martedì 19 gennaio 2021

"Interno Montecitorio": passi perduti, persone e pagine "simboliche"

I #drogatidipolitica sono abituati ai Palazzi che parlano, si animano e fanno notizia: la metonimia nel discorso politico ha una storia copiosa, così nelle pagine e nei servizi degli Interni affiorano indiscrezioni dal Quirinale, dichiarazioni da (Palazzo) Chigi, comunicati dalla Consulta, discorsi da Palazzo dei Marescialli, cifre dal Viminale, conteggi febbrili dalle parti di (Palazzo) Madama e via edificando. Ai tempi d'oro parlavano anche le sedi dei partiti, sia pure attraverso i loro più modesti indirizzi: note e "pastoni" erano un susseguirsi di opinioni e pensieri attribuiti a Botteghe Oscure, Piazza del Gesù, Via del Corso, Via della Scrofa; sarebbero poi apparse, ma molto meno, Via dell'Umiltà, Piazza Santi Apostoli, Via Nazionale, Via dei Due Macelli (quanto a Palazzo Grazioli, contava più per il suo principale inquilino che per il suo partito); ora tanti indirizzi tacciono, tranne - spesso suo malgrado - il Nazareno (un po' Palazzo e un po' Largo, ma meno lungo di Sant'Andrea delle Fratte, vero indirizzo della sede della Margherita e poi del Pd).
Tornando ai Palazzi, se il Quirinale, come sede del capo dello Stato, è "il colle più alto"; se per tradizione il potere principale in Italia - quello del Governo - è collocato a Palazzo Chigi; se la storia e il prestigio del Senato sono evocati nominando Palazzo Madama, di certo il compito di rappresentare il Parlamento e in fondo tutta la politica spetta a Palazzo Montecitorio, in cui è ospitata la Camera dei deputati. La storia del luogo in sé, delle persone che l'hanno retto e continuano a farlo vivere (nei loro rispettivi ruoli) e dei fatti di cui è stato teatro meritano l'attenzione che le cronache non hanno il tempo di offrire e sollecitare: si tratta di una messe ricchissima di storie che insieme - tutte, anche la più minuta o laterale - concorrono a creare la Storia dell'istituzione che in Italia più incarna la democrazia, pure nelle sue pagine meno edificanti.
Quella storia è stata ripercorsa ancora di recente da uno dei suoi massimi conoscitori, Mario Pacelli, già funzionario di lungo corso alla Camera, da tempo appassionato di storia italiana e parlamentare, autore di numerosi libri (qui si è già parlato di Ad Hammamet, su Bettino Craxi). Alla fine di ottobre del 2020, infatti, Giappichelli ha pubblicato la quarta edizione rivista e aggiornata di Interno Montecitorio, opera consistente - 400 pagine, 39 euro - che Pacelli ha curato con Giorgio Giovannetti, giornalista parlamentare esperto e saggista (e con cui Pacelli nel 2017 ha curato anche Il colle più alto, dedicato alle varie vite del Quirinale e di chi lo ha popolato). Non c'è ovviamente la pretesa di raccontare tutto sulle vicende del Palazzo legato ai lavori dei deputati, ma nelle tante pagine del volume possono ritrovare una miriade di notizie, dettagli interessanti e spunti di approfondimento tanto le persone semplicemente curiose, quanto coloro che desiderano avere buone nozioni di base di storia dell'istituzione parlamentare in Italia (e per i #drogatidipolitica questo è un must irrinunciabile).

