mercoledì 5 novembre 2025

Forattini, un omaggio con le sue vignette "simboliche"

La scomparsa, avvenuta ieri, di Giorgio Forattini rappresenta senza dubbio il venir meno di una figura importante per i #drogatidipolitica: a prescindere dalle simpatie o antipatie politiche - o, volendo, da quelle per lo stesso disegnatore - non si può non riconoscere il peso e il potere della satira in forma di vignetta anche nella scena politica italiana e ammettere, senza alcuna ombra di dubbio, che il maggior artefice di quel peso è stato proprio Forattini (più di tutti gli altri "vignettisti" successivi, inclusi coloro che a lui devono almeno parte della loro fama, come Emilio Giannelli o Vauro ). La sua matita prestata alle pagine di Paese Sera, di Panorama, della Repubblica, della Stampa, del Giornale e del Quotidiano Nazionale, come pure a quelle dei tanti libri che hanno raccolto le vignette nel corso degli anni, ha fatto puntualmente emergere letture peculiari e irriverenti delle vicende politiche (italiane e straniere) che hanno occupato via via le prime pagine o i servizi di apertura, a costo di scatenare l'irritazione - e magari la querela - dei soggetti ritratti o di chi si sentiva offeso da quei disegni (segno che questi ultimi avevano colpito eccome, non importa ora se giustamente o no).    
Qualche volta, va detto, l'irriverenza si spegneva, lasciando comprensibilmente il posto a un'ironia più delicata, pur non smettendo di essere pungente. Rientra in questa categoria una delle vignette più citate in queste ore, pubblicata a gennaio 2000 su Panorama dopo la morte di Bettino Craxi ad Hammamet: niente più stivaloni neri mussoliniani, ma solo il braccio a pugno chiuso che stringe un garofano - richiamando con chiarezza, sia pure a specchio, il manifesto realizzato da Ettore Vitale nel 1973, ma con il fiore più simile a quello realizzato da Filippo Panseca un decennio dopo - che emerge dalla sabbia d'Africa trasformata in tomba, con intorno la frase "Ingrata Patria, non avrai le mie ossa" (epitaffio attribuito a Scipione l'Africano e rivolto a Roma, scelta per nulla casuale). Posto che quella spiaggia di fronte al mare ricorda molto il setting di una vignetta altrettanto famosa disegnata nel 1979 (quella con un carapace di tartaruga sulla spiaggia, per ricordare la scomparsa di Ugo La Malfa), non sfugge la presenza del sole che sorge, quello della tradizione socialista (e socialdemocratica) che però proprio Craxi aveva voluto sacrificare a favore del garofano.
Proprio quella vignetta, peraltro, offre la possibilità di un percorso "simbolico" tra i disegni di Forattini: un percorso, cioè, che consideri il modo in cui il disegnatore ha reinterpretato i simboli dei partiti, rendendoli un elemento significativo (e magari contundente) delle sue vignette. Pescando a caso, per esempio, si può trovare una vignetta del 2 marzo 1999, in cui Romano Prodi ritratto con le orecchie (sulla testa quadra e occhialuta), la coda e le zampe da asino - sei giorni dopo il lancio del partito dei Democratici, con il loro asinello quasi disneyano disegnato da Francesco Cardinali in primo piano nel simbolo - cacciava a calci a lunga gittata Massimo D'Alema, raffigurato nei panni di Hitler con tanto di fascia con falce e martello al braccio (sette mesi più tardi, l'11 ottobre, il lunedì de la Repubblica avrebbe messo in copertina la vignetta sul dossier Mitrokhin sbianchettato, che avrebbe fatto scattare la superquerela - poi ritirata - di D'Alema). 
