel partito davanti al tribunale di Avellino per accertare la continuità giuridica con la Dc "storica" (per cui la nuova causa, a suo dire identica o comunque contenuta in quella precedente, avrebbe dovuto terminare il proprio percorso - ed eventualmente essere riassunta presso il tribunale irpino - o tutt'al più essere sospesa in attesa che il giudizio di Avellino si compisse); in ogni caso, aveva chiesto il rigetto delle domande. Pure De Simoni, ritenendo privi di legittimazione Luciani e Leonetti (qualificati come "espulsi" o non correttamente insediati, o comunque decaduti), aveva chiesto una pronuncia di rigetto; lo stesso aveva fatto Cugliari, che peraltro aveva sottolineato di essere stato "nominato Presidente f.f. della Dc [al posto di Luciani, ndb] all'Assemblea del 1-2 luglio 2020" e di essere rimasto da allora in carica, rappresentando "regolarmente la Dc in attesa di un regolare Congresso che nessuno è riuscito a svolgere" (il che avrebbe prodotto necessariamente la prorogatio dell'unico organo che assume la rappresentanza legale dell'associazione, almeno fino alla sua regolare sostituzione). 
Quanto alla Dc-Cirillo, essa - oltre a ricordare il giudizio promosso da Cuffaro ad Avellino, chiedendo la cancellazione della nuova causa - aveva contestato la "ricostruzione storica" alla base della rivendicata continuità tra Dc "storica" e Dc-Luciani: a detta dei suoi difensori, "il partito di cui è rappresentante il signor Sabatino Esposito ha ri-attivato gli organi del partito attenendosi in modo puntuale alle prescrizioni dello statuto", per cui è stato chiesto il rigetto delle domande di Luciani e Leonetti, pretendendo allo stesso tempo che si dichiarasse nei confronti delle altre associazioni che la Dc-Cirillo era "l'unica legittimata ad utilizzare simbolo e denominazione" della Democrazia cristiana. Non si sono costituiti, tra gli altri, Sandri, Cerenza e Migliaccio.
Il giudice Bile ha ritenuto di doversi esprimere sulle domande, ritenendo che non ci fosse completa identità di parti tra la causa attribuita a lui e quella trattata presso il tribunale di Avellino (né la causa romana poteva dirsi "contenuta" in quella avellinese): ha sottolineato anzi che "la presenza di più parti finisce per riflettersi sull’oggetto del giudizio, implicando una valutazione complessiva sulla oramai annosa questione inerente alla possibilità di utilizzare denominazioni, contrassegni e simboli che si ricollegano al partito della Democrazia Cristiana da parte di soggetti già da tempo presenti sulla scena politica italiana" (motivo in più, dunque, per decidere la causa e non rinviare la soluzione di dubbi).
Lo stesso giudice, di fronte ai vari tentativi di eccepire che Leonetti e Luciani non fossero legittimati a iniziare l'azione, ha ricordato che "la legittimazione ad agire e a contraddire, quale condizione dell'azione, si fonda sulla prospettazione ovvero sull'allegazione fatta in domanda". Per Bile, insomma, Luciani e Leonetti si sono qualificati rispettivamente segretario politico e amministrativo della "loro" Dc e hanno agito come tali, apportando documenti che confermano quella posizione: riconoscere la legittimazione ad agire, però, non significa in automatico che i due attori siano anche allo stesso tempo figure di vertice della Dc "storica".  
Il giudice, infatti, ha ritenuto che le domande dei rappresentanti della Dc-Luciani non dovessero essere accolte. Risulta di un certo interesse che questi, per indicare le norme sulla base delle quali condurre il giudizio, abbia richiamato l'art. 2-bis del "decreto elezioni 2024" - quello che ha messo in chiaro la netta distinzione del diritto elettorale da quello dei marchi (rendendo del tutto ininfluente il deposito di un fregio come marchio ai fini della partecipazione alle elezioni) - insieme alle disposizioni del testo unico per l'elezione della Camera (d.P.R. n. 361/1957) in materia di deposito, ammissibilità ed esame dei contrassegni elettorali. 
Dopo aver ricordato che "[i] segni distintivi costituiscono l'insieme di elementi grafici essenziali in cui si riassume la configurazione identitaria del partito, nonché la sua capacità di rendersi riconoscibile agli elettori" e aver richiamato sia il parere del Consiglio di Stato n. 218/1992 sulla confondibilità tra contrassegni (che ha invitato a valutare eventuali somiglianze tra contrassegni considerandoli per intero, non con riguardo "ai singoli elementi che ben possono essere comuni a più partiti politici"), sia le decisioni dei giudici civili - incluse due della Cassazione, la prima relativa all'Associazione italiana contro le leucemie - Ail (2015), la seconda ad Alleanza nazionale e alla Fondazione Alleanza nazionale, ordinanza che nel 2020 aveva ribaltato il verdetto della Corte d'appello di Firenze che aveva dato ragione al Nuovo Msi di Gaetano Saya e Maria Cannizzaro - che hanno riconosciuto ai partiti quali associazioni non riconosciute il diritto al nome e a vederlo tutelato ex art. 7 c.c., il giudice ha riconosciuto la prassi di chiedere la registrazione come marchio dei simboli dei partiti; egli ha però anche ricordato che "la titolarità civile di un emblema non si sovrappone alla sua titolarità elettorale, e non offre tutela nell’ambito dell’uso politico dei simboli" (citando a proprio sostegno la "sentenza Vannucci" con cui il tribunale di Roma nel 2009 aveva tra l'altro escluso che la domanda di marchio presentata dalla Dc-Sandri potesse avere qualche effetto nei tanti contenziosi in corso).
Per il giudice, il parametro di valutazione va rintracciato nella "volontà di scongiurare il rischio di confusione sugli elementi caratterizzanti le diverse formazioni politiche" e nella "tutela dell’elettorato, quale espressione della sovranità popolare, costituzionalmente riconosciuta". Sul primo punto non ci sono dubbi; lascia più perplessi il secondo, dal momento che l'azione non era stata impostata con riguardo alla partecipazione alle elezioni - fatta salva la contemporanea instaurazione del giudizio cautelare in vista del voto di primavera del 2024 - e non spetta certamente al giudice civile occuparsi di tutela dell'elettorato (almeno non in questo caso).
