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giovedì 18 luglio 2019

Riformatori liberali: 14 anni fa i primi movimenti, aspettando il salmone

Chi l'ha detto che la politica d'estate si ferma? L'idea per un nuovo partito può sorgere anche nel caldone di metà luglio, quando molti pensano alla tintarella e a un bagno; qualcun altro, invece, nel 2005 si preparava a risalire la corrente. Era il caso di Benedetto Della Vedova, già europarlamentare della Lista Bonino dal 1999 (anno dell'exploit) al 2004 e dal 2001 aderente ai Radicali italiani (dopo essere stato alla guida dei Club Riformatori-Pannella). Proprio lui fu l'anima dei Riformatori liberali, partito che sarebbe ufficialmente nato il 6 ottobre 2005, con i piedi ben piantati nel centrodestra berlusconiano, ma con l'idea di portare avanti le battaglie liberali e libertarie anche da quelle parti, a dispetto dell'allergia di qualcuno. 
Già, ma il caldone estivo? C'entrava eccome, perché se la nascita sarebbe arrivata in ottobre, già il 22 luglio Della Vedova aveva lanciato - con un'intervista ad Adalberto Signore sul Giornale, il primo avviso su "qualcosa di radicale" che stava nascendo in seno al centrodestra. Perché a lui l'idea che i Radicali italiani si fossero avvicinati ai Socialisti democratici italiani di Enrico Boselli e Pannella avesse buttato lì l'idea di fare una lista comune laica alle elezioni politiche del 2006, o comunque di presentarsi nell'ambito dell'Unione guidata da Romano Prodi, non era proprio andata a genio. Soprattutto perché "quando io parlavo di alleanze mi rispondevano che la mia era 'la politica del nulla'; Emma Bonino si è spinta a dire che se fosse prevalsa la mia linea lei non avrebbe avuto più nulla a che spartire con i Radicali mentre Marco Pannella mi ha invitato a guardare altrove, in particolare alla Margherita". Ma se per Della Vedova c'era sicuramente più sintonia col centrosinistra sulla laicità, questo non poteva giustificare il tentativo di tornare in Parlamento "a fianco sì di alcuni liberali, ma pure dei pacifisti 'senza se e senza ma', degli antiamericani espliciti, dei giustizialisti, del verdi ogm-free e dei comunisti contrari alla legge Biagi" e sostenendo "un pezzo storico del sistema di potere come Prodi".
Per la forza che, tra gli anni '90 e 2000 era stata "la più radicalmente liberale e filoamericana, quindi più 'antisinistra italiana'. Non solo sulla guerra, ma pure sulle politiche economico-sociali, sul mercato del lavoro, sulla giustizia", al punto da essere definita eversiva o reazionaria dai dirigenti di sinistra, lo sguardo a sinistra "senza neanche il tempo di discuterne negli organismi del movimento" secondo Della Vedova sarebbe stato per lo meno azzardato: qualche risultato politico in più sarebbe potuto arrivare dal centrodestra, che forse avrebbe finalmente potuto fare la riforma liberale da tempo cercata (e fino ad allora incompiuta) sempre sotto il segno di Berlusconi, rivedendo lo spirito del 1994. 
Per questo, nel centrodestra si poteva costruire "un nuovo spazio di politica liberale e liberista". Per costruirlo, si stava avvalendo del concorso di varie persone "di storia politica radicale, liberale e riformista", a partire da compagni del Partito radicale transnazionale che però militavano in Forza Italia, come Giuseppe Calderisi, o che erano già stati eletti con il partito di Berlusconi, come Marco Taradash. Poteva starci un partito unitario di centrodestra, come il bipolarismo avrebbe suggerito ("sarebbe una sfida affascinante per i Radicali"), ma anche se non ci si fosse riusciti, ci sarebbe stato più spazio per esprimere idee liberali e liberiste nel centrodestra, "a partire dalla forza politica e riformatrice ancora inespressa di Forza Italia", troppo ammalata di moderatismo ma ancora valorizzabile. 
Della Vedova, Taradash, Calderisi e Carmelo Palma (anche lui risulta tra i fondatori della forza politica) non riuscirono a convincere Pannella e gli altri a convergere verso il centrodestra, come avevano sperato ("La cosa migliore - aveva riconosciuto Della Vedova - sarebbe avere il simbolo dei Radicali"): questi ultimi loro si misero in società con lo Sdi e riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno per liste - dell'associazione omonima costituita da rappresentanti della Lista Pannella e dello Sdi, con la partecipazione dell'Associazione Luca Coscioni e della Federazione dei giovani socialisti - collocate nel centrosinistra. 
