Dal 10 luglio, alla Camera ci sarà un gruppo parlamentare in meno: quello di Civici e innovatori, che all'inizio si chiamava Scelta civica per l'Italia. Si tratta dell'ultimo atto di una querelle iniziata praticamente un anno fa, il 14 luglio 2016, con l'uscita di Enrico Zanetti - segretario di Scelta civica e allora viceministro del governo Renzi - dal gruppo della stessa Scelta civica e passata, a ottobre, per la costituzione di un nuovo gruppo che fondesse Sc, i verdiniani di Ala e i sudamericani del Maie. Gruppo che, comprendendo allora come oggi meno di venti deputati, fu creato sfruttando una deroga espressamente prevista dal Regolamento di Montecitorio, che permetteva che nascessero gruppi ufficiali anche con meno componenti, purché rappresentassero "un partito organizzato nel Paese", che abbia presentato col proprio simbolo liste in almeno 20 collegi e abbia eletto almeno un deputato direttamente, ottenendo almeno 300mila voti.
Tutti questi requisiti Scelta civica li aveva, in abbondanza. Ed Enrico Zanetti ne era (e ne è) il segretario. Il problema è che, formalmente, per la Camera Zanetti e gli altri risultavano alla stregua di scissionisti, visto che se n'erano andati dal gruppo che era stato costituito nel 2013 da Scelta civica all'indomani delle elezioni. E, com'è noto, di norma chi se ne va di casa perde tutti i diritti sul patrimonio, nome compreso. Per questo, forte del mandato che sosteneva di aver già ricevuto a luglio 2016 dalla direzione del partito, Zanetti in qualità di segratario aveva rivendicato per il suo nuovo gruppo il nome di Scelta civica presso l'Ufficio di presidenza della Camera, chiamato a verificare se la deroga per la nascita della compagine potesse essere concessa. Quelli che non volevano cambiare gruppo, peraltro, sarebbero a loro volta scesi sotto i venti membri e non avrebbero certo apprezzato l'idea di perdere il nome (pur essendo rimasti in Scelta civica) e con esso la possibilità di continuare a configurarsi come gruppo, visto che la deroga non l'avrebbero più avuta loro.
Com'è noto, il 12 ottobre, l'Ufficio di presidenza della Camera si era riunito per discutere anche di questo e, nel bel mezzo del dibattito, era piombata una lettera di Mario Monti, ispiratore e fondatore di Sc, anche se dal 25 febbraio 2015 aveva lasciato il partito. Nella lettera, a quanto pare con toni molto fermi, lo stesso Monti precisava di essere titolare tanto del nome quanto del simbolo di Scelta civica e, forte di questo, negava che quei segni distintivi potessero essere utilizzati per avallare la nascita in deroga di un gruppo con "soggetti che sono in totale contrasto con i valori in base ai quali circa 3 milioni di cittadini diedero il loro voto nel febbraio 2013" a Scelta civica. A Giovanni Sanga (Pd), segretario d'aula cui spettava l'approfondimento giuridico e regolamentare sul caso, toccò valutare quest'altro dettaglio molto delicato.
La decisione fu apparentemente salomonica, ma - c'è da supporlo - non priva di imbarazzo. Le notizie circolate in quel giorno, infatti, riferirono che, sulla base dello statuto del partito e della scrittura privata relativa alla costituzione di Scelta Civica, Monti sarebbe stato riconosciuto titolare del simbolo, ma non anche del nome che esso contiene, per cui l'uso del nome in sé poteva essere riconosciuto a Zanetti, anche se non era titolare del logo. Alla fine, dunque, si scelse di concedere la deroga al gruppo di Zanetti (che allora, tra l'altro, era nella compagine di governo), proprio in ragione del riferimento al partito all'interno della denominazione di gruppo; quanto al gruppo residuo e non "dissidente", pur essendo rimasti i suoi aderenti nel partito (ora in realtà l'hanno lasciato, ma formalmente i loro nomi sono ancora presenti negli organi scritti sul sito www.sceltacivica.it), fu imposto loro di cambiare nome - i componenti scelsero, appunto, Civici e innovatori - e, vista la scesa sotto la consistenza minima e l'impossibilità di usare la stessa deroga concessa a Zanetti, si decise di concedere una deroga provvisoria, richiedendo che la compagine raggiungesse i venti deputati entro un "tempo congruo".