Alcuni passaggi "simbolicamente rilevanti" della politica italiana sono stati ritratti in modo impagabile da Forattini e meritano di essere considerati. Non si può che partire dalla trasformazione del Partito comunista italiano in Partito democratico della sinistra. L'11 ottobre 1990, sulla prima pagina della Repubblica, sotto al titolo L'albero di Occhetto e accanto al simbolo con la "quercia" realizzata da Bruno Magno (presentato la sera prima a una selva di giornalisti, fotografi e telecamere), apparve un albero disegnato da Forattini, con falce, martello e stella incisi sul tronco, attorno al quale era avviluppato un serpente con la testa di Giulio Andreotti: la coppia di tentati, novelli Adamo ed Eva, aveva le sembianze di Achille Occhetto e di una figura che ha tutta l'aria di somigliare a Ciriaco De Mita, mentre Craxi era ridotto al ruolo di frutto della tentazione. Non proprio un ottimo viatico per un percorso di transizione politica che avrebbe dovuto essere ratificato da un congresso e che in ogni caso aveva già parecchi contrari all'interno del partito.
Che Craxi non vedesse con particolare favore quella trasformazione ("Quel simbolo non somiglia affatto al garofano"), che avrebbe creato qualcosa di diverso dall'Unità socialista che lui pochi giorni prima aveva fatto inserire nel simbolo del Psi era cosa nota. È probabilmente passato di mente che in quegli stessi giorni si era accesa la miccia di una delle tante potenziali crisi di governo (l'esecutivo pentapartito Andreotti-sexies), ad opera del Partito repubblicano italiano, dopo che il segretario Giorgio La Malfa alla direzione nazionale del 12 ottobre aveva criticato l'azione insoddisfacente del governo in materia di ordine pubblico e risanamento finanziario (con tanto di richiesta di verifica a Dc e Psi) e aveva apprezzato la scelta del Pci di non essersi ribattezzato socialista ("è una vittoria storica di quella parte democratica della sinistra europea che da sempre si è fermamente opposta alla componente socialista"). Per Craxi la tregua coi repubblicani doveva dichiararsi conclusa, così il segretario ebbe parole di fuoco per l'Edera, anche se la crisi vera si aprì l'anno dopo. A ricordare le tensioni di quei giorni provvede la vignetta di Forattini pubblicata domenica 14 ottobre in prima pagina dalla Repubblica sotto al titolo relativo all'attacco socialista al Pri: Craxi in divisa agitava non i garofani, ma un bastone di fronte alla già nota Quercia, cui era avvinto un lungo tralcio di edera. Ed "Ederasti!" era l'accusa craxiana al Pci-Pds che suonava particolarmente venefica.
Non sarebbe stata meno pungente la matita di Forattini quattro anni e mezzo dopo, quando a Fiuggi Gianfranco Fini aprì l'ultimo congresso del Movimento sociale italiano - Destra nazionale, avviando ufficialmente la trasformazione in Alleanza nazionale già intrapresa dalle elezioni politiche del 1994. Il 28 gennaio 1995, il giorno dopo l'inizio dell'assise congressuale, la Repubblica dedicò a quel passaggio politico l'apertura della prima pagina: sotto al titolone Lo strappo di Fini, campeggiava una vignetta forattiniana con il segretario uscente che si accendeva una sigaretta con la fiamma tricolore di una candela; quella stessa fiamma, peraltro, contribuiva a proiettare sul fondo l'ombra di Fini, resa però nel profilo del volto e del petto con i tratti inconfondibili di Mussolini.
Quella, peraltro, non fu certo la prima occasione in cui Giorgio Forattini rese la fiamma tricolore protagonista di una delle sue vignette. Proprio l'articolo online di Repubblica.it dedicato ad alcune delle illustrazioni più famose del passato ha riproposto la vignetta pubblicata il 23 dicembre 1976, all'indomani della formazione dei gruppi parlamentari di Democrazia nazionale - Costituente di destra, anticipo di una scissione ufficiale - interessante, pur se di breve durata e di incerto successo elettorale - all'interno del maggior partito della destra italiana. La vignetta in questione - collocata a pagina 6 a fianco dell'articolo La ruota di scorta della destra italiana di Enzo Forcella - ritraeva il segretario del Msi-Dn, Giorgio Almirante, con un'espressione attonita e un po' rassegnata, che sulla testa aveva due fiamme tricolori, collocate sul cranio in una posizione corniforme.