Quanto all'area più liberale, sfumò anche il progetto di partito unitario - l'idea di proporzionale aveva finito per prevalere - cosi il gruppo si preparò a concorrere alle elezioni con il nome e il simbolo presentato alla stampa a novembre del 2005: un salmone - infilato tra le iniziali del partito - scelto per segnalare la decisione di risalire la corrente e andare nel verso opposto a quello seguito da Pannella & co. E, dal momento che la Rosa nel Pugno aveva scelto di indicare nel simbolo il riferimento ai "laici, liberali, socialisti, radicali", Della Vedova e gli altri decisero che l'emblema doveva essere più riconoscibile, così inserirono l'originale fregio a fondo arancione (con il salmone inspiegabilmente sfumato) in un cerchio blu, sopra la dicitura "Radicali per le libertà", con la prima e l'ultima parola in grande evidenza, per identificarsi e per marcare la scelta di campo. 
Il 19 febbraio 2006 fu dunque presentato il contrassegno che tra il 24 e il 26 febbraio sarebbe stato depositato in vista delle elezioni del 9-10 aprile. In effetti lo si vide soltanto sulle schede del Senato (e solo in Veneto, Puglia e Sicilia, perché altrove non si riuscirono a raccogliere le firme), perché alla Camera il partito preferì federarsi con Forza Italia, inserendo propri candidati nelle liste della bandierina berlusconiana: la coalizione tuttavia perse le elezioni e, dei candidati schierati in Fi, fu eletto solo Della Vedova. 
Prima, peraltro, durante la campagna elettorale, c'era stato il tempo di dedicarsi ai "grandi scherzi" anche nel centrodestra: a marzo era uscito Il caimano di Nanni Moretti e il 1° aprile - che caso... - le agenzie batterono un'indimenticabile dichiarazione di Calderisi e Taradash: "Per esprimere la loro piena solidarietà a Silvio Berlusconi e per dare la migliore risposta liberale all'infamante campagna accusatoria messa in atto dalla sinistra, i RL hanno deciso di modificare il loro simbolo, sostituendo il salmone con un caimano. Nelle Regioni dove siamo presenti con nostre liste, gli elettori troveranno ancora il nostro vecchio contrassegno perché è quello il simbolo depositato ufficialmente al Ministero degli Interni per questa competizione elettorale. Ma dall'11 aprile, adotteremo ufficialmente il nuovo simbolo, che affianca al nome Riformatori Liberali la sagoma di un caimano con gli stessi colori del salmone. Sarà un caimano salmonato".
Manco a dirlo, il caimano non comparve - ma chissà se un bozzetto qualcuno l'aveva preparato... - e, quando alla fine del 2007 si iniziò a parlare con insistenza del progetto che si sarebbe chiamato Popolo della libertà, i Riformatori liberali decisero di essere fin dall'inizio della partita. Della Vedova e Calderisi furono candidati ed eletti nelle liste del Pdl e, un anno dopo le elezioni del 2008, il partito del salmone optò per lo scioglimento (e per il contemporaneo lancio dell'associazione Libertiamo) poco prima che - a fine marzo 2009 - si arrivasse al congresso costituente che vide Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini approdare ufficialmente nello stesso partito. L'idillio durò poco, al punto tale che alla fine di luglio del 2010 i finiani costituirono Futuro e libertà per l'Italia: tra gli aderenti al gruppo parlamentare, c'era anche Della Vedova. Nel 2013 sarebbe stato eletto al Senato tra le file dei montiani e avrebbe aderito a Scelta civica (per poi diventare sottosegretario agli esteri), fino al lancio di Forza Europa nel 2017 e alla costituzione - con Radicali italiani e, in seguito, Centro democratico di Bruno Tabacci - di +Europa, di cui è divenuto segretario nel 2018. Il simbolo è decisamente più colorato di quello sorto nel 2005, ma quel salmone - mai utilizzato prima, mai più utilizzato dopo da altri, una delle pochissime escursioni ittiche della politica italiana - aveva lasciato il segno: chi si ritiene un cultore della Seconda Repubblica non può non considerare i Riformatori liberali come una pagina imprescindibile, anche se di breve durata.

domenica 20 gennaio 2013

Chi ha voglia di votare "Io non voto"?