In ogni caso, il tribunale ha preso atto dell'uso elettorale dello scudo crociato da parte della Dc dal 1948 al 1992 e poi dell'Udc "nel corso di un arco temporale di circa trent'anni, ottenendo un consenso che le ha consentito la presenza in Parlamento". Un periodo di tempo così lungo da non potersi ritenere "irrilevante ai fini di stabilire la consistenza del carattere identitario del simbolo e la relativa spettanza", volendo applicare il principio consolidato (dalla Cassazione) in base al quale "il trascorrere del tempo costituisce già di per sé un elemento idoneo a giustificare un diverso trattamento". Si è trattato di un uso prolungato "del simbolo che ha caratterizzato un partito politico rimasto sostanzialmente inattivo per moltissimi anni": per il giudice, quell'impiego consolidato ha prodotto in capo all'Udc "il formarsi di una identità riconoscibile da parte dell’elettorato che, nel tempo, ha avuto modo di esprimersi con il voto", al punto tale da finire per cambiare il significato del simbolo stesso (dovendosi escludere che lo scudo crociato "abbia mantenuto intatte le proprietà originarie che ne determinavano la riferibilità esclusiva ad una forza politica attiva eminentemente nel secolo scorso"). 
La sentenza cita il precedente della Cassazione a sezioni unite del 2010, ma per dire che solo allora si è affermato "con certezza che il mutamento di denominazione della Democrazia Cristiana in Partito popolare italiano [...] non fosse avvenuto poiché deliberato in contrasto con le previsioni statutarie"; dal 1994 al 2010, in compenso, "anche l'elettorato è stato esposto al diffuso convincimento di un avvenuto mutamento di denominazione e, dunque, ne ha preso atto, maturando una nuova e diversa consapevolezza circa l'identità delle formazioni politiche in campo e circa la riconducibilità dei segni distintivi a questo o a quel partito". Ovviamente l'Udc è nata ben dopo il 1994, ma ha operato e partecipato alle elezioni per oltre vent'anni: le stesse norme elettorali, nel tutelare l'affidamento dell'elettore verso i partiti presenti in Parlamento, proteggerebbero "un interesse che oggi non può più riconoscersi come radicato in modo prevalente in capo alla Democrazia Cristiana storica", dovendosi riconoscere un "uso tradizionale" (anche) "in capo ad altri che ne hanno fatto uso per anni". Non viene accolto nemmeno l'argomento della maggiore presenza in Parlamento della Dc (1948-1994) rispetto all'Udc (dal 2002, o dal 2006 se si contano le elezioni cui ha direttamente partecipato): occorre infatti "tenere conto del momento storico in cui tale presenza si è manifestata, di quanto accaduto nel tempo e delle conseguenze che l'articolarsi delle vicende ha determinato".
Per il giudice, dunque, senza disconoscere il rispettivo diritto al nome, occorre far prevalere la citata tutela dell'elettorato - che può esplicitarsi anche nel controllo sui simboli, da ricondurre "al principio di libertà di voto tutelato dall’art. 48, comma 2, Cost." - e valutare sulla base della "normale diligenza dell'elettore medio di oggi", ritenuta maggiore rispetto a quella del passato (come ribadito da varie sentenze amministrative), il che fa propendere per un giudizio meno severo sulla confondibilità, ma pur sempre condotto con uno sguardo sintetico e complessivo sul simbolo ("guardando se l’insieme degli elementi grafici essenziali – pur con le variazioni del caso – conservi gli elementi salienti dell'emblema tradizionale"). Su queste basi, "il fatto che ognuna delle parti in giudizio abbia svolto la sua attività politica nel tempo utilizzando, a seconda dei casi e con le relative differenziazioni, simboli, contrassegni e denominazioni riconducibili al partito della Democrazia Cristiana, ha comportato il formarsi ed il consolidarsi di una chiara rappresentazione del panorama politico da parte dell’elettorato". Il che equivale a dire - peraltro in modo non proprio cristallino - che l'uso prolungato da parte dei soggetti politici di nomi e simboli che richiamano la Dc non ha comunque confuso gli elettori, ma non permette nemmeno la rivendicazione di diritti esclusivi su quei nomi e quei segni, specie se si mira a imporre il cambio di denominazioni o emblemi con cui un partito ha operato sulla scena politica. Il che basta, secondo Bile, a respingere le domande della Dc-Luciani, ma anche quelle (speculari) della Dc-Rotondi e della Dc-Cirillo: tra questi soggetti le spese sono state compensate, mentre Luciani e Leonetti sono stati condannati per soccombenza nei confronti degli altri soggetti (Udc, Lupi, Cuffaro, Cirillo come singolo, De Simoni e Cugliari).

Reazioni e commenti

In rete non si sono fatti attendere i commenti di due tra le principali parti di questa causa. Giusto oggi Nino Luciani ha diffuso una sua nota a commento della sentenza, non esattamente gradita: 

Il ricorso della Dc al tribunale civile di Roma aveva due obiettivi: a) escludere tutti gli emulatori della Dc storica, e ottenere il riconoscimento della legittimazione del prof. Nino Luciani (ma anche a braccia aperte a tutti quelli che vogliono rientrare in base allo Statuto); b) ri-avere lo scudo crociato (detenuto dalla Udc).
Sulla legittimazione del prof. Luciani, come Segretario Politico della Dc, il giudice ha dato conferma positiva, e lo ha ripetuto una diecina di volte, tanti quanti erano i falsi emulatori, chiamati da me in giudizio. A riguardo del simbolo, invece, il giudice lo ha confermato dato alla Udc (e condannato il prof. Luciani alle spese). Vediamo meglio. 
Il giudice è convinto che, tra la Udc e la Dc, il simbolo spetti alla Udc perché lo ha usato da anni, e dunque (per confondibilità) l'elettore potrebbe essere tratto in inganno, se non lo trova nella scheda elettorale della Udc. Se il giudizio di Bile è corretto, la condanna alle spese (su di me, che ho sostenuto il contrario) è giustificata. E non conta nulla che, per la corte d'appello, la Udc non deriva dalla Dc e non ha diritto di usarne il simbolo. Dunque, l'uso prolungato ha creato un diritto. E non conta nulla che, secondo il codice civile, non esista usucapione dei beni immateriali. 
Ma noi avevamo fatto un esposto al giudice, ex art. 669-decies del c.p.c., in cui si rilevava (con prove oggettive) che la Udc non aveva, poi, presentato (nelle elezioni europee, 15 giorni dopo) il simbolo scudo crociato (essendo andata con la Lega, senza lo scudo crociato) e che ne aveva taciuto al giudice il 14 maggio 2024 (quasi mentito, in quanto la cosa era già comunicata sui giornali). Dunque era caduto il problema della confondibilità.
Si conclude che la condanna alle spese, su Luciani, resta per aria. E poiché il Giudice ha ignorato (neppure ne fa menzione) l'esposto ex art. 669-decies, siamo costretti ad andare in Corte d'Appello. 
Ultimo ma non ultimo. Siccome il simbolo è l'unica cosa rimasta da sistemare, abbiamo preparato alcuni simboli di riserva [...]. E siccome la Dc deve evolvere, io personalmente preferisco De Gasperi al posto dello scudo.