Palazzi, capitali, aule: luoghi da trovare, creare, adattare 

Resoconto della prima seduta
Se si parla di Palazzi, dal Palazzo occorre partire. Anzi, dai Palazzi
: a dispetto di quanto il titolo suggerisce, Interno Montecitorio non si limita affatto all'edificio che ospita la Camera dei deputati dal 27 novembre 1871 e che solo dal 20 novembre 1918 conta sull'aula attualmente utilizzata, elemento principale di un altro Palazzo costruito aderente alla vecchia Curia innocenziana e perfettamente raccordato a questa. Pacelli infatti inizia il suo percorso - con debito corredo di disegni, stampe e fotografie d'epoca - da Torino, in particolare da Palazzo Carignano, vecchia residenza di famiglia liberata dal nuovo re Carlo Alberto, dove la Camera dei deputati del Regno di Sardegna si riunì dall'8 maggio 1848. I primi componenti - tutti uomini, come il tempo richiedeva - erano stati eletti in collegi uninominali con un sistema a doppio turno; ignoravano però che per la prima seduta ci si sarebbe dovuti riunire in un'aula provvisoria al piano terra, perché l'aula vera non era ancora pronta; in più, "quando si trattò di procedere alla prima votazione, mancavano le urne, di cui nessuno evidentemente aveva previsto la necessità. Si ricorse, così, ad un cappello a cilindro, messo a disposizione da uno dei presenti". In quella seduta, la Camera si diede come regolamento provvisorio quello "per cura dei Ministri del Re compilato", senza valersi dell'autonomia regolamentare che l'avrebbe caratterizzata in seguito; il 16 maggio fu invece eletto per acclamazione il primo presidente, cioè Vincenzo Gioberti, che interpretò il ruolo "non [come] arbitro imparziale, sul modello dello speaker della Camera dei comuni, ma [come] espressione di una maggioranza politica".
Col passaggio dal Regno di Sardegna al Regno d'Italia, nel 1861, il Palazzo rimase lo stesso, almeno fino a quando, nel 1865, la capitale del regno fu trasferita a Firenze e anche la Camera dovette traslocare, per l'esattezza a Palazzo Vecchio. Se Pacelli racconta che lo spostamento della capitale "produsse più danni che benefici", non fu meno laborioso trasferire l'istituzione parlamentare: riprese la ricerca travagliata - tra concorsi banditi e progetti premiati ma non realizzati - di soluzioni per trovare ambienti idonei e adattarli alle esigenze dell'assemblea e dei suoi membri ("specie quando la Camera si riuniva in seduta pubblica, l’aula risultava scarsamente aerata ed il caldo nella stagione estiva si faceva opprimente"). 
Dopo la presa di Roma e la sua elevazione a capitale, il problema di trovare sistemazione alla Camera elettiva si ripresentò e l'istituzione pretese di avere l'ultima parola nella scelta del luogo in cui stabilirsi: all'inizio di gennaio del 1871 ci si accordò per eleggere come nuova sede dell'assemblea dei deputati il Palazzo Montecitorio (anzi, Monte Citorio, come recita ancora la targa della piazza), finito nel 1695 su progetto di Carlo Fontana dopo una storia travagliata - che Pacelli ripercorre in pagine agili e coinvolgenti e che vide il coinvolgimento di Gian Lorenzo Bernini - e destinato a sede della Curia da papa Innocenzo XII. 
Dal Corriere della Sera, 7-8 luglio 1893
La Camera vi si sarebbe trasferita (da sola, rifiutando la convivenza con il ministero dell'interno proposta dal governo) il 27 novembre 1871, dopo che fu realizzata la prima aula provvisoria su progetto di Paolo Comotto, ingegnere che aveva lavorato agli allestimenti di Palazzo Carignano e Palazzo Vecchio: era "un'aula in legno e stucco, quasi una scenografia", realizzata nel cortile interno del Palazzo, non completata all'atto dell'insediamento ma apparsa subito inadeguata, a dispetto dell'enorme somma spesa. "Il legno, gli stucchi e il colore rosso pompeiano con cui era stata dipinta - annota Pacelli - la rendevano scura, anzi cupa, tanto che alcuni giornali la paragonarono a una cripta funeraria. [...] L'impianto di illuminazione non funzionava e l'aula risultava fredda e piena di spifferi", al punto che i deputati furono autorizzati a restarvi con cappello, paletot, pelliccia e sciarpa. Si rimediò al problema del freddo con dei lampadari (che però rischiarono di bruciare le tribune in legno), ma non si poté fare nulla di utile contro i disagi del caldo estivo: fu proprio lì che nacque la "cerimonia del ventaglio", ricevuto per la prima volta nel 1893 in dono dal presidente Giuseppe Zanardelli dopo che questi l'aveva invidiato ai giornalisti parlamentari che ne facevano uso in tribuna per non squagliarsi.