Tornando per un attimo al problema giuridico, la questione era francamente complessa. Per lo statuto, tra l'altro, l'uso del simbolo (esclusivamente nel rispetto dei principi statutari) può avvenire solo secondo le modalità e per i fini approvati dal Comitato di presidenza, organo che autorizza l’utilizzo dell'emblema in sede elettorale; spetta all'Assemblea nazionale del partito, su proposta della Direzione nazionale, deliberare "la modifica integrale, l’abbandono o il cambiamento del simbolo e/o della denominazione dell’associazione, con la presenza [...] di almeno la metà più uno degli associati aventi diritto al voto e con la maggioranza assoluta dei voti".
E' chiaro che, in base a queste regole, non sarebbe spettato a Monti avere voce in capitolo sulla questione; nulla però lo statuto diceva sulla titolarità del nome e dell'emblema. In condizioni normali, in effetti, questi sono di proprietà dell'associazione e sono amministrati dal rappresentante legale (da statuto, qui, il responsabile finanziario) o dal vertice politico del partito; è facile verificare, tuttavia, che il 6 giugno 2016 è stata accolta la domanda di marchio per il simbolo di Sc, per il nome del partito "Scelta civica per l'Italia" e per la versione breve "Scelta civica" , il cui titolare risulta in tutti i casi proprio Mario Monti. Non è invece dato conoscere il contenuto della scrittura privata sulla costituzione di Scelta civica, visto che non è stata resa pubblica; è probabile che contenga riferimenti alla concessione al partito dell'uso del nome e del simbolo (che Monti ha precisato di non avere "mai ritenuto di esercitare il diritto di revocare"), ma di più non si conosce.
Tutti questi requisiti Scelta civica li aveva, in abbondanza. Ed Enrico Zanetti ne era (e ne è) il segretario. Il problema è che, formalmente, per la Camera Zanetti e gli altri risultavano alla stregua di scissionisti, visto che se n'erano andati dal gruppo che era stato costituito nel 2013 da Scelta civica all'indomani delle elezioni. E, com'è noto, di norma chi se ne va di casa perde tutti i diritti sul patrimonio, nome compreso. Per questo, forte del mandato che sosteneva di aver già ricevuto a luglio 2016 dalla direzione del partito, Zanetti in qualità di segratario aveva rivendicato per il suo nuovo gruppo il nome di Scelta civica presso l'Ufficio di presidenza della Camera, chiamato a verificare se la deroga per la nascita della compagine potesse essere concessa. Quelli che non volevano cambiare gruppo, peraltro, sarebbero a loro volta scesi sotto i venti membri e non avrebbero certo apprezzato l'idea di perdere il nome (pur essendo rimasti in Scelta civica) e con esso la possibilità di continuare a configurarsi come gruppo, visto che la deroga non l'avrebbero più avuta loro.
Com'è noto, il 12 ottobre, l'Ufficio di presidenza della Camera si era riunito per discutere anche di questo e, nel bel mezzo del dibattito, era piombata una lettera di Mario Monti, ispiratore e fondatore di Sc, anche se dal 25 febbraio 2015 aveva lasciato il partito. Nella lettera, a quanto pare con toni molto fermi, lo stesso Monti precisava di essere titolare tanto del nome quanto del simbolo di Scelta civica e, forte di questo, negava che quei segni distintivi potessero essere utilizzati per avallare la nascita in deroga di un gruppo con "soggetti che sono in totale contrasto con i valori in base ai quali circa 3 milioni di cittadini diedero il loro voto nel febbraio 2013" a Scelta civica. A Giovanni Sanga (Pd), segretario d'aula cui spettava l'approfondimento giuridico e regolamentare sul caso, toccò valutare quest'altro dettaglio molto delicato.
La decisione fu apparentemente salomonica, ma - c'è da supporlo - non priva di imbarazzo. Le notizie circolate in quel giorno, infatti, riferirono che, sulla base dello statuto del partito e della scrittura privata relativa alla costituzione di Scelta Civica, Monti sarebbe stato riconosciuto titolare del simbolo, ma non anche del nome che esso contiene, per cui l'uso del nome in sé poteva essere riconosciuto a Zanetti, anche se non era titolare del logo. Alla fine, dunque, si scelse di concedere la deroga al gruppo di Zanetti (che allora, tra l'altro, era nella compagine di governo), proprio in ragione del riferimento al partito all'interno della denominazione di gruppo; quanto al gruppo residuo e non "dissidente", pur essendo rimasti i suoi aderenti nel partito (ora in realtà l'hanno lasciato, ma formalmente i loro nomi sono ancora presenti negli organi scritti sul sito www.sceltacivica.it), fu imposto loro di cambiare nome - i componenti scelsero, appunto, Civici e innovatori - e, vista la scesa sotto la consistenza minima e l'impossibilità di usare la stessa deroga concessa a Zanetti, si decise di concedere una deroga provvisoria, richiedendo che la compagine raggiungesse i venti deputati entro un "tempo congruo".