Il testo vergato da Luciani contiene una notizia: quasi di certo la sentenza del tribunale di Roma sarà impugnata e lo stesso Luciani tornerà in corte d'appello, dopo esservi stato tra il 2023 e il 2024 come parte convenuta/appellata (nella causa intentata da Cerenza e De Simoni per cercare di invalidare l'assemblea del febbraio 2017, tentativo non riuscito). Colpisce il riferimento alla conferma della legittimazione di Luciani e Leonetti come segretario politico e amministrativo della Dc "storica": in effetti le parole della sentenza - specie quelle sulle pretese attuali di una forza politica operante nel secolo scorso - paiono compatibili con questa lettura; è altrettanto vero, però, che il dispositivo parla semplicemente di rigetto della domanda, che comprendeva anche la dichiarazione di continuità giuridica tra Dc "storica" e Dc-Luciani (punto sul quale, a dire il vero, nelle motivazioni non c'è proprio nulla). 
Sulla questione del simbolo - quella che più lo ha scontentato - Luciani spiega di aver fatto notare come alle elezioni europee il simbolo dell'Udc non sia finito sulle schede e già questo avrebbe fatto venire meno ogni rischio di confusione. Ora, posto che il simbolo dell'Udc era comunque stato depositato al Viminale (e proprio un giudizio di confondibilità aveva portato a escludere il simbolo della Dc), non si capisce perché - superata la fase del procedimento cautelare - il giudice abbia sentito il bisogno di valutare la domanda degli attori attraverso criteri in gran parte dettati per le elezioni, peraltro dopo avere specificato egli stesso che il piano dei segni distintivi è diverso da quello elettorale (ma più in generale quello del diritto civile è diverso da quello elettorale e quest'ultimo non doveva essere considerato da un giudice civile in una fase di cognizione piena). Mentre la difesa di Luciani e Leonetti potrebbe essere impegnata a preparare il ricorso - magari considerando anche questi argomenti - lo stesso Luciani ha elaborato artigianalmente alcune proposte grafiche per sostituire lo scudo crociato (e che dovrebbero aggiungersi al "Bianco Fiore - Rosaspina" già proposto in passato). Su quelle proposte ci si permette solo di rilevare che quelle contenenti la croce, proprio perché esterna allo scudo, sarebbero considerate inammissibili per l'impiego di un soggetto religioso.
Se, in coerenza con il passato, non è arrivato nessun commento dall'Udc, si è espresso invece Gianfranco Rotondi con un post pubblicato il 26 febbraio su Facebook: 

La sezione 'diritti delle persone' del tribunale di Roma, guidata dal dottor Corrado Bile, ha emesso ieri una sentenza di decisione in merito al giudizio avviato dalla presunta 'Democrazia Cristiana storica', che rivendicava il diritto all'uso del nome e del simbolo della Dc. Il giudice Bile ha rigettato il ricorso, affermando che la vita elettorale della Dc si è conclusa nel 1992, e pertanto i partiti ad essa succeduti vantano autonomi diritti all'uso dei rispettivi simboli e nomi. 
Siamo soddisfatti dell’esito del giudizio, e siamo convinti che tali orientamenti saranno riaffermati anche ad Avellino, ove pende un giudizio altrettanto infondato e pretestuoso. Rimaniamo aperti alla possibilità di una intesa che permetta ai democristiani di riconoscersi in un partito che riproponga il nome e il simbolo della Dc, ma questo dipende dalla volontà dei protagonisti, non si può chiedere in tribunale.
Il riferimento di Rotondi a una possibile intesa per riproporre un partito che unisca nome e simbolo della Dc sembra ampiamente debitore di quanto accaduto a metà gennaio ad Avellino, alla prima udienza del processo iniziato da Cuffaro per rivendicare il nome della Dc. Mancando proprio i suoi avvocati, la causa era stata rinviata di sei mesi dalla giudice designata (Paola Beatrice), ma in quell'occasione questa avrebbe invitato a una sorta di conciliazione, suggerendo anche uno strumento giuridico per ottenere quel risultato ("la costituzione di una 'scatola giuridica' nuova, nella quale convergano tutte le associazioni conferendo ad essa le proprie ragioni o aspettative di diritto" aveva spiegato Franco De Luca a Roberta Lanzara di Adnkronos). 
Rotondi, in un post del 18 febbraio, aveva spiegato a modo suo quella proposta: 
La soluzione giuridica è semplice, limpida: ciascun partito che si sente titolare di diritti sul nome e il simbolo della Dc conferisce questi diritti a un nuovo soggetto unitario. Non importa se i diritti siano reali o presunti, velleitari o consolidati: importa il gesto comune, la rinuncia alla privativa e dunque alla convenienza. Penso di aver fatto il mio dovere: sono stato il primo a mettere a disposizione del progetto il nome della Democrazia cristiana, da me ininterrottamente utilizzato dal 2004, sulla base di una autorizzazione degli eredi aventi diritto del partito storico. Ho fatto un passo indietro, e ne sono orgoglioso. Questo percorso mette tutti di fronte a una precisa responsabilità: accettare la sfida di ritrovarsi, o provare a rinchiudersi nuovamente nel fortino delle convenienze maturate nel trentennio della diaspora, ciascuno assiso sul tronetto che da solo si è fabbricato. Ora è il momento della verità: si vedrà chi ci crede e chi no, chi è pronto a rischiare e chi a lucrare. Sarà un momento bellissimo, perché nessuno di noi potrà nascondersi e finalmente ciascuno assumerà una responsabilità pubblica e riconoscibile. E quel che resta del popolo democristiano non ci farà sconti, c'è da esserne certi.
Chi scrive prende atto della proposta e della almeno potenziale disponibilità di alcune delle parti. Ma si potrà davvero costruire di nuovo la Democrazia cristiana mettendo tutti d'accordo? Sinceramente è lecito dubitarne. Nessuna intenzione ovviamente di "gufare" per guastare il progetto, si augura sempre il meglio, ma è sufficiente guardare a cos'è accaduto finora per nutrire seri dubbi sulla possibilità che questo nuovo tentativo riesca. 