Ventaglio a parte, le scomodità e i disagi erano ben altri e col tempo peggiorarono, anche sul piano della stabilità della struttura (che venne demolita nel 1899, dovendosi utilizzare l'anno dopo un'altra aula provvisoria, sempre in legno e stucco e ugualmente scomoda, in uso fino al 1918), per cui si vagliarono e si scartarono varie ipotesi, inclusa quella di concentrare in via Nazionale i due rami del Parlamento. Alla fine si scelse di realizzare un'altra aula in muratura dietro Montecitorio: nel mese di giugno del 1902 si diede l'incarico diretto all'architetto Ernesto Basile (molto noto e, per giunta, legato all'obbedienza massonica del Grande Oriente d'Italia). Il progetto arrivò a febbraio del 1903, fu approvato l'anno dopo, ma fu completato solo nel 1927, nove anni dopo l'inaugurazione dell'aula (e con una spesa imprecisata, ma di certo superiore a 45 milioni di lire): ne risultò un edificio in stile liberty, con grande cura per i dettagli e la scelta dei materiali e predisponendo anche canalizzazioni per riscaldare o raffreddare l'aula (ma in seguito sarebbero serviti anche per "far passare i cavi dei microfoni utilizzati per registrare le conversazioni che si svolgevano nel palazzo"). 
L'aula era ed è tuttora separata dal cortile d'onore (di nuovo libero) da un salone rettangolare lungo 56 metri e largo 11, noto come "Salone dei passi perduti" o "Transatlantico" (a motivo del "soffitto di legno intarsiato, realizzato sullo stile e con i lampadari usati all’epoca nei saloni da ballo dei transatlantici"); a una delle due estremità fu ricavata la buvette, "un caffè, analogo a tanti altri di quel tempo, con quattro tavolini in ferro con il piano di marmo bianco ed un lungo bancone dello stesso stile". Un luogo a suo modo mitico, "perfetto per sancire l’inizio di una amicizia o la fine di un’alleanza" secondo Giulio Andreotti, ma anche un luogo potenzialmente rischioso: nel 2002 la Corte costituzionale avrebbe stabilito (con la sentenza n. 509) che un'affermazione diffamatoria verso un deputato, pronunciata lì ma a voce abbastanza alta da essere avvertita anche in Transatlantico dai giornalisti, non poteva ritenersi funzionale all'attività parlamentare e, come tale, non era coperta dall'insindacabilità (ne avrebbe fatto le spese Fabio Mussi, nel processo per diffamazione intentato da Cesare Previti quattro anni prima).
Fatta l'aula, non cessarono le necessità di spazio: soprattutto con l'avvento della Repubblica -anche la Costituente tenne lì le sue sedute - e il progressivo incremento dei deputati (fino alla revisione costituzionale del 1963 che ne fissò il numero in 630), nonché con la creazione delle Commissioni permanenti e l'ampliamento della burocrazia parlamentare, la Camera ebbe bisogno di espandersi rispetto a Montecitorio. Nel volume di Pacelli, in particolare, si dà conto dell'acquisizione dei locali in via Uffici del Vicario (tuttora destinati ai gruppi), del restauro dell'ex monastero delle Oblate benedettine in vicolo Valdina (ora occupato essenzialmente da uffici di parlamentari) e, soprattutto, del travaglio legato alla sede della Biblioteca della Camera, originariamente destinata a un palazzo da costruire in via della Missione ma poi collocata nell'ex insula domenicana di via del Seminario (vicina al Pantheon, là dove stava il ministero delle poste), luogo condiviso con le commissioni bicamerali, d'inchiesta e l'archivio storico della Camera. In passato erano stati occupati anche altri palazzi, che però sono stati via via dismessi, nel tentativo di fare economia; dopo il taglio dei parlamentari, si starà larghi persino in aula e col Parlamento in seduta comune non si farà a cazzotti.