Tornando per un attimo al problema giuridico, la questione era francamente complessa. Per lo statuto, tra l'altro, l'uso del simbolo (esclusivamente nel rispetto dei principi statutari) può avvenire solo secondo le modalità e per i fini approvati dal Comitato di presidenza, organo che autorizza l’utilizzo dell'emblema in sede elettorale; spetta all'Assemblea nazionale del partito, su proposta della Direzione nazionale, deliberare "la modifica integrale, l’abbandono o il cambiamento del simbolo e/o della denominazione dell’associazione, con la presenza [...] di almeno la metà più uno degli associati aventi diritto al voto e con la maggioranza assoluta dei voti".
E' chiaro che, in base a queste regole, non sarebbe spettato a Monti avere voce in capitolo sulla questione; nulla però lo statuto diceva sulla titolarità del nome e dell'emblema. In condizioni normali, in effetti, questi sono di proprietà dell'associazione e sono amministrati dal rappresentante legale (da statuto, qui, il responsabile finanziario) o dal vertice politico del partito; è facile verificare, tuttavia, che il 6 giugno 2016 è stata accolta la domanda di marchio per il simbolo di Sc, per il nome del partito "Scelta civica per l'Italia" e per la versione breve "Scelta civica" , il cui titolare risulta in tutti i casi proprio Mario Monti. Non è invece dato conoscere il contenuto della scrittura privata sulla costituzione di Scelta civica, visto che non è stata resa pubblica; è probabile che contenga riferimenti alla concessione al partito dell'uso del nome e del simbolo (che Monti ha precisato di non avere "mai ritenuto di esercitare il diritto di revocare"), ma di più non si conosce.
In ogni caso, se la situazione degli zanettian-verdiniani si era ormai resa tranquilla (fatta eccezione per l'esclusione dal governo Gentiloni e il passaggio all'opposizione, ma questa è un'altra storia...), non la era affatto quella dei Civici e innovatori (che poi hanno aggiunto "per l'Italia", visto che Zanetti l'aveva abbandonato), che erano rimasti in 15 e avrebbero dovuto cercare di arrivare a 20 nel famoso "tempo congruo": l'espressione di per sé era indefinita e interpretabile a piacere (come dimenticare che il trasloco di Rete4 sul satellite era stato legato all'accertamento di un "effettivo e congruo sviluppo" degli utenti della tv satellitare...), ma richiedeva un certo impegno da parte del gruppo, che veniva costretto a una sorta di "campagna acquisti". L'espressione non è elegante, va ammesso, ma non si vede in quale altro modo il raggiungimento dei venti deputati sarebbe potuto avvenire.
In circa nove mesi, il gruppo ha accolto due ex deputati M5S (Mara Mucci e Ivan Catalano, transitati in altre componenti del gruppo misto), ha visto entrare e uscire (a favore di Articolo 1) l'ex Idv Aniello Formisano, ma soprattutto ha perso per strada quattro componenti storici, come l'ex ministro Mario Catania (migrato verso Centro democratico - Democrazia solidale, formato in parte da ex montiani), l'ex coordinatore campano Giovanni Palladino (verso il Pd), nonché Salvatore Matarrese e Pierpaolo Vargiu, accasatisi in Direzione Italia.