Da una parte, è facile notare che nel corso del tempo sono spuntati periodicamente nuovi soggetti che si ritenevano legittimi continuatori della Dc, in virtù di ricostruzioni diverse o di percorsi in parte da rifare: è sufficiente che uno o più soggetti - già noti o non ancora emersi - non accettino di partecipare al progetto comune e dicano con forza "la vera Dc sono io" per rischiare di aprire nuove pagine giudiziarie. Dall'altra parte, anche nella poco probabile ipotesi in tutti i partiti e gruppi politici potenzialmente interessati all'operazione accettassero di prendervi parte, si aprirebbe subito il problema del futuro di quel partito chiamato Democrazia cristiana e distinto dallo scudo crociato: un futuro fatto anche (se non innanzitutto) di persone, di ruoli e di numeri. Rotondi ha ricordato di aver messo a disposizione il nome della Dc a lui concesso in uso nel 2004; considerando però che lo scudo crociato attualmente è utilizzato anche dall'Udc, rappresentata in entrambi i rami del Parlamento (Lorenzo Cesa alla Camera, Antonio De Poli al Senato), si potrebbe realisticamente pensare che quel partito accetterebbe di partecipare al progetto politico comune senza assumerne la guida? E, al contrario, i gruppi democristiani più o meno piccoli, dopo essersi scagliati per anni contro le "rendite di posizione" di chi aveva nel frattempo ottenuto candidature e seggi usando il nome della Dc o lo scudo crociato e contestandoli agli altri, sarebbero disposti ad accettare un nuovo soggetto politico guidato di fatto dall'Udc? Questi dubbi, come si diceva, sono più che legittimi, ma la realtà potrebbe riservare sorprese: se ci saranno, ovviamente, verranno raccontate. E la storia dello scudo crociato, dentro o fuori dai tribunali, continuerà.

venerdì 9 febbraio 2024

Dimensione cristiana, un simbolo per ricordare Maria Fida Moro

L'autore di queste righe non ha mai conosciuto Maria Fida Moro, scomparsa due giorni fa a 77 anni, eppure ha incontrato le sue parole molto tempo fa, alla scuola elementare, quando un "libro di lettura" - così veniva chiamato spesso il volume adottato per la materia genericamente chiamata "Italiano" - riportò tra vari brani di prosa anche uno stralcio del suo primo libro, decisamente autobiografico: La casa dei cento Natali. Di quelle righe è rimasto il ricordo di un'atmosfera semplice e genuina, senza che quel bambino sapesse nulla dell'autrice, del ruolo politico avuto dal padre e dei 55 giorni più cupi del 1978 iniziati il 16 marzo con il rapimento di Aldo Moro in via Fani e conclusi il 9 maggio con il ritrovamento del cadavere del presidente della Democrazia cristiana in una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani. 
Qualche manciata di anni dopo, in un cestone di libri della biblioteca cittadina offerti agli utenti a una cifra simbolica quel non più bambino - divenuto nel frattempo un losco figuro, per giunta #drogatodipolitica - scorse proprio un'edizione economica di quel libro, ormai piuttosto difficile da trovare, e se ne appropriò immediatamente. Ritrovò nelle prime pagine quegli episodi di vita familiare (così insolitamente normali, per avere come protagonista un ministro e presidente del Consiglio) e si lasciò colpire dall'immagine offerta da un breve passaggio, ponte tra innocenza e apocalisse, di cui sarebbe stato sempre grato all'autrice: "Ho sempre pensato alla mia casa come ad un rifugio sicuro e lieto, tanto lieto che sembrava che lì fosse molto spesso Natale. La mia casa e la mia famiglia sono abbinate, nel mio cuore, all'idea del Natale. E nella casa dei cento Natali io ho vissuto serena, nonostante le difficoltà, fino al giorno dell'apocalisse, quando la cattiveria umana è venuta a frantumare tutte le certezze, in una volta sola, un qualsiasi giovedì di marzo".
Quel giovedì di marzo e il suo seguito di violenza, sangue e verità mai del tutto emerse ha di certo segnato il resto della vita di Maria Fida Moro: in uno degli ultimi eventi pubblici cui partecipò - e di cui questo sito si è occupato, trattandosi di una nuova pagina nel racconto delle vicende post-Dc, vale a dire l'assemblea "Popolari 101" del 18 gennaio 2020, una manciata di giorni prima dell'inizio dell'epoca Covid-19 per l'Italia - ribadì la sua convinzione che il padre fosse stato ucciso "non a caso, ma per il suo progetto politico dell'Europa, un progetto mazziniano, antico, fatto di contenuti e non solo di tappeti rossi e di fiori" e lamentò tra lo stupore generale che la legge n. 206/2004 prevedesse benefici per le vittime del terrorismo ma fosse "inapplicabile ad Aldo Moro" (e solo lo scorso anno la Camera ha di fatto esteso - secondo le dichiarazioni della stessa Maria Fida Moro, su impulso della presidente del Consiglio Giorgia Meloni - quei benefici anche ai discendenti dell'esponente democristiano ucciso dalle Brigate Rosse). 
Oltre all'impegno per difendere la memoria del padre (pure attraverso un'incessante ricerca della verità, al di là di ogni "versione ufficiale"), questo sito vuole ricordare l'impegno politico di Maria Fida Moro, segnato da varie candidature, ma non solo. Per quanto se ne sa, la prima candidatura di rilievo - la sola sfociata in un'elezione - risale al 1987 (undici anni dopo l'ultima candidatura nazionale di Aldo Moro, avvenuta però alla Camera, nel collegio di Bari-Foggia), quando la Democrazia cristiana scelse di candidarla al Senato, in Puglia, nel collegio di Bitonto: staccò gli altri candidati con oltre 49mila voti (il 35,41%, ben più alto del 21,11% del Pci, del 18,31% del Psi - che candidò Gennaro Acquaviva - e del 10,32% del Msi, per fermarsi ai partiti con un risultato a due cifre; Moro riuscì così a ottenere uno degli otto seggi spettanti alla Dc in quella regione, entrando nel gruppo di Palazzo Madama contrassegnato dallo scudo crociato.
Nel mese di ottobre del 1990, tuttavia, durante il restauro dell'appartamento milanese di via Monte Nevoso che le Br avevano usato come covo, emersero varie lettere inedite (e non spedite) di Aldo Moro, contenenti giudizi molto duri su vari esponenti della Dc. Pochi giorni dopo Maria Fida Moro annunciò l'intenzione di abbandonare il partito: lasciò il gruppo il 7 marzo del 1991, approdando da indipendente a quello della Rifondazione comunista (presieduto da Lucio Libertini). Lei stessa, oggetto di feroci critiche dal mondo cattolico per quella decisione, in una nota parlò di una scelta "maturata liberamente e spontaneamente. Fermo restando che io rimango quella che sono e che sono sempre stata, e le cose in cui credo son quelle, spero di aver finalmente l'opportunità di sentirmi membro di un gruppo, cioè accettata a pieno titolo nonostante il mio cognome. Ribadisco la mia amicizia nei confronti di tutti i parlamentari di qualsiasi partito ed in particolare di coloro che mi hanno accolto in senato riconoscendomi in buona fede e trattandomi con lo stesso rispetto che io dedico a tutti. 
ho scelto, sull'esempio di mio padre, di vivere la politica come servizio e di stare sempre dalla parte degli ultimi. non sono comunista più di quanto non sia stata democristiana, perché non credo nelle etichette, ma nelle persone. Considero di essere approdata in uno spazio libero dove dalle differenze nasca la possibilità di un mondo migliore". In quel momento - poco più di un mese dopo la fine del XX (e ultimo) congresso del Pci e la trasformazione di quel partito in Pds con la scissione a sinistra - Rifondazione comunista non aveva ancora un simbolo definito, anche perché il partito di Sergio Garavini, Libertini e Armando Cossutta rivendicava per sé il nome e l'emblema del Pci (e il nome indicato nell'atto costitutivo era proprio "Partito comunista italiano", mentre l'etichetta del gruppo parlamentare era dichiaratamente provvisoria): solo il 26 aprile sarebbe arrivata l'ordinanza con cui il Tribunale di Roma inibiva al "sedicente" Pci l'uso delle vecchie insegne, ma nel frattempo si erano dovute depositare le liste per varie elezioni comunali del 12 maggio e i rifondatori comunisti, nei non pochi casi in cui il simbolo originale del Pci non era stato ammesso, avevano dovuto escogitare soluzioni grafiche alternative.  
