mercoledì 15 maggio 2024

Dc, niente tutela su nome e simbolo per Luciani (almeno per ora)

Il periodo "molto elettorale" (vista la concentrazione, l'8 e il 9 giugno, del voto europeo e, nei territori interessati, regionale e soprattutto amministrativo) non può far dimenticare i temi classici, di cui questo sito si è sempre occupato, cercando di dare conto delle loro evoluzioni. Qualche giorno fa, in particolare, trattando delle decisioni dell'Ufficio elettorale nazionale per il Parlamento europeo sui contrassegni depositati, si era anticipato che alcune settimane prima la Democrazia cristiana, rappresentata da Nino Luciani come segretario politico e da Carlo Leonetti come segretario amministrativo e legale rappresentante, aveva instaurato un'azione civile presso il tribunale di Roma: lo avevano fatto per rivendicare la titolarità del nome e del simbolo (chiedendo a monte di accertare la continuità giuridica con la Dc "storica") e citando molti di coloro che utilizzano (Unione di centro - Udc, Democrazia cristiana con Rotondi e il suo fondatore Gianfranco Rotondi) o hanno utilizzato quei segni distintivi (Noi Moderati e il suo presidente, Maurizio Lupi), nonché di coloro che a loro volta e a vario titolo si ritengono continuatori della Dc (Salvatore "Totò" Cuffaro, Antonio Cirillo, Angelo Sandri, Raffaele Cerenza, Franco De Simoni, Mario De Benedittis, Emilio Cugliari, Lupo Rosario Salvatore Migliaccio) perché si ordinasse loro di smettere di usare la denominazione e il fregio democristiani, prevedendo anche l'eventuale risarcimento dei danni subiti.
L'atto di citazione conteneva anche un'istanza cautelare, con cui si chiedeva al giudice di pronunciarsi tempestivamente e di valutare misure di tutela anticipata, poiché la Dc-Luciani temeva di non poter partecipare alle elezioni di giugno con le proprie insegne, a fronte del rischio che altri soggetti continuassero a fare uso del nome e del simbolo rivendicati. La discussione delle domande cautelari era stata fissata per ieri, 14 maggio: in effetti, ieri sera il giudice Corrado Bile - che, salvo errore, per la prima volta si è trovato a decidere su vicende democristiane - ha depositato l'ordinanza, che ha respinto le domande
 

Le tesi della Dc-Luciani

Nel loro atto di citazione, Nino Luciani e Carlo Leonetti hanno spiegato di aver agito per "accertare definitivamente l'identità e la continuità politico-storica con la Democrazia Cristiana [...] 'storica' con la conseguente azione di rivendicazione e tutela ai sensi degli artt. 6 e 7 c.c. nei confronti di tutti coloro che, a decorrere dall'anno 1994 e sino ad oggi hanno utilizzato illegittimamente la denominazione ed il simbolo del partito fondato da Alcide De Gasperi nel 19 marzo 1943".