Tornando al 1995, però, non poteva sfuggire all'arguzia grafica di Forattini soprattutto il travaglio vissuto dal Partito popolare italiano che si consumò soprattutto nel mese di marzo ed ebbe ampie ripercussioni sul piano politico-simbolico (oltre che sul destino giuridico ed economico dei Popolari e del patrimonio dell'ex Democrazia cristiana, come spiega bene il podcast Scudo (in)crociato, specie nella quarta puntata). Dopo l'annuncio - l'8 marzo - dell'accordo tra il segretario Rocco Buttiglione e i vertici dei partiti del centrodestra per le elezioni regionali in arrivo era apparsa (il 10 marzo) una vignetta con lo stesso Buttiglione - con sigaro d'ordinanza - trasformato in preda di caccia e trasportato appeso da Silvio Berlusconi e Fini, mentre il 12 marzo - il giorno dopo la riunione drammatica del consiglio nazionale in cui Buttiglione fu sconfitto per tre voti - in prima pagina apparve Rosy Bindi nell'atto di vuotare un bottiglione. Il segretario, pur sfiduciato, il 15 marzo scelse però di non dimettersi, rendendo così concreto lo scenario di due partiti in uno: il giorno dopo la Repubblica, sotto il titolo Due segretari per i Popolari, comparve la vignetta di Forattini in cui tanto Buttiglione quanto Bindi (solo poche ore dopo Gerardo Bianco sarebbe stato scelto come leader da coloro che avevano sfiduciato il segretario), reggendo una valigetta marchiata "Ppi" intimavano - con tanto di megafono - a Gesù Cristo di "rendere disponibile la croce entro le 12" (croce ovviamente con la scritta "Libertas"), come se fosse uno degli ambienti contesi - letteralmente, come si sa - di Piazza del Gesù. 
Buttiglione ritenne invalida l'elezione di Bianco da parte del consiglio nazionale "dimezzato" e il 17 marzo scelse di espellere i consiglieri che il giorno prima avevano partecipato a quella seduta: il 18 marzo, sotto al titolo Buttiglione epurator espelle mezzo partito, Forattini collocò uno scudo vuoto, con la croce portata via per metà da Berlusconi, per metà da D'Alema (volendo richiamare come di fatto a provocare e favorire la scissione fossero state le pressioni di soggetti esterni, in particolare dei leader dei due poli che grazie alle proposte di alleanze sul territorio avevano conquistato questa o quella parte dei Popolari). E se la didascalia recava solo la parola "Bianco", richiamando tanto il cognome del segretario scelto dalla sinistra del partito quanto lo scudo ormai vuoto, proprio quest'ultima immagine finì per anticipare la scelta simbolica di quella parte del partito (raccontata a suo tempo su questo sito da Giuliano Bianucci), con lo scudo senza croce collocato nel gonfalone e lo slogan "Lo scudo c'è, la croce aggiungila tu".
La questione del simbolo, del resto, divenne particolarmente urgente dopo che, il 23 marzo, il giudice del tribunale di Roma Luigi Macioce depositò la prima ordinanza sul ricorso dei Popolari vicini a Bianco, decidendo che Buttiglione, pur non potendo attuare la sua linea politica sconfitta legittimamente in consiglio nazionale, era ancora segretario e avrebbe continuato a disporre del fregio ufficiale del partito. Quel giorno stesso a piazza del Gesù si scatenarono scene di simil-guerriglia, puntualmente raccontate dai giornali: il 24 marzo, al di sotto del titolo evocativo Rissa popolare, ne diede conto anche Forattini, disegnando il bottiglione chiuso da Buttiglione - sempre col sigaro - trasformato stavolta in tappo, mentre sotto vetro si riconoscevano vari "Imbuttiglionati", tra cui Bindi, De Mita, Beniamino Andreatta (con tanto di pipa) e Mino Martinazzoli; all'inizio del collo della bottiglia, ovviamente, c'era lo scudo crociato, stavolta intero, ma messo al sicuro (anche se poi, a quelle regionali, non lo avrebbe usato nessuno). Ennesimo esempio, come i precedenti, di quanto i simboli dei partiti potessero avere un potere evocativo immenso, che la matita arguta di Giorgio Forattini non poteva non cogliere e valorizzare a dovere.
 

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