Già prima che Rifondazione comunista tenesse il suo primo congresso (a dicembre del 1991), però, Maria Fida Moro lasciò il gruppo, probabilmente non condividendo il ricorso "guerresco" all'ostruzionismo parlamentare (e altri atteggiamenti del nascente partito): alla fine di novembre passò al gruppo misto e lì terminò la X legislatura. Alle elezioni politiche del 1992 fu il Partito socialista italiano (quello in versione "allargata", con "Unità socialista" nel simbolo) a candidarla, sempre al Senato e sempre in Puglia, ma in quel caso direttamente nel collegio di Bari; gli oltre 24mila voti ottenuti (pari al 15,36%) furono battuti solo dai 39mila del democristiano Luigi Ferrara Mirenzi, ma superiori ai consensi raccolti dalle persone candidate dal Msi (terzo partito in quel collegio), dal Pds, dal Psdi (che proponeva Mimmo Magistro, futuro segretario), dal Pri e da altre formazioni, incluso il partito che l'aveva accolta nel suo gruppo nei mesi precedenti, Rifondazione comunista (che aveva schierato Luciano Canfora), ma la percentuale del Psi in Puglia era stata più alta (17,22%), così quello di Maria Fida Moro non poté risultare uno dei quattro risultati relativi migliori in regione, in grado di aggiudicarsi un seggio.
Se molto scalpore aveva destato l'adesione al gruppo rifondatore comunista, 
a novembre del 1993 non fece meno discutere la candidatura come sindaca del comune di Fermo per il Movimento sociale italiano - Destra nazionale (ottenne il 5,44% e divenne consigliera): "Voglio verificare - dichiarò - se nel nostro paese esistono ancora degli spazi democratici". Già in primavera Maria Fida Moro aveva iniziato a scrivere sul settimanale L'Italia, diretto da Marcello Veneziani e legato alla "nuova destra". ''Mi ferisce ancora nel ricordo - scrisse - l'episodio che mi ha convinta ad uscire da Rifondazione a causa di una mia doverosa difesa dell'onorevole Fini (che in quel momento neppure conoscevo di persona e del quale non condivido le idee, per esempio sulla pena di morte) gratuitamente emarginato da un incontro pubblico in nome dell'antifascismo. Antifascismo che però non ha impedito neanche un anno e mezzo più tardi a Rifondazione comunista di far parte del fronte del No insieme al Msi".
Già alla fine di febbraio del 1994, dopo aver concorso ai primi passi della futura Alleanza nazionale, Maria Fida Moro scrisse una lettera aperta a Gianfranco Fini per manifestare la sua delusione sul nascente progetto politico: "Per un anno io ho parlato in pubblico di Alleanza nazionale e mi era stata descritta come cosa altra e diversa da quella che vedo prefigurarsi ora. E questo non è giusto, perché io ho fatto da amplificatore ad un messaggio che ritenevo valido e credibile, ma che purtroppo non corrispondeva ad alcuna realtà". Non fu più candidata alle elezioni politiche, mentre partecipò alle elezioni europee del 1999: fu una sorta di ritorno a casa, visto che si presentò sotto le insegne di Rinnovamento italiano - Lista Dini, che aderiva al Partito popolare europeo; le 858 preferenze ricevute nella circoscrizione centrale e le 987 raccolte in quella meridionale, però, la tennero lontana dall'unico seggio conquistato dalla lista (andato a Pino Pisicchio).
Maria Fida Moro si avvicinò poi all'area radicale, aderendo al Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito e a Radicali italiani (entrò anche nella giunta di segreteria di quest'ultimo soggetto a febbraio del 2007, su richiesta della segretaria Rita Bernardini e della tesoriera Elisabetta Zamparutti): "Non perfetti, ma buffi, persone che tra valanghe di parole sono capaci di compassione", disse nel sintetizzare l'identità delle persone che davano corpo a quell'area. Nel 2021 aderì anche a Nessuno Tocchi Caino, nell'anno in cui proprio il volto e le parole di Aldo Moro furono impiegate nella nuova campagna di iscrizioni: "Lo faccio per papà, mi iscrivo a Nessuno Tocchi Caino. Mi iscrivo, tra parentesi, ad Aldo Moro" disse la figlia, secondo il ricordo che ne ha dato ieri Sergio D'Elia sull'Unità, aggiungendo anche qualche riflessione sul rapporto tra la figlia di Moro e Marco Pannella: "per Maria Fida era un 'mito', il fratello maggiore che aveva provato contro tutto e contro tutti a salvare il suo amato padre da chi era convinto che un nobile fine potesse essere perseguito con qualsiasi mezzo".
Proprio a sostegno di una figura nata in area radicale arrivò l'ultima candidatura di Maria Fida Moro, quando nel 2016 concorse alla lista Più Roma - Democratici e popolari per appoggiare la corsa di Roberto Giachetti a sindaco della capitale: lei ottenne 428 preferenze e Giachetti perse il ballottaggio contro Virginia Raggi. Volendo però cercare di raccontare un'esperienza politica decisamente personale e caratterizzante per la figlia primogenita di Aldo Moro, non si può prescindere dal partito politico che fu fondato a Bari alla fine di maggio del 2013 da lei (come vicepresidente) e dal figlio Luca Moro (presidente): Dimensione cristiana con Moro. Nelle iniziali delle prime due parole evocava la Dc, il simbolo conteneva uno stendardo bianco crociato su fondo azzurro, inserito in una corona blu, con il cognome "Moro" evidenziato in un cartiglio: "Abbiamo preso questa decisione - spiegò Maria Fida Moro all'agenzia Adnkronos commentando la scelta di fondare il movimento politico centrista - per due ragioni etiche: fare uscire Aldo Moro dal portabagagli e rimetterlo al centro della vita politica italiana e per ridare peso e valenza alle parole perdute della politica". Il simbolo descritto non finì mai al Viminale e non è dato sapere se abbia partecipato a qualche consultazione elettorale; di certo, però, rappresenta una pagina grafica e "simbolica" che non si può ignorare, specie nel momento in cui si augura a Maria Fida Moro che la terra le sia lieve.