Nella "premessa storica" si è passato in rassegna, come tante volte si è fatto nelle cause precedenti che hanno riguardato il destino giuridico della Dc o i suoi segni distintivi, il percorso snodatosi a partire dalla trasformazione della Democrazia cristiana in Partito popolare italiano (che in questa citazione è indicato come "un nuovo partito" nato il 18 gennaio 1994, anche se poco oltre si parla correttamente di "cambio di denominazione") e dalla coeva nascita per scissione/recesso del Ccd ad opera di "alcuni esponenti provenienti soprattutto dalla destra forlaniana-dorotea, favorevoli all'entrata nella coalizione di centro-destra" (preceduta dalla scissione dei Cristiano sociali avvenuta qualche mese prima). Tra i passaggi successivi si sono citati il dissidio del 1995, con la nascita del Cdu seguita ai c.d. "accordi di Cannes" - con i quali le due parti in lite del Ppi sostanzialmente si divisero l'uso dei segni distintivi del partito (lo scudo crociato ai sostenitori di Rocco Buttoglione, futuro segretario del Cdu, e il nome "Partito popolare italiano" alla parte vicina a Gerardo Bianco) e si accordarono per non utilizzare il nome "Democrazia cristiana" - e la nascita dell'Udc nel 2002 (grazie all'apporto di Ccd, Cdu - che ha apportato lo scudo crociato - e Democrazia europea). Si sono ricordati pure i tentativi intrapresi da alcuni iscritti alla Dc per opporsi (già nel 1994, si legge) "alla fine dell'esperienza del partito e [...] di riportare in vita lo storico partito ritenendo che i partiti PPI e CDU non fossero titolari della denominazione «Democrazia cristiana» – stante il loro accordo sul suo perpetuo non uso [...] – ma, prima ancora, [...] che non sussistessero le prove della successione tra la D.C. e il P.P.I., poiché sarebbero state violate [...] le prescrizioni di legge e dello statuto del partito nel corso del procedimento che ha portato al cambio di nome; per cui quegli atti risulterebbero nulli o, per lo meno, inopponibili a terzi" e la Dc, mai sciolta, sarebbe rimasta in vita come soggetto distinto dal Ppi. 
Sono stati inseriti in quel contesto i contenziosi sorti nel corso degli anni che hanno portato, tra l'altro, alle sentenze della Corte d'appello di Roma del 2009 (n. 1305) e delle sezioni unite civili della Corte di cassazione del 2010 (n. 25999), sulla base delle quali la deliberazione sul cambio di nome da Dc a Ppi sarebbe stata inesistente "poiché assunta da un organo incompetente in violazione dell'art. 16 cc e degli artt. 79 e 135 dello Statuto" della Dc e gli "accordi di Cannes" avrebbero avuto un valore politico, senza essere "idonei a trasferire l'uso di un segno distintivo". La citazione ha richiamato il primo tentativo, dopo queste pronunce, di riattivare la Democrazia cristiana operato nel 2012 sotto la guida di Gianni Fontana (tentativo dichiarato nullo sempre dal Tribunale di Roma tra il 2014 e il 2015), per soffermarsi sul percorso intrapreso nel 2016 da Nino Luciani, Alberto Alessi e altri, volto a ottenere (ancora una volta) dal Tribunale civile di Roma la convocazione dell'assemblea degli iscritti su richiesta del 10% degli associati in base all'ultimo elenco disponibile (ex art. 20 del codice civile): si è richiamata dunque l'assemblea svoltasi all'hotel Ergife a Roma il 26 febbraio 2017 che elesse Fontana alla presidenza dell'associazione (quegli atti, pur oggetto di un altro contenzioso, non sono stati invalidati), sulla successiva presa d'atto delle dimissioni di Fontana nel 2020 - senza fare menzione del congresso del 2018, "revocato" per rilevate irregolarità un anno dopo - e del successivo (nuovo) XIX congresso svoltosi online il 24 ottobre 2020, che avrebbe eletto alla segreteria proprio Luciani (la convocazione di quel congresso sarebbe stata oggetto un'ulteriore azione legale, iniziata da chi si riconosceva nel congresso "revocato" del 2018, ma l'esito sarebbe stato negativo)
Altri passaggi ritenuti utili dagli attori sarebbero la "Notifica di avvenuta ripresa della attività politica del partito della Democrazia cristiana in Italia" depositata da Nino Luciani il 19 aprile 2021 presso l'Ufficio elettorale centrale nazionale (per avvalorare la tesi della continuità giuridica tra la Dc "storica" e la Dc-Luciani, anche se l'Ufficio ha dichiarato l'istanza inammissibile, essendo stata presentata al di fuori di procedure elettorali nazionali) e l'ottenimento - il 6 aprile 2022 - da parte dell'Agenzia delle Entrate del codice fiscale assegnato nel 1980 alla Dc "storica". Ciò non ha impedito che nel 2022 il Viminale invitasse la Dc-Luciani a sostituire il contrassegno perché confondibile - a causa dell'uso dello scudo crociato - con quello di Noi moderati (che conteneva l'Udc) e - a causa del nome - con quello della Dc guidata allora da Renato Grassi (e oggi da Totò Cuffaro): l'opposizione presentata all'Ufficio elettorale centrale nazionale, con cui Luciani rivendicò la titolarità del nome e del simbolo, non ebbe successo, ma lo stesso Luciani contestò (e contesta ancora) come l'Udc risulti avere eletto rappresentanti in Parlamento solo dal 2006 e comunque non li avrebbe più ottenuti col proprio simbolo dal 2018, mentre la Dc "mai sciolta" - che si è rivolta per chiedere giustizia anche alla Giunta per le elezioni della Camera, che però si è dichiarata incompetente - sarebbe stata in Parlamento molto più a lungo. 