Le persone giuste per la "cultura del Parlamento"

Fermarsi al Palazzo, tuttavia, non è né possibile né opportuno. Il contenitore è maestoso e affascinante, ma il contenuto è essenziale: Pacelli lo descrive come "un mare frequentato da ogni genere di specie, dove l'esperienza è un elemento essenziale per nuotare, sopravvivere e cercare di realizzare il bene comune". Fin dall'inizio, hanno popolato la Camera varie nature di persone, che naturalmente sono cambiate nel corso del tempo. Ci si riferisce agli eletti (e, solo dal 1946, alle elette), ma anche a chi non metteva piede in aula, come giornalisti e rappresentanti di interessi (lobbisti, se proprio ci tenete a chiamarli così): a loro e a tante altre figure sono dedicate varie schede interessanti e curiose all'interno del testo. Soprattutto, però, occorre ricordare che l'intera macchina di ogni istituzione e in particolare della Camera ("clinica della Costituzione", secondo un'intensa espressione coniata da Silvano Tosi, primo titolare della cattedra di Diritto parlamentare) non potrebbe funzionare senza personale adeguatamente formato e competente, dalle poche figure di vertice a quelle di base.
Leggendo il volume di Pacelli appare ben chiaro che ripercorrere la storia della Camera significa anche (se non soprattutto) passare in rassegna la storia della sua amministrazione, delle persone che l'hanno guidata e delle scelte da loro fatte perché la "cultura del Parlamento" (vale a dire "l'insieme di norme, regole, prassi, comportamenti, stili e tradizioni che costituiscono la bussola con cui orientarsi nella più importante istituzione rappresentativa") sia rispettata, valorizzata e diffusa nel modo più efficace possibile. Si sono succedute scelte visibili o poco palpabili, svolte decise o riforme non compiute, scelte sagge e decisioni meno commendevoli; in qualche caso è facile ricostruire l'accaduto, in altri frangenti si può procedere solo per indizi e per ipotesi. In ogni caso, Palazzo Montecitorio in un secolo e mezzo di vita parlamentare ha visto esperienze di ogni tipo, che meritano di essere sfogliate.
Per chi appartiene alla categoria dei #drogatidipolitica è profondamente ingiusto e ingeneroso qualificare i tanti dipendenti del Parlamento ("dipendenti di Stato", non "dello Stato", come insisteva Vittorio Emanuele Orlando) come una pletorica e pesante voce di spesa. Basti pensare che, senza gli stenografi - una figura che non esiste più, ma che ha avuto un ruolo fondamentale - e chi si è occupat* e si occupa dei resoconti delle sedute di assemblea e commissioni, oggi non avremmo alcuna memoria dell'attività della Camera (e senza chi lavora al servizio informatico non sarebbe accessibile da ogni computer di casa una marea di informazioni e documenti, anche relativi alle ultime sedute); senza le molte persone addette alla biblioteca - aperta al pubblico dal 1988 - nessuno avrebbe accesso a una delle collezioni di volumi e altro materiale di studio più rilevanti per chi si occupa di diritto, politica e altre materie (e qualcosa di simile può dirsi per l'archivio). Soprattutto, senza i funzionari che si occupano dell'assemblea, delle commissioni, dei servizi studi e bilancio (senza dimenticare gli altri), il lavoro di qualunque deputata o deputato, di qualsiasi gruppo parlamentare sarebbe, se non impossibile, decisamente peggiore.
Di questo è cresciuta la consapevolezza con l'andare del tempo e nelle pagine del libro di Mario Pacelli - che della storia dell'amministrazione della Camera è stato per vari anni anche testimone diretto -  questo si avverte. Particolare attenzione è dedicata alle figure che via via hanno ricoperto il ruolo di vertice di quella struttura, cioè la segreteria generale: si è trattato sin dall'inizio di una posizione di potere e, anche per questo, estremamente delicata, come da sempre sono stati delicati i rapporti con la persona che in quel momento ricopre l'ufficio di Presidente della Camera (e, in modo più esteso, con l'Ufficio di Presidenza, che rappresenta l'organo collegiale di direzione politico-amministrativa della Camera e di cui fanno parte vicepresidenti, questori e segretari d'aula).
Scorrendo i nomi che si sono avvicendati al vertice dell'amministrazione dalle origini fino alla segretaria attualmente in carica (dal 2015), Lucia Pagano, si trovano figure entrate nella storia. nel volume di Pacelli si cita spesso Camillo Montalcini, segretario dal 1907 al 1927: uomo dalla formazione costituzionalistica, in piena età giolittiana improntò l'amministrazione della Camera all'imparzialità perché potesse essere garante per chiunque le si rivolgesse, a prescindere dalla parte politica (e a partire dal 1920, con il riconoscimento dei gruppi parlamentari, i partiti entrarono ufficialmente a Montecitorio); il fascismo tentò di sfruttare quel canone della neutralità politica per smantellare la struttura amministrativa creata da Montalcini (portando questi, che fascista non era, a lasciare l'incarico dopo un'indagine sulla massoneria, di cui probabilmente egli faceva parte), ma passata l'epoca fascista - comunque analizzata nel libro - e proclamata la Repubblica l'amministrazione tornò ad assumere i caratteri impressi dallo stesso Montalcini, incluso il ruolo preminente del segretario generale.