Il numero, invece che aumentare, era calato (da 15 a 13) e nessun gruppo più numeroso ha informalmente accettato di cedere qualche deputato per consentire ai Ci di sopravvivere (altra prassi poco onorevole, visto che non fa contenere le spese, ma ampiamente messa in opera in passato). Non lo ha fatto nemmeno il Pd, benché i Civici e innovatori facessero e facciano parte della maggioranza: al contrario, i dem hanno di fatto sfilato un componente al gruppo (Palladino) e, addirittura, a metà giugno il segretario Renzi aveva criticato proprio le deroghe ai "mini-gruppi", accusati di far lievitare le spese. Deroghe che però erano quasi tutte giustificate dal Regolamento della Camera: oltre al gruppo di Sc-Ala-Maie, erano coperti quelli della Lega Nord, Sinistra Italiana - Sel - Possibile, Fratelli d'Italia e Centro democratico - Democrazia solidale, perché erano relativi a un partito che aveva corso alle elezioni; l'unico sfornito di copertura era proprio quello dei Civici e innovatori.
Non si fa fatica a capire perché, allora, se Monti aveva bollato quella dell'Ufficio di presidenza di ottobre come "decisione politica su pressione del Partito democratico", anche questa volta il Pd non sia apparso come "amico" (forse, per vari commentatori, al Nazareno non avevano gradito alcune posizioni tenute dai Civici e innovatori sul decreto concorrenza e l'atteggiamento del presidente della commissione Affari costituzionali Andrea Mazziotti nel tentativo di rivedere la legge elettorale: ricordate la sua proposta di testo base, sostanzialmente accantonata a favore di quella di Fiano e Rosato?). Morale della storia, il gruppo sarà sciolto e il personale licenziato, sapendo che la rinascita come componente non permetterà certo di riassumerlo tutto; nel frattempo, si è avallata l'idea che chi non ha mai lasciato il proprio gruppo parlamentare può vedersi sfilare il nome del partito e di fatto anche il simbolo (al punto tale che restare in quello stesso partito non aveva più senso). Un risultato, a ben guardare, piuttosto deludente e che lascia l'amaro in bocca.
In circa nove mesi, il gruppo ha accolto due ex deputati M5S (Mara Mucci e Ivan Catalano, transitati in altre componenti del gruppo misto), ha visto entrare e uscire (a favore di Articolo 1) l'ex Idv Aniello Formisano, ma soprattutto ha perso per strada quattro componenti storici, come l'ex ministro Mario Catania (migrato verso Centro democratico - Democrazia solidale, formato in parte da ex montiani), l'ex coordinatore campano Giovanni Palladino (verso il Pd), nonché Salvatore Matarrese e Pierpaolo Vargiu, accasatisi in Direzione Italia.
Il numero, invece che aumentare, era calato (da 15 a 13) e nessun gruppo più numeroso ha informalmente accettato di cedere qualche deputato per consentire ai Ci di sopravvivere (altra prassi poco onorevole, visto che non fa contenere le spese, ma ampiamente messa in opera in passato). Non lo ha fatto nemmeno il Pd, benché i Civici e innovatori facessero e facciano parte della maggioranza: al contrario, i dem hanno di fatto sfilato un componente al gruppo (Palladino) e, addirittura, a metà giugno il segretario Renzi aveva criticato proprio le deroghe ai "mini-gruppi", accusati di far lievitare le spese. Deroghe che però erano quasi tutte giustificate dal Regolamento della Camera: oltre al gruppo di Sc-Ala-Maie, erano coperti quelli della Lega Nord, Sinistra Italiana - Sel - Possibile, Fratelli d'Italia e Centro democratico - Democrazia solidale, perché erano relativi a un partito che aveva corso alle elezioni; l'unico sfornito di copertura era proprio quello dei Civici e innovatori.
Non si fa fatica a capire perché, allora, se Monti aveva bollato quella dell'Ufficio di presidenza di ottobre come "decisione politica su pressione del Partito democratico", anche questa volta il Pd non sia apparso come "amico" (forse, per vari commentatori, al Nazareno non avevano gradito alcune posizioni tenute dai Civici e innovatori sul decreto concorrenza e l'atteggiamento del presidente della commissione Affari costituzionali Andrea Mazziotti nel tentativo di rivedere la legge elettorale: ricordate la sua proposta di testo base, sostanzialmente accantonata a favore di quella di Fiano e Rosato?). Morale della storia, il gruppo sarà sciolto e il personale licenziato, sapendo che la rinascita come componente non permetterà certo di riassumerlo tutto; nel frattempo, si è avallata l'idea che chi non ha mai lasciato il proprio gruppo parlamentare può vedersi sfilare il nome del partito e di fatto anche il simbolo (al punto tale che restare in quello stesso partito non aveva più senso). Un risultato, a ben guardare, piuttosto deludente e che lascia l'amaro in bocca.
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