Sulla base delle premesse svolte, secondo Luciani e Leonetti è "incontestato e pacifico che la Dc storica non si sia estinta il 18.01.1994, pertanto la costituzione del PPI e di tutti i partiti politici derivati dal suo frazionamento [...] non possono e non devono essere considerati successori a titolo universale e/o particolare della Dc storica" (a tale proposito in premessa si citava la sentenza n. 6393/1998 della sezione lavoro della Cassazione, anche se questa non ha mai detto che il Ppi era soggetto diverso dalla Dc); se così è, dovrebbero ritenersi nulli gli "accordi di Cannes" o altri patti sull'uso del nome o del simbolo successivi al mese di gennaio del 1994. In più, la Dc-Luciani (fino al 2020 Dc-Fontana) rivendica per se il titolo di "unica associazione in continuazione politica-giuridica con la DC storica, sussistendo un'identità tra i propri iscritti e quelli costituenti l'originario partito nell'anno 1993", grazie al rispetto delle norme del codice civile e dello statuto della Dc.
Richiamato il valore identitario del simbolo in ambito politico-elettorale (cioè riassume "in sé [...]un “mondo” di idee, convinzioni, proposte e progetti in cui iscritti e simpatizzanti possano identificarsi": un'affermazione che chi scrive ha come l'impressione di avere già letto da qualche parte, anzi, di averla già scritta dodici anni fa...), la citazione ricorda come la giurisprudenza abbia in sostanza riconosciuto come anche alle associazioni non riconosciute spetti la tutela del "diritto al nome" sulla base degli artt. 6 e 7 del codice civile, estendendo la stessa protezione anche al simbolo. Secondo gli attori, poi, se ci si basa sulle norme dettate in materia di contrassegni elettorali (art. 14, d.P.R. n. 361/1957), "a decorrere dal gennaio 1994 sino ad oggi, le formazioni politiche che hanno utilizzato il simbolo dello scudo crociato con la scritta Libertas contravvenivano ai criteri di novità ed originalità": l'Udc (e prima ancora il Cdu), in particolare, usando lo scudo crociato avrebbe usurpato "un simbolo di un partito non estinto violando le norme interne e statutarie della Dc Storica", non potendo dimostrare continuità giuridica rispetto alla Dc operante sino al 1994. Si richiamano poi i citati criteri di novità (divieto di usare contrassegni identici a quelli presentati in precedenza o a quelli usati tradizionalmente da altri partiti) e originalità (divieto di usare contrassegni confondibili con quelli presentati in precedenza o a quelli usati tradizionalmente da altri partiti, con tutela rafforzata per i contrassegni rappresentati in Parlamento): anche qui, chi legge la citazione potrebbe avere la sensazione di avere già letto quelle parole (e chi scrive ora... ha la certezza di averle già scritte nel 2011); in ogni caso quelle norme e quei criteri sono usati per sostenere "che l'unico partito che abbia rispettato le norme interne allo statuto della DC storica, sia la DC odierna attrice che merita pertanto di esercitare, nell’utilizzo del simbolo e del nome rivendicato il diritto del prior in tempore, potior in iure nei confronti di ogni altro soggetto politico". Contemporaneamente, l'atto introduttivo del giudizio sostiene come "il simbolo dello scudo crociato [sia] inscindibile dalla denominazione della Democrazia Cristiana storica quale unica titolare del contrassegno scudo crociato, con la conseguente illegittimità dell’utilizzo" compiuto dall'Udc (che ha usato solo lo scudo senza il nome, almeno prima delle liste presentate con la Dc-Rotondi), fermo restando che la Dc "mai sciolta" avrebbe utilizzato il simbolo ben prima dell'Udc.