Dopo le prime riforme in epoca repubblicana (tra il 1948 e il 1953), un altro snodo fondamentale si ebbe - metabolizzato tra l'altro l'ingresso delle telecamere in Parlamento nel 1955 - a partire da 1964, quando arrivò al vertice dell'amministrazione della Camera Francesco Cosentino: figlio dell'ex segretario generale Ubaldo, entrato alla Camera nel 1947 per concorso, è stato noto per anni anche al di fuori degli ambienti parlamentari - sia pure con il solo cognome - per avere curato uno dei più noti commenti alla Costituzione (con tanto di riferimenti ai lavori preparatori dell'Assemblea costituente, ai quali aveva personalmente assistito assieme agli altri curatori, Vittorio Falzone e Filippo Palermo, peraltro nominati rispettivamente estensore del processo verbale e vicesegretario generale un mese dopo la nomina di Cosentino da parte dell'Ufficio di Presidenza di Montecitorio). Il nuovo segretario generale, nei suoi dodici anni di permanenza alla guida dell'amministrazione, strinse relazioni con molte figure politiche, concepì una Camera più efficiente, in cui tanto la maggioranza quanto l'opposizione dovevano avere precisi ruoli, delimitati e corroborati da diritti e obblighi; si sarebbe per questo dovuta accentuare la neutralità dei dipendenti (in grado di collaborare da "tecnici esperti" con chiunque e da interpretare e applicare in modo imparziale il regolamento) e sarebbe stata necessaria un'attenzione spiccata per la documentazione parlamentare come ingrediente essenziale per un'assemblea moderna e realmente consapevole. Queste linee guida informarono la riforma iniziata appunto nel 1964 e proseguita per alcuni anni; non si trattò di innovazioni soltanto rose e fiori e non tutto andò per il meglio, ma nessuno dubita del valore di "pietra miliare" di quel passaggio. 
Nel 1971 - giusto cinquant'anni fa - si ebbe l'adozione dei nuovi regolamenti parlamentari di Camera e Senato, gli stessi che - pur modificati, anche in modo sensibile - continuano a essere vigenti oggi, nella struttura e nell'impostazione: nell'ottica di "disgelo costituzionale" ormai in atto da tempo, si volle "porre il Parlamento al centro del Paese, quale sintesi dei centri di energia della Nazione, come affermò Aldo Bozzi, e ricercare una compartecipazione delle opposizioni nelle decisioni" (anche se l'idea di Cosentino, lo si è visto, era un po' diversa). Protagonisti delle Camere divennero, una volta per tutte, i gruppi parlamentari, "strutture portanti e, in un certo senso, egemoniche delle Assemblee", sempre secondo Silvano Tosi; i presidenti delle Camere divennero più garanti che soggetti di parte, mentre la programmazione dei lavori passò alla Conferenza dei capigruppo, in cui tutte le articolazioni maggiori erano rappresentate. Francesco Cosentino dovette uscire di scena nel 1976, in modo anche piuttosto burrascoso, per una vicenda collaterale allo scandalo Lockheed e forse per altre ragioni che sarebbero emerse anni dopo (si rimanda al volume per fatti, ipotesi, indizi e dubbi); di quel periodo resta soprattutto una dichiarazione rilasciata a una commissione d'inchiesta parlamentare dallo stesso Cosentino - e riportata da Pacelli - circa il compito del segretario generale della Camera: questi doveva essere "il custode del tèmenos, il recinto sacro del tempio greco, quello in cui solo i sacerdoti potevano entrare".
