Nel 1992 finiscono le batterie della X legislatura, il voto è fissato per il 5 e il 6 aprile. Per i cronisti sono soprattutto le prime elezioni senza il Pci, con la curiosità di vedere che strade avrebbero preso gli oltre 10 milioni di voti andati cinque anni prima al partito di Natta. Nella seconda metà di febbraio si svolge il rito del deposito dei simboli, il primo a colori della storia italiana: le bacheche traboccano di segni, tra immagini nuove e simboli vecchi ridisegnati per adattarli alla stampa cromatica.
Vale anche per i segni tradizionali del comunismo, già a colori da anni sulle scenografie e sui manifesti del Pci e ancora visibili nel logo alla base della nuova quercia. Ma gli stessi colori e oggetti tornano anche nell'emblema sfoggiato dal Partito della rifondazione comunista: si tratta precisamente di «falce, martello e stella di colore giallo su bandiera rossa, inastata, distesa, inclinata a sinistra»; niente bandiera italiana sotto a quella rossa, niente vento a incresparla, in compenso al di sotto c’è un arco di cerchio a bande tricolori e in alto, sempre ad arco, la scritta maiuscola «Partito comunista».
Il 21 febbraio i simboli iniziano ad arrivare in bacheca, il 24 per i funzionari del Viminale i simboli vanno bene così. Garavini e Cossutta sembrano contenti, ma il giorno dopo la doccia è gelida. Un fax del ministero fa marcia indietro: «l’uso del nome Partito comunista si pone in contrasto con i principi dell’uso esclusivo del nome già appartenente a partito tuttora presente in Parlamento». In parole povere, il Pci ha cambiato nome, ma gli elettori l’hanno sempre chiamato “comunista” e l’aggettivo spetta a quel gruppo: i nuovi usino pure la falce e il martello (non si può impedire a chi professa l’idea di adottare quei segni), si sentano pure comunisti, ma cambino parola.
Nel quartier generale dei rifondatori circolano espressioni come «atto illiberale», «atto di intimidazione», «inammissibile violazione dei diritti di libertà» (parole del segretario Garavini). Se la prendono con i funzionari del ministro Vincenzo Scotti, ma soprattutto con il Pds: sempre secondo Garavini, dalle Botteghe oscure sarebbe arrivato un esposto per «difendere l’immagine del “vecchio” Pci». Nega il pidiessino Ugo Pecchioli, nega Scotti, sostenendo che al Viminale hanno deciso per conto loro.
Armando Cossutta non ci crede nemmeno per sbaglio: per lui «Il Pds ha perduto la testa, ha paura, e con ignobile arroganza […] pretende di impedire ad altri, a chi è comunista e vuole continuare ad essere comunista, di usare il nome di Partito comunista». Dal Bottegone non la prendono bene e persino Occhetto dice la sua: a chi gli dice che secondo Cossutta le vicende del simbolo rientrano in un accordo tra lui e il diccì Antonio Gava: risponde duro che «è un’affermazione ridicola». Alla fine, in qualche modo, l’atmosfera si calma, ma di sostituire il simbolo non si pensa proprio: tocca dunque all’Ufficio elettorale centrale presso la Cassazione decidere. E in Cassazione il giudizio si ribalta.
«In Italia – si legge nella decisione – sono esistiti il Partito comunista d’Italia, il Partito comunista italiano e il Partito comunista marxista-leninista», nessuno di essi è ora in Parlamento, quindi «il nome Partito comunista non può ingenerare confusione alcuna né trarre in inganno»; l’unico a potersi opporre era il Pds ma all’Ufficio non risulta niente di simile, quindi il nome incriminato può tornare al suo posto. Quelli di Rifondazione comunista, manco a dirlo, brindano: «È una vittoria non solo di Rifondazione ma di tutti gli antifascisti italiani» assicura Luciana Castellina e Garavini è finalmente soddisfatto. Al Bottegone non commentano la riammissione, anche se Massimo D’Alema tiene a precisare che «Sono loro che si sono cacciati nei guai perché sono degli imbroglioni»: il motivo per cui, dopo aver scelto di chiamarsi «Rifondazione comunista», abbiano scelto di rifarsi al nome storico del Pds sembra sfuggirgli del tutto.
Come che sia, sulle schede gli elettori trovano la vecchia bandiera con gli arnesi alla base della quercia del Pds e nella nuova versione stilizzata scelta da Rifondazione: alla Camera il partito di Occhetto ottiene oltre 6 milioni di voti, Garavini e Cossutta si limitano a superare i 2. La somma dei consensi è piuttosto lontana dal risultato del Pci del 1987, ma all’ombra della quercia si mastica amaro perché in tanti hanno segnato le loro preferenze accanto al simbolo di Rifondazione, come se avessero confuso i due partiti o per lo meno i loro simboli: per Veltroni – lo scrive Stefano Marroni su Repubblica – lo scherzetto è costato almeno un punto percentuale. Per i rifondatori, ovvio, sono sciocchezze: «Se uno degli elettori di Occhetto non ha capito che non è più del Pci – conclude lapidario Lucio Magri – vuol dire che è un cretino». A conti fatti, non sembrano nemmeno pochi.