Sulla base di tutto questo, la Dc-Luciani ha chiesto che si accertasse la propria "continuità giuridica soggettiva con il Partito della Democrazia Cristiana fondato nell’anno 1943" e, sulla base di questo, la titolarità esclusiva della denominazione e del simbolo, così da ottenere che il giudice ordini a chi usa indebitamente quei segni distintivi la cessazione dell'uso e preveda una penale per ogni ulteriore impiego (unitamente alla quantificazione degli eventuali danni da risarcire).
 

L'ordinanza del Tribunale di Roma

Come si è detto, con l'atto di citazione è stata chiesta anche una pronuncia del giudice in sede cautelare, per evitare alla Dc-Luciani di subire danni in vista delle elezioni previste a giugno: se l'udienza per discutere i profili di merito della causa è prevista per il 25 novembre prossimo, i profili cautelari sono stati oggetto di questa prima fase contenziosa, conclusa con l'ordinanza emessa ieri dal giudice Bile.
Il magistrato si è pronunciato innanzitutto su alcune questioni preliminari poste dalle parti citate da Luciani e Leonetti. Totò Cuffaro, per esempio, ha ricordato di avere a sua volta agito contro vari soggetti (incluso Luciani) per rivendicare l'uso del nome "Democrazia cristiana" (la "sua" non usa lo scudo crociato), promuovendo un giudizio presso il Tribunale di Avellino, quindi - ritenendo che il giudizio abbia lo stesso oggetto - si sarebbe dovuta dichiarare la litispendenza e cancellare il giudizio; per il giudice, però, il carattere di urgenza dell'azione cautelare prevale e occorre decidere comunque, ma nel giudizio di merito si potrà valutare se il processo dovrà essere cancellato o no. L'essere ancora in sede cautelare e non di merito non ha consentito nemmeno di ritenere "in astratto estranei al giudizio" Maurizio Lupi (che, essendo stato coinvolto come leader del partito che, alle elezioni del 2022, era ancora una federazione di cui faceva parte anche l'Udc, riteneva di non avere alcuna legittimazione passiva) e Antonio Cirillo (il quale ha detto di essere "solo" il segretario della "sua" Dc, mentre avrebbe dovuto stare in giudizio il segretario amministrativo, Sabatino Esposito, che peraltro ha rivendicato la titolarità degli stessi segni distintivi).
La Democrazia cristiana con Rotondi, poi, aveva eccepito come delle questioni sollevate da Luciani e Leonetti si sarebbe dovuto piuttosto occupare il giudice amministrativo, visto che nella parte dell'atto di citazione in cui si chiede la tutela cautelare si fa riferimento alla partecipazione alle elezioni europee e regionali; il codice del processo amministrativo, però, affida ai Tar (e al Consiglio di Stato), come si è visto in questi giorni, il compito di decidere solo sui provvedimenti immediatamente lesivi del diritto a partecipare a singoli procedimenti elettorali, mentre questa controversia riguarda l'accertamento del diritto a usare il nome e il simbolo della Dc e non l'accesso a una determinata procedura elettorale.