Anche in seguito, in ogni caso, non mancarono nomi destinati a essere ricordati, come quelli di Antonio Maccanico (entrato per concorso insieme a Francesco Cosentino e suo successore nel 1976, sia pure per soli due anni, cioè fino a quando fu chiamato alla segreteria generale del Quirinale da Sandro Pertini, primo presidente della Camera con cui aveva collaborato) e di Ugo Zampetti (rimasto al vertice dell'amministrazione della Camera dal 1999 alla fine del 2014, per poi passare dopo la pensione alla segreteria generale del Quirinale con Sergio Mattarella). Il libro di Pacelli e Giovannetti dà conto anche di momenti assai meno luminosi conosciuti dall'amministrazione camerale: questi sono stati legati soprattutto a dissidi con chi occupava la Presidenza (accadde prima con il rapporto complesso tra Nilde Iotti e Vincenzo Longi, arrivato alla rottura nel 1988, poi con il "braccio di ferro" tra Luciano Violante e Mauro Zampini, durato fino al 1999) oppure a situazioni anomale e di difficile gestione (ci si riferisce in particolare alla segreteria "bicefala" durata dal 1989 al 1994, con Donato Marra come segretario generale preposto ai servizi assemblea, commissioni e studi e Silvio Traversa quale segretario generale aggiunto preposto all'organizzazione amministrativa e al personale).

Pagine "simboliche" di varia natura

Da Google Maps Satellite
Interno Montecitorio
racconta tutto questo, ma non fa mancare a chi legge una messe incalcolabile di informazioni e di dettagli, magari sfuggiti anche a chi ha una pur minima conoscenza della storia del Parlamento. Nel volume, per esempio, si ricorda come in un primo tempo l'architetto Ernesto Basile, dopo aver realizzato l'aula, fece sostituire la salita verso l'ingresso principale di Piazza di Monte Citorio con una piccola scalinata; nel 1998 però il comune di Roma, sulla base di un progetto "approvato dalla commissione artistica della Camera ed elaborato da Franco Zagari" ripristinò la salitella, "realizzando però una sorta di piazzola davanti al portone", con "una striscia di marmo chiaro dalla base dell’obelisco [quello fatto innalzare lì da Pio VI) al portone principale di palazzo Montecitorio, con i segni zodiacali e l’indicazione dei punti in cui, da marzo ad ottobre, un raggio di sole passando attraverso la camera cava posta sulla cima, interseca l’ombra dell’obelisco a mezzogiorno 'vero' (cioè astronomico)". 
Precisa Pacelli che "non si tratta di una meridiana in senso proprio e non è il ripristino di qualcosa di già esistente: è piuttosto un tentativo di dare un senso compiuto ad una piazza lasciata a metà, dopo l’abbandono dell’originario progetto del Bernini"; lui stesso peraltro nota che "la striscia di marmo chiaro che parte dall’obelisco e che incrocia i sei semicerchi concentrici aventi per centro l'ingresso principale del palazzo sembra formare una enorme menorah, il calendario a sette braccia della tradizione ebraica e massonica. Secondo alcuni, le fiamme del candelabro entrano nel Palazzo con l’auspicio che la luce possa 'illuminare' il tempio della democrazia. Inoltre, in tutta la piazza sono state incastrate tra i sanpietrini numerose stelle, in antimonio come le colonnine e le catenelle e dello stesso colore dei selci della pavimentazione, segnano una linea curva intorno all’edificio". Qui non si aderisce ad alcuna lettura complottista o massonica (data anche, secondo alcuni, dalla natura di simbolo massonico delle stesse stelle), si prende semplicemente atto di questa curiosità: è invece noto che nel non lontano Palazzo Giustiniani - vicino a Palazzo Madama, dove ora si trova l'appartamento di rappresentanza del Presidente del Senato insieme a vari uffici senatoriali - ha avuto sede il Grande Oriente d'Italia sino al 1985 (e ancora nel 2015 il Gran Maestro del Goi rivendicò il diritto a riottenere alcuni locali del palazzo, sottratto in epoca fascista, in base ad accordi intercorsi negli anni '80 con l'allora presidente Spadolini), mentre di vari "abitanti" di Montecitorio (eletti e funzionari) era nota o probabile l'affiliazione a logge massoniche.