giovedì 2 novembre 2023

Torna la Democrazia cristiana, con Rotondi e lo scudo crociato ribaltato

Missione compiuta, anche questa volta. Con il suo consueto fine settimana lungo a Saint-Vincent - organizzato da anni nella stessa città che nella Prima Repubblica aveva ospitato i convegni della sinistra sociale di Carlo Donat-Cattin - Gianfranco Rotondi ha attirato l'attenzione dei media e ha colto l'occasione per pre-annunciare (prima) e annunciare (poi) il ritorno del passato remoto e quasi-prossimo, leggermente rivisto. Torna la "sua" Democrazia cristiana, con il nome che lui stesso era stato autorizzato a usare alla fine del 2004 per il partito da lui appena fondato. Ed è proprio quel partito, come soggetto giuridico, a essere stato riattivato di nuovo, dopo che era stato "congelato" una prima volta alla nascita del Pdl (2008), "scongelato" nel 2018 quando lo stesso Rotondi aveva provato a guidare un tentativo di federazione di varie forze di area e ispirazione democristiana e "rimessa in sonno" un anno più tardi, dopo che alle elezioni del 2019 il progetto aveva mostrato i suoi limiti. Il progetto del 2004, insomma, viene rianimato, tra segni di continuità e altri di cambiamento (stavolta, per esempio, c'è uno scudo crociato - quasi jacovittesco - mentre Rotondi in passato non l'aveva voluto). Come in passato, vale la pena approfondire quei passaggi con il protagonista di questa storia - nonché di quella dei democristiani dopo la Dc storica, come prova la sua presenza frequente nel podcast Scudo (in)crociato - approfittando della sua disponibilità a farsi intervistare a ogni novità emersa.  

Onorevole Rotondi, possiamo dire che è iniziata la "terza vita" della "sua" Democrazia cristiana?
Mah, io faccio fatica a sezionare questa piccola storia: in realtà, dal punto di vista giuridico, la Democrazia cristiana è rimasta sempre quella da me fondata nel 2004. Ricordiamo le puntate precedenti per chi dovesse agganciarsi ora...
Ricordiamole.
La Democrazia cristiana conclude la sua unità nel 1994, con l'ultima battaglia unitaria del Partito popolare italiano, anche sotto le insegne del Patto per l'Italia guidato da Mariotto Segni; nel 1995 Buttiglione "spacca" il partito e, in seguito, sulla scena agiscono il Cdu e il Ppi. Successivamente il Cdu porta lo scudo crociato nell'Udc; contestualmente si rendono necessari nuovi negoziati tra gli "eredi" politici della Dc. In quell'occasione, si stabilisce che il patrimonio sia lasciato completamente nella titolarità e nella gestione del Ppi e l'uso dello scudo crociato viene confermato al Cdu; in seguito, su mia richiesta, i legali rappresentanti del Ppi firmano un atto con cui mi autorizzano a usare il nome "Democrazia cristiana" per identificare una nuova associazione costituita da me. 
Io, dunque, non rappresento nessuna continuità della Dc storica, ma sono autorizzato da quest'ultima [cioè dal Ppi - ex Dc, ndb] a usare quel nome. Fondato il partito nel 2004, ne abbiamo presentato le liste alle elezioni regionali del 2005 in Piemonte, Campania e Puglia: abbiamo subito i ricorsi dell'Udc che contestavano la confondibilità del contrassegno con il loro, ma abbiamo vinto, ora al Tar [per il Piemonte, ndb], ora al Consiglio di Stato [per le elezioni pugliesi, ndb], vedendoci riconosciuta la legittimità dell'uso di quel nome, diritto che io ho ricevuto in esclusiva come presidente di quell'associazione-partito. Noi abbiamo poi resistito, vincendo, anche in tutti i giudizi civili e amministrativi avviati nei nostri confronti da sedicenti Democrazie cristiane, ottenendo persino un decreto penale che condannava i rappresentanti di una di queste Dc "fasulle" a non molestare più gli esponenti della Democrazia cristiana. 
Questo per quanto riguarda gli inizi, poi?
Abbiamo partecipato - come Dc per le autonomie - alle elezioni politiche del 2006 [in una lista comune con il Nuovo Psi, ndb], ottenendo la possibilità di formare gruppi parlamentari alla Camera e al Senato; abbiamo poi concorso con Silvio Berlusconi a fondare il Popolo della libertà e, alla pari di Forza Italia e Alleanza nazionale, abbiamo deliberato di sospendere la nostra attività politica senza scioglierci. Spaccato e "finito" il Pdl, una parte consistente di An ha dato luogo a Fratelli d'Italia, Forza Italia ha ripreso il suo cammino e anche la Democrazia cristiana ha ripreso un'attività autonoma. In seguito, anche se il partito è rimasto sempre lo stesso, abbiamo ritenuto di presentarci con motti diversi dal nostro nome ufficiale: io do, come tutti i parlamentari, un contributo mensile al mio partito e i miei soldi li ho sempre dati alla Democrazia cristiana, solo che in vista del 2018 ci siamo presentati con il motto "Rivoluzione cristiana", mentre in vista di quelle del 2022 il motto è diventato "Verde è Popolare". Non si è trattato di partiti nuovi rispetto alla Dc: erano sempre espressione dell'esperienza di questa Democrazia cristiana comunemente nota come "la Dc di Rotondi". Ora che abbiamo ripreso questa denominazione abbiamo, in un certo senso, consacrato una cosa che nel linguaggio comune già c'era, chiamandola "Democrazia cristiana con Rotondi". Questo è anche, se vogliamo, un gesto distensivo verso le Dc che noi chiamiamo "apocrife": nel giorno in cui queste rinsavissero, capendo che una Democrazia cristiana deve partire da chi ha il diritto di usare questa denominazione, noi la metteremmo a disposizione di un progetto politico comune, togliendo evidentemente la dicitura "con Rotondi" che ora serve solo a evitare confusioni in questo gran pasticcio di soggetti che aspirano a essere la Dc.
Questa proposta, se ben ricordo, l'aveva già formulata in agosto, quando il giudice Goggi del Tribunale di Roma aveva respinto il ricorso di Cuffaro contro l'Udc sull'uso dello scudo crociato.
Vede, in effetti Cuffaro presenta un simbolo diverso da quello dell'Udc, ma anche da quello della Dc storica e dal nostro, quindi per certi aspetti è un dispendio di energie: in queste condizioni tutte queste Dc non raccolgono grandi consensi.
Sembrano condizioni più favorevoli ad alcuni sport preferiti dai democristiani, di cui ha parlato nel suo ultimo libro La variante Dc...  