D'accordo, la cosa più trasgressiva - da un certo punto di vista, comunque piuttosto morigerato - sarebbe mettere la croce con la matita copiativa sul simbolo della "lista civica nazionale 'Io non voto'". Già, perché c'era anche il suo fondatore, Carlo Gustavo Giuliana, sulla piazza del Viminale tra coloro che erano rigorosamente in fila ad aspettare il proprio turno per depositare il proprio contrassegno: una cosa quasi glam per il colorino lilla pallido, non fosse per quell' "Io non voto" scritto con quella forma bombata e quelle virgolette che di elegante non hanno moltissimo, a dire il vero.
Le idee, questi signori, in ogni caso le hanno chiare: "Siamo un gruppo di cittadini italiani delusi, disorientati e, soprattutto, completamente estranei al giro dei partiti presenti nel panorama politico nazionale. Noi - si legge nel sito della lista - non vogliamo avere nulla a che fare con i principali schieramenti che attualmente si contrappongono sulla scena politica italiana. Siamo, quindi, un gruppo di donne e uomini i quali, facendosi interpreti del crescente sentimento di rassegnazione e sfiducia nell’attuale sistema politico, hanno deciso, da ogni parte d'Italia, di dire 'Adesso Basta!' e reagire attivando un movimento d’opinione popolare con l'obiettivo di presentarsi alle elezioni politiche con una lista civica nazionale recante nel proprio simbolo la scritta IO NON VOTO"
Il popolo che si riferisce a quel contrassegno, dunque, sarebbe quello degli astenuti e delle schede bianche, che un voto di norma non lo esprime e, se non è maggioranza, detiene comunque un'ampia fetta di elettorato. Quella degli attivisti di "Io non voto", a ben guardare, è una missione: non solo perché si propongono di "sconfiggere il cancro della politica degenerata", ma anche perché cercherebbero di batterlo davvero, il cancro. Con i soldi ricevuti a titolo di rimborso elettorale, "Io non voto" si impegnerebbe a finanziare le associazioni indipendenti dalle lobby farmaceutiche "che dimostreranno di effettuare ricerca sul cancro e/o altre malattie incurabili nell'ambito della medicina cosiddetta alternativa".
La prima sfida, naturalmente, è consistita nel farsi ammettere il contrassegno: l'impresa è riuscita quest'anno, come pure nel 2008 e prima ancora nel 2006. Non era affatto scontata: per dire, ancora nel 1983 il Ministero dell'interno aveva bocciato tre simboli presentati dall'Associazione radicale per la Costituzione contro la partitocrazia, un gruppo della galassia radicale di cui faceva parte anche Peppino Calderisi. In perfetta sintonia con lo "sciopero del voto" proposto per le elezioni del 26 giugno di quell'anno, depositarono un emblema con la scritta "Scheda bianca", un altro con "Scheda nulla" e un altro ancora con entrambe le diciture. Il Viminale li ricusò, tra l'altro, ritenendoli inaccettabili perché illogici: se la scheda bianca è quella senza segni e la scheda nulla era quella senza segni validi, come si poteva ammettere un voto per quegli emblemi così strambi, che per la legge sarebbe stato valido ma avrebbe comunicato agli elettori un messaggio decisamente contraddittorio?
Superato lo scoglio del Ministero, tuttavia, il più grave resta quello delle firme: alle ultime due elezioni politiche "Io non voto" non è riuscito a raccogliere le sottoscrizioni necessarie per presentarsi. Anche per questo, Giuliana si è rivolto ad aspiranti consiglieri comunali che potessero fungere da autenticatori, arrivando a offrire loro il posto di capolista. Ce la farà entro domani? I cittadini, in qualche parte d'Italia, potranno votare "Io non voto"? 