Chiarite queste e altre questioni, il giudice Bile ha considerato le osservazioni svolte dalla difesa di Franco De Simoni (segretario della "sua" Dc) e di Emilio Cugliari (presidente "facente funzione" della "sua" Dc), secondo i quali, essendo scaduto il termine per il deposito dei contrassegni per le elezioni europee (e anche per le altre elezioni, insieme agli altri documenti), è venuto meno il rischio di un pregiudizio irreparabile da evitare con l'adozione di tempestivi provvedimenti di tutela (il famoso periculum in mora). Il giudice ha concordato con questa tesi, precisando che, visto che la tutela cautelare si può concedere solo in presenza di entrambe le condizioni richieste dalla legge, "la mancanza del requisito del periculum in mora rende superflua la verifica in ordine al requisito del fumus boni iuris".
In teoria, dunque, questo ragionamento sarebbe sufficiente per respingere le richieste degli attori-ricorrenti. L'appartenente alla schiera dei #drogatidipolitica che avesse già iniziato a dare sfogo a una certa delusione, per avere perso l'occasione di sentir argomentare una volta di più sulla storia della Dc (dando materia per una nuova potenziale puntata della saga dello "Scudo (in)crociato" - titolo scelto, non a caso, per distinguere il racconto dei democristiani dopo la Dc in forma di podcast) o almeno sul valore dei simboli politici deve però ricredersi: una parte non irrilevante dell'ordinanza, infatti, è dedicata anche all'esame del fumus boni iuris (dunque il sospetto di fondatezza), secondo il giudice ugualmente inesistente. Questo era già piuttosto chiaro qualche riga prima dell'analisi sul punto, quando l'ordinanza aveva definito la domanda degli attori-ricorrenti come "inerente ad una annosa questione che da tempo viene ciclicamente riproposta in termini sostanzialmente analoghi": la frase forse è comprensibile per un magistrato del tribunale romano, che si è visto sottoporre molte cause in materia, ma è pur sempre di un certo effetto per chi la legge. 
Il giudice Bile, in ogni caso, ha rimarcato - anche alla luce dell'art. 2-bis del d.l. n. 7/2024 ("decreto elezioni 2024") - la distinzione tra la disciplina dei marchi (anche politici) e quella dei contrassegni elettorali (anche se qui nessuno ha parlato di registrazione di marchi), poi ha citato le disposizioni in materia di contrassegni del testo unico per l'elezione della Camera. Se "i segni distintivi costituiscono l’insieme di elementi grafici essenziali in cui si riassume la configurazione identitaria del partito, nonché la sua capacità di rendersi riconoscibile agli elettori", se ne riconosce ormai la tutelabilità a norma dell'art. 7 del codice civile (al di là della pratica affermatasi di richiederne la registrazione come marchi in base al codice della proprietà industriale), occorre distinguere la titolarità privatistica da quella elettorale, fermo restando che comunque si vuole "scongiurare il rischio di confusione sugli elementi caratterizzanti le diverse formazioni politiche, quali soggetti cui possono imputarsi concezioni, valori, idee e azioni". Si precisa che "la distinguibilità del nome e del segno distintivo nel caso di soggetti collettivi che non svolgono attività di mercato, è funzionale alla salvaguardia della identità collettiva del gruppo, e con riferimento specifico alle organizzazioni politiche, rende riconoscibili e nel contempo protegge sul piano identitario il complesso dei valori, delle idealità e degli scopi perseguiti" e "soccorre ad evitare equivoci e fraintendimenti nella dialettica democratica a tutela dell’elettorato, quale espressione della sovranità popolare, costituzionalmente riconosciuta". 