Già, cacciata del segretario e scissione: questi sono diventati gli esercizi della Dc nel tempo del declino. Ma insomma, ha presente la famosa frase per cui la storia si presenta una prima volta come tragedia e una seconda come farsa? Qui siamo oltre: siamo ormai al cabaret...
Faccio un passo indietro: diceva che non ha costruito partiti nuovi rispetto alla Dc(a), ma aveva un proprio statuto Rivoluzione cristiana e ce l'ha anche Verde è Popolare.
 
In effetti si è provveduto a dare uno statuto autonomo a entrambe queste fasi, come se si trattasse di correnti di pensiero che operavano dentro la Dc. Il fatto è che io pensavo che occorresse rinnovare il modo di presentarsi, invece abbiamo scoperto in questi anni che l'elettorato di riferimento si fabbricava da solo - come se usasse uno di quei kit di autostampa che si trovano in Rete - la sua Democrazia cristiana. A questo punto, diamo alla gente quello che la gente chiede: sarà una porzione limitata, non più un popolo democristiano ma un popolino, ma se vogliono la Dc perché non dovremmo dargliela?
Non è l'unico ritorno al passato: già alla vigilia dell'ultima giornata di Saint-Vincent aveva pubblicato una foto "anticipatrice" con Lucio Barani - con garofano d'ordinanza nel taschino - e Stefano Caldoro. Domenica 29 ottobre è stato reso noto un accordo tra i vertici della "sua" Dc e del Nuovo Psi. E la mente corre subito al 2006 e alla lista comune, ripescata come "migliore sotto il 2%" alla Camera...
Ma infatti io fatico a definire nuova l'iniziativa di Saint-Vincent: più che un rinnovamento, è una restaurazione di una linea politica che forse abbiamo un po' perso di vista in questi anni. Noi abbiamo riproposto i partiti del Novecento, visto che l'operazione è leggermente più vasta della riproposizione della Democrazia cristiana: noi pensiamo a un'area che riproponga le culture che hanno fatto grande il Paese, quindi il cattolicesimo politico, il socialismo democratico e riformista, il liberalismo, la tradizione repubblicana. Il pentapartito, insomma. 
Da queste culture politiche vogliamo far nascere classi dirigenti nuove, attrezzate e dare a Giorgia Meloni una seconda gamba, non forte come Fratelli d'Italia, ma sicuramente affidabile, desiderabile ed unita. Vogliamo creare una forza politica che, sì, si richiami alla Dc, ai socialisti... ma che sia attuale, viva nel tempo di oggi e proponga una classe dirigente lontanissima dalle patologie che hanno portato la Dc e anche il Psi alla distruzione. Per fare un esempio, noi non abbiamo mai abrogato o messo da parte il "codice deontologico" che volle Martinazzoli: in base a questo, nella Democrazia cristiana con Rotondi se si è indagati già non si può essere candidati. Il nostro è il solo partito a essersi dato questa regola, per cui abbiamo chiesto alle persone che candidavamo di autocertificare lo status di "non indagato"; certo, con l'andazzo che hanno preso le inchieste mirate di questi anni forse è il caso che anche noi riflettiamo sul punto, a livello locale e nazionale, e valutiamo l'opportunità di mantenere la regola di Martinazzoli...
Prima che valutiate, occupiamoci dei dettagli, che come è noto sono irresistibili per i #drogatidipolitica. Del nome si è già detto (ora e in passato); il colore di fondo del simbolo è lo stesso blu dell'ultimo periodo della Democrazia cristiana per le autonomie, il carattere del nome (Impact) anche. Non può sfuggire, però, che questa volta al di sotto del nome c'è lo scudo crociato, previsto anche nell'atto costitutivo del 2004, ma messo scientemente da parte fin dall'inizio in favore delle bandiere...
Vero, ma questo è uno scudo rispettoso delle norme: si differenzia infatti da quello che usa l'Udc in almeno sette punti, dunque non dovrebbe essere considerato confondibile. Aggiungo poi che, quando presenteremo le liste alle elezioni, probabilmente il più delle volte ci sarà lo scudo crociato originale della Dc: negli ultimi anni, infatti, in Lazio, Abruzzo e Molise ci siamo sempre presentati insieme all'Udc, quindi questo nostro simbolo è di fatto una mezza mela, perché contiamo di continuare a presentare liste col partito guidato da Cesa. In quei casi potremo quindi schierare lo scudo crociato originario, più attraente, sul quale il mio partito non ha alcun diritto: le leggi vigenti, infatti, tutelano l'Udc in questo senso.
Per questo nuovo simbolo, quindi, si è scelto uno scudo diverso: se non sbaglio si tratta di quello di Verde è Popolare, bianco bordato di rosso, invertendo dunque i colori tradizionali.
Sì, viene da quel logo. Di fatto il nuovo simbolo è quello di Verde è Popolare, con il nome e i colori cambiati: il partito, sostanzialmente, attua delle strategie un po' furbe di marketing di elezione in elezione, ma è sempre lo stesso...
Quindi, dicevamo, c'è lo scudo a colori ribaltati, mentre non ci sono più le foglie di Verde è Popolare...
... ma la missione ambientalista rimane: "Verde è Popolare", infatti, rimane il motto programmatico della Democrazia cristiana.
Curiosamente, però, nel comunicato firmato con il Nuovo Psi si intravede un simbolo diverso, con uno scudo realizzato quasi "a spray": sbaglio o è quello dei manifesti prodotti dalla Spes nel 1975, con lo slogan "30 anni di libertà, alcuni buoni, altri meno buoni, ma tutti nella libertà"?
Esatto, veniva proprio da là. Si trattava comunque di una bozza: il simbolo, in effetti, è ancora suscettibile di miglioramenti. Per esempio, a molti iscritti non piace che la scritta "con Rotondi" sia proposta in rosso, per cui la si potrebbe riportare in bianco su fondo blu come il nome del partito. 
Stava appunto parlando dell'espressione "con Rotondi": che differenza c'è con "la Dc di Rotondi" che si era appunto codificata sui media e negli ambienti della politica?
"Di Rotondi" darebbe l'idea di proprietà, un concetto brutto, no? Il riferimento al mio nome in effetti non è piaciuto a vari iscritti, in fondo non piace neanche a me, ma almeno evita ogni rischio di confusione con chi si ostina a usare il nome e il simbolo della Dc.
Tra i dettagli da considerare c'è anche il tempo scelto per il (ri)lancio del partito. Faccio io questa volta un riassunto delle puntate precedenti: la "sua" Dc nasce nel 2004 per rispondere a una situazione di disagio vissuta nell'Udc di allora, nel 2005 corre fuori dai poli e dimostra di essere un partito (a costo di far male al centrodestra), nel 2006 presenta la lista con il Nuovo Psi dentro il centrodestra, per poi confluire nel Pdl. Rivoluzione cristiana nasce nel 2015, praticamente a metà della XVII legislatura, per poi federarsi con Forza Italia; Verde è Popolare appare nel 2021, teoricamente due anni prima della fine della XVIII legislatura (poi ridotti a uno solo). Ora la Dc rispunta quando dalle elezioni è passato poco più di un anno: non è un po' presto?