venerdì 4 gennaio 2013

"Moltiplicazione dei Monti" vietata? No, ecco perché

La partita simbolica legata alla "salita in politica" di Mario Monti si sta allungando, arrivando quasi ai limiti della zona Cesarini: i tempi di presentazione dei contrassegni si assottigliano e i giornali parlano di bozzetti a non finire che affollano il tavolo del Professore, senza soddisfarlo pienamente.
Non nascondo che avevo appreso con grande soddisfazione, nella conferenza stampa tenuta da Monti per presentare il suo progetto politico, che il nome provvisorio scelto per la lista al Senato era "Agenda Monti per l'Italia", proprio come questo sito aveva suggerito (anche su impulso di un esperto di sistemi elettorali come il professor Fulco Lanchester); il nome poi sembra sia stato leggermente modificato, ma è nell'ordine delle cose e non stupisce. Era giusta anche la previsione di almeno due liste alla Camera, una delle quali sicuramente a vantaggio dell'Udc, per le considerazioni già viste sullo scudo crociato. Proprio alla Camera, però, a quanto pare si sta giocando la partita più insidiosa.
Ad aprire il fuoco, le dichiarazioni di Giuseppe Calderisi, già radicale, da tempo finito in Forza Italia e ora nel Pdl, ma soprattutto riconosciuto esperto di sistemi e procedimenti elettorali. "Il testo unico DPR n. 361/’57 obbliga le liste che si collegano in coalizione per cercare di conseguire il premio di maggioranza a depositare lo stesso programma e l’indicazione dello stesso capo della coalizione, ma obbliga altresì tutte le liste [...] ad utilizzare contrassegni diversi, non confondibili tra loro e che pertanto non possono avere in comune lo stesso logo, neppure ’singoli dati grafici’ o ’espressioni letterali’, o ’parole o effigi costituenti elementi di qualificazione degli orientamenti o finalità politiche connesse al partito o alla forza politica di riferimento, anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica’. Oltre al rischio di confondibilità, la legge  vuole evitare anche il rischio di annullamento dei voti espressi dagli elettori che appongono più segni su più contrassegni recanti la stessa dicitura". 
Per Calderisi, insomma, il nome di Monti o diciture che lo contengano non possono stare su più contrassegni. La legge, tuttavia, non lo dice. L'articolo 14, comma 4 del testo unico del 1957 che il parlamentare Pdl cita quasi per intero, infatti, non prevede che due emblemi elettorali non possano avere in comune un'espressione letterale o un elemento qualificante: dice che parole ed elementi "costituiscono elementi di confondibilità". Non è proprio la stessa cosa: altrimenti i simboli che usassero la parola "partito", o tutti coloro che si fregiassero di aggettivi come "democratico" o "comunista" sarebbero fuorilegge (tutti tranne il primo depositato, ovviamente) e questo il Consiglio di Stato l'ha precisato con chiarezza in un parere del 1992
Ora, perché mai la stessa regola non dovrebbe valere anche per l'indicazione del capo della coalizione? Tanto più che lo stesso Ministero dell'interno ha sostanzialmente riconosciuto come quei nomi, in quanto evidente indicazione del programma politico della lista che li utilizza, consentono un rapporto più chiaro con gli elettori, dunque aumentano la chiarezza, invece che diminuirla (infatti il Viminale richiede soltanto, benché questo non sia espressamente previsto, l’autorizzazione dell’avente diritto all’uso del proprio nome, in applicazione della normativa per la tutela della privacy). L'idea che tutti i simboli coalizzati possano avere l'indicazione del capo della forza politica non è un elemento di disturbo, semmai di trasparenza.
Un vero ostacolo alla presenza del nome di Monti su più simboli, dunque, non c'è. A meno che quel nome, per la posizione e la resa grafica, costituisca elemento di confondibilità, che invece dovrebbe essere sanzionato dal Ministero con la ricusazione. Al più, dunque le liste coalizzate dovranno rinunciare a riprodurre lo stesso elemento grafico in cui inserire il nome di Monti e faranno bene a tenere i loro simboli tradizionali (quelli dei partiti ovviamente) ben in vista - più dell'indicazione del leader - in modo da scongiurare il rischio di confondibilità: a queste condizioni, per la "moltiplicazione dei Monti" lo spazio dovrebbe esserci.