Fatte queste premesse, il giudice è partito dall'osservazione di Luciani e Leonetti, in base alla quale la Democrazia cristiana (guardando ai soli risultati elettorali) avrebbe usato alle elezioni, ottenendo sempre parlamentari, il proprio nome e il suo simbolo dal 1948 al 1992, mentre l'Udc avrebbe ottenuto eletti solo dal 2006 al 2013, ma l'uso sarebbe iniziato dal 2002 e continuerebbe tuttora. Nell'ordinanza questo non viene impiegato per parlare di un preuso, ma per rilevare un uso successivo anche elettorale da parte dell'Udc "nel corso di un arco temporale di circa trent'anni, ottenendo un consenso che le ha consentito la presenza in Parlamento". Per il giudice, "[i]l fatto che tale situazione si sia protratta così a lungo non può considerarsi irrilevante ai fini di stabilire la consistenza del carattere identitario del simbolo e la relativa spettanza": si legge che "l'utilizzo protratto del simbolo che ha caratterizzato un partito politico rimasto sostanzialmente inattivo per moltissimi anni [ha] determinato in capo all'utilizzatore il formarsi di una identità riconoscibile da parte dell’elettorato che, nel tempo, ha avuto modo di esprimersi con il voto facendo riferimento all'UDC e ai relativi segni distintivi"; anche per questo, per il magistrato si può escludere che, dopo l'uso prolungato da parte dell'Udc, lo scudo crociato "abbia mantenuto intatte le proprietà originarie che ne determinavano la riferibilità esclusiva ad una forza politica attiva eminentemente nel secolo scorso"
Considerando lo stesso, travagliato percorso tra il 1994 (anno della trasformazione della Dc in Ppi) e il biennio 2009-2010 (gli anni delle sentenze che avrebbero accertato - sia pure solo incidentalmente - che il cambio di nome era avvenuto in modo scorretto), il giudice nota che "[d]urante i numerosi anni trascorsi fino alla citata pronuncia delle sezioni unite, anche l'elettorato è stato esposto al diffuso convincimento di un avvenuto mutamento di denominazione e, dunque, ne ha preso atto, maturando una nuova e diversa consapevolezza circa l'identità delle formazioni politiche in campo e circa la riconducibilità dei segni distintivi a questo o a quel partito"; se la legge tutela l'elettorato perché non cada in errore di fronte all'uso di simboli "usati tradizionalmente da partiti presenti in Parlamento", essa per il giudice "tutela un interesse che oggi non può più riconoscersi come radicato in modo prevalente in capo alla Democrazia Cristiana storica", nel senso che "[l]’uso tradizionale non è più un connotato esclusivo di tale partito, ma deve riconoscersi in capo ad altri che ne hanno fatto uso per anni". E, a proposito di anni, per il giudice non è nemmeno giusto tradurre il riferimento normativo alla presenza in Parlamento nella valutazione "attraverso un’operazione aritmetica consistente nella mera comparazione della diversa durata, senza tenere conto del momento storico in cui tale presenza si è manifestata, di quanto accaduto nel tempo e delle conseguenze che l'articolarsi delle vicende ha determinato". Questo basta, per il tribunale monocratico, a respingere le richieste di tutela avanzate da Nino Luciani e Carlo Leonetti.
Se Gianfranco Rotondi - il primo a dare notizia della decisione - ha espresso soddisfazione per l'ordinanza emessa ieri, non si può dire altrettanto di Luciani. In un post su Facebook ha parlato di "amara sconfitta per la Dc", ma gli pare che il pronunciamento sia "specularmente contrario" rispetto a quanto deciso dalla Corte d'appello di Cagliari prima delle elezioni sarde di quest'anno e da altri uffici giudiziari in materia di nomi e simboli di soggetti collettivi e non manca di ripetere quanto già detto in sede di contenzioso elettorale (cioè che l'Udc, pur avendo ottenuto l'ammissione del proprio contrassegno per le elezioni europee, non l'ha presentato in alcuna circoscrizione). Lo stesso Luciani nel post giudica come "inevitabile l'intervento della Dc contro questo giudice", lasciando intendere che il giudizio continuerà nel merito (e forse, già ora, sarà proposto reclamo). Di certo, la saga dello scudo (in)crociato non sembra voler conoscere fine...

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