Mah, la politica oggi corre molto più veloce, diciamolo francamente: tutto sommato siamo riusciti a dare una risposta tempestiva, ma ora il lavoro è tutto davanti a noi, perché ci sono tantissime cose da pensare. Per esempio, non butto via nemmeno l'esperienza dei 5 Stelle, che viene attentamente monitorata dai pochi che siamo in quest'avventura: se pensa alla famosa piattaforma di Casaleggio, noi vorremmo fare qualcosa di simile e di più. In particolare, stiamo pensando di affidare il tesseramento a una piattaforma, con la possibilità di svolgerlo interamente online, prevedendo strumenti stabili di interazione, discussione e anche votazione: è bella la fisicità dei congressi, ci piace, si può mantenere, ma i voti li pensiamo online, dando degli orari per votare, al termine dei quali il segretario regionale - per esempio - saprà di essere eletto in tempo reale. Questa Democrazia cristiana, insomma, inizia a operare in un tempo diverso rispetto a quella storica, ma anche al 2004 in cui l'associazione era stata costituita. 
Certo è che in passato lei è stato accusato di muoversi puntualmente un paio di anni prima per dimostrare una certa consistenza, in modo da poter ottenere ospitalità in altre liste al momento delle elezioni. Ora sembra davvero presto per un disegno simile...
Beh, qui intanto non c'è da parlare di ospitalità: con Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia abbiamo un rapporto che si sta strutturando, che non ha bisogno di attestati e benemerenze. Ci prepariamo come fanno i democristiani, cioè con occhio lungo e marcia lenta e sicura alla Terza Repubblica, al premierato, a un'altra stagione: prepariamo una Democrazia cristiana che sia dentro a quella battaglia al fianco di Meloni, questo mi pare sia chiaro a tutti.
Già, la Presidente del Consiglio che non ha partecipato personalmente a Saint-Vincent, ma ha inviato un messaggio in cui ha annunciato l'idea di portare l'Italia nella Terza Repubblica proprio con la riforma costituzionale...
Possiamo dire che la Democrazia cristiana è il primo partito che prenota la Terza Repubblica...
... cosa che forse non è troppo in linea con la marcia lenta democristiana di cui parlava prima...     
Eh, ma qui siamo in un tempo diverso. Dobbiamo pensare a un partito movimentista, vivace, presente sulla Rete, capace di gestire il fenomeno dell'autodeterminazione: pensi ai 5 Stelle che sono passati per le loro primarie, a Elly Schlein che ha "rubato" il Pd a Bonaccini... Il nostro tempo è questo e noi con queste regole giochiamo: siamo pronti a creare un partito contendibile, che possa portare anche al paradosso di vederlo guidato da una linea diversa da quella di Rotondi che pure è citato nel nome e sul simbolo.
Ma quest'idea del premierato, per come sembra delinearsi, la convince? Forse non è l'idea che ci si potrebbe attendere da un democristiano...
In verità io ho partecipato nella mia prima legislatura alla commissione Affari costituzionali: bene, ricordo che nel 1994 la proposta del Ppi, che era in pratica una Dc di sinistra, era quella elaborata dal grandissimo Leopoldo Elia, denominata "premierato forte" o "cancellierato". A chi ha poca memoria e si chiede come faccia un democristiano ad accettare il premierato, direi che possono esserci cento dubbi sul punto, ma un democristiano ne deve avere qualcuno di meno, visto che era la proposta dell'ultima Dc.
Tornando al rapporto con l'Udc, non può non colpire come, rispetto alla sua storia passata, il partito sia uscito piuttosto male dalle ultime elezioni politiche: la lista di cui faceva parte è rimasta al di sotto dell'1%...
Quella però è stata una scelta sbagliata: bisognava rendere ben visibile lo scudo crociato per chiarire l'identità. Perché, parliamoci chiaro, non c'era un'identità politica in quella lista: che significa "Noi moderati"? Chi sono? Quelli che sanno stare a tavola? Quelli che parlano a bassa voce? Non è chiaro.
Dopo la sua uscita nel 2004 e l'ostilità subita nei primi anni dall'Udc, ora potrebbe essere l'Udc ad avere bisogno della Dc di Rotondi, anzi, con Rotondi?
Ma noi in realtà abbiamo sempre marciato insieme e continueremo a farlo, tranne dove a livello locale non ci saranno le condizioni. Noi tendiamo sempre a formare liste di concentrazione democristiana, con l'Udc e le altre forze di quell'area: non diciamo "dopo di noi il diluvio", ci siamo dati una visibile identificazione sul mercato e vogliamo rimettere insieme la nostra comunità, ma non a dispetto di coloro cui ci sentiamo vicini sul piano delle idee e con cui vogliamo realizzare i migliori accordi.
Si riferisce solo a chi sta già nel centrodestra o anche a chi sta al di fuori?
Io penso che siamo in una fase in cui può accadere di tutto: bisogna esserci, esprimere le proprie idee e giocare la partita. Dove si arriverà non lo sappiamo nemmeno noi, sinceramente... Potrà essere un successone o un grande flop, lo si vedrà lungo il cammino. Diciamo che più che essere la quarta gamba del centrodestra, a noi interessa essere la seconda gamba di Giorgia Meloni: diciamolo con franchezza, la nostra è una coalizione, ma siamo meloniani, cioè siamo convinti che sia lei la persona da portare avanti e riproporre come Presidente del Consiglio. Prima delle elezioni nel 2022, oltre a Fratelli d'Italia, solo noi l'abbiamo indicata come leader: abbiamo fatto questa scelta allora e adesso facciamo un allestimento per la classe dirigente che ci ha seguito.
Per chiudere: pensando al suo sostegno a Giorgia Meloni, non posso non pensare alle sue parole al consiglio nazionale del Ppi dell'11 marzo 1995 - quello della sfiducia a Rocco Buttiglione - che ho inserito nella quarta puntata del podcast Scudo (in)crociato. Lei allora disse: "Se noi vogliamo resistere a Fini mettendoci con D'Alema gli lasceremo tutto il nostro spazio". Oltre un quarto di secolo dopo, il 26% di Fratelli d'Italia, partito certo non lontano dal percorso di An, mostra che molti cattolici hanno votato lì (e non il Pd), mentre Forza Italia e Lega hanno raccolto poco più dell'8% ciascuna, Renzi e Calenda sono stati poco al di sotto, la lista con l'Udc è andata malissimo. Si ricordava di averle dette, quelle parole?
No, non le ricordavo (ride), ma è andata proprio come avevo pensato: vuol dire che allora ero più lucido!