Vale anche per i segni tradizionali del comunismo, già a colori da anni sulle scenografie e sui manifesti del Pci e ancora visibili nel logo alla base della nuova quercia. Ma gli stessi colori e oggetti tornano anche nell'emblema sfoggiato dal Partito della rifondazione comunista: si tratta precisamente di «falce, martello e stella di colore giallo su bandiera rossa, inastata, distesa, inclinata a sinistra»; niente bandiera italiana sotto a quella rossa, niente vento a incresparla, in compenso al di sotto c’è un arco di cerchio a bande tricolori e in alto, sempre ad arco, la scritta maiuscola «Partito comunista».
Il 21 febbraio i simboli iniziano ad arrivare in bacheca, il 24 per i funzionari del Viminale i simboli vanno bene così. Garavini e Cossutta sembrano contenti, ma il giorno dopo la doccia è gelida. Un fax del ministero fa marcia indietro: «l’uso del nome Partito comunista si pone in contrasto con i principi dell’uso esclusivo del nome già appartenente a partito tuttora presente in Parlamento». In parole povere, il Pci ha cambiato nome, ma gli elettori l’hanno sempre chiamato “comunista” e l’aggettivo spetta a quel gruppo: i nuovi usino pure la falce e il martello (non si può impedire a chi professa l’idea di adottare quei segni), si sentano pure comunisti, ma cambino parola.
Nel quartier generale dei rifondatori circolano espressioni come «atto illiberale», «atto di intimidazione», «inammissibile violazione dei diritti di libertà» (parole del segretario Garavini). Se la prendono con i funzionari del ministro Vincenzo Scotti, ma soprattutto con il Pds: sempre secondo Garavini, dalle Botteghe oscure sarebbe arrivato un esposto per «difendere l’immagine del “vecchio” Pci». Nega il pidiessino Ugo Pecchioli, nega Scotti, sostenendo che al Viminale hanno deciso per conto loro.
Armando Cossutta non ci crede nemmeno per sbaglio: per lui «Il Pds ha perduto la testa, ha paura, e con ignobile arroganza […] pretende di impedire ad altri, a chi è comunista e vuole continuare ad essere comunista, di usare il nome di Partito comunista». Dal Bottegone non la prendono bene e persino Occhetto dice la sua: a chi gli dice che secondo Cossutta le vicende del simbolo rientrano in un accordo tra lui e il diccì Antonio Gava: risponde duro che «è un’affermazione ridicola». Alla fine, in qualche modo, l’atmosfera si calma, ma di sostituire il simbolo non si pensa proprio: tocca dunque all’Ufficio elettorale centrale presso la Cassazione decidere. E in Cassazione il giudizio si ribalta.
«In Italia – si legge nella decisione – sono esistiti il Partito comunista d’Italia, il Partito comunista italiano e il Partito comunista marxista-leninista», nessuno di essi è ora in Parlamento, quindi «il nome Partito comunista non può ingenerare confusione alcuna né trarre in inganno»; l’unico a potersi opporre era il Pds ma all’Ufficio non risulta niente di simile, quindi il nome incriminato può tornare al suo posto. Quelli di Rifondazione comunista, manco a dirlo, brindano: «È una vittoria non solo di Rifondazione ma di tutti gli antifascisti italiani» assicura Luciana Castellina e Garavini è finalmente soddisfatto. Al Bottegone non commentano la riammissione, anche se Massimo D’Alema tiene a precisare che «Sono loro che si sono cacciati nei guai perché sono degli imbroglioni»: il motivo per cui, dopo aver scelto di chiamarsi «Rifondazione comunista», abbiano scelto di rifarsi al nome storico del Pds sembra sfuggirgli del tutto.
Come che sia, sulle schede gli elettori trovano la vecchia bandiera con gli arnesi alla base della quercia del Pds e nella nuova versione stilizzata scelta da Rifondazione: alla Camera il partito di Occhetto ottiene oltre 6 milioni di voti, Garavini e Cossutta si limitano a superare i 2. La somma dei consensi è piuttosto lontana dal risultato del Pci del 1987, ma all’ombra della quercia si mastica amaro perché in tanti hanno segnato le loro preferenze accanto al simbolo di Rifondazione, come se avessero confuso i due partiti o per lo meno i loro simboli: per Veltroni – lo scrive Stefano Marroni su Repubblica – lo scherzetto è costato almeno un punto percentuale. Per i rifondatori, ovvio, sono sciocchezze: «Se uno degli elettori di Occhetto non ha capito che non è più del Pci – conclude lapidario Lucio Magri – vuol dire che è un cretino». A conti fatti, non sembrano nemmeno pochi.
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