Se questa pagina, a suo modo, ha un certo potenziale "simbolico", se ne ritrova altrettanto - ma assai più simile a quello cui lettrici e lettori di questo sito hanno fatto l'abitudine - nelle parti del volume dedicate all'evoluzione delle norme regolamentari e delle prassi. Si è già ricordato il passaggio dell'approvazione dei regolamenti del 1971 come un punto fondamentale della storia del Parlamento della Repubblica; cinque anni dopo, nel 1976, nello stesso spirito che aveva portato a quei regolamenti venne eletto alla presidenza della Camera per la prima volta un esponente del Partito comunista italiano (Pietro Ingrao, prima della lunga presidenza Iotti), ma soprattutto si registrò l'ingresso di un manipolo di quattro persone elette sotto il simbolo del Partito radicale. In quella VII legislatura i primi nomi legati alla rosa nel pugno furono Marco Pannella, Emma Bonino, Adele Faccio e Mauro Mellini: loro - e le persone che subentrarono dopo le dimissioni di questi - fecero l'impossibile per introdurre i loro temi nell'agenda politica. Come scrive lo stesso Pacelli, "per pubblicizzare le loro iniziative e sostenere le loro campagne, i radicali utilizzarono tutti gli strumenti concessi dai regolamenti parlamentari: così l'ostruzionismo si trasformò da arma estrema ed eccezionale (quale era stata fino ad allora), in prassi costante". 
La pratica divenne più consistente nella successiva legislatura quando il Partito radicale ottenne addirittura diciotto seggi e, grazie alle norme del regolamento di Montecitorio (che consentivano costituire un gruppo autonomo anche con meno di venti eletti, purché questi avessero rappresentato "un partito organizzato nel Paese che abbia presentato, con il medesimo contrassegno, in almeno venti collegi, proprie liste di candidati, le quali abbiano ottenuto almeno un quoziente in un collegio ed una cifra elettorale nazionale di almeno 300 mila voti di lista validi"), i radicali ottennero di costituire un gruppo: questo ampliò gli strumenti ostruzionistici a loro disposizione, sempre in base al regolamento del 1971. Merita di essere riletto, in questo senso, il "dialogo" tra Andrea Manzella e Marco Pannella contenuto nel volume Regolamenti parlamentari e forma di governo: gli ultimi quarant'anni (Giuffrè, 2015, pp. 1-32) curato da Fulco Lanchester, per giustapporre le opinioni di chi aveva concorso alla scrittura di quelle norme e di chi aveva fatto di tutto per metterle sotto stress. Fu peraltro sempre in quella VIII Legislatura - la stessa che vide gli interventi dalla lunghezza record di Roberto Cicciomessere e, ancor più, di Marco Boato - che si approntarono i primi strumenti antiostruzionismo: prima il "lodo Iotti" sull'illustrazione degli emendamenti di opposizione in caso di apposizione della fiducia (1980), poi alcune riforme regolamentari che sarebbero continuate nella legislatura successiva. Pacelli dà ampiamente conto di tutto ciò che si fece per rendere più difficili manovre dilatorie e ostruzionistiche (per cui, in sostanza, l'opposizione avrebbe potuto continuare a fare il suo "lavoro", senza però impedire alla maggioranza di decidere, se ne aveva la forza); sarebbero arrivate più avanti altre riforme di rilievo, a partire dalla drastica limitazione dello scrutinio segreto (X Legislatura) fino agli interventi della XIII Legislatura - sotto la presidenza Violante - per favorire una "democrazia decidente" ma anche per tentare di migliorare la qualità della legislazione.
Tutto questo si trova nel libro di Mario Pacelli e Giorgio Giovannetti: il racconto del cuore della democrazia italiana, ricco di fasi importanti, luminose, buie e anche involontariamente comiche. Come quando, dopo che Luciano Violante ebbe stabilito che il numero legale dovesse calcolarsi su chi era effettivamente presente in aula e non sul numero minore di effettivi partecipanti al voto, "nelle prime sedute in cui fu applicata la nuova interpretazione accadde di tutto: fughe precipitose dall’Aula, deputati che si sedevano nei posti di altri e anche qualcuno che scivolava indecorosamente sotto lo scranno". Si può sorridere, per questa sorta di nascondino fuori tempo massimo, o scuotere la testa pensando che questo in un Parlamento non dovrebbe accadere. Come quando, il 3 giugno 1997 Mara Malavenda, sindacalista Cobas eletta in Rifondazione comunista, protestò in modo plateale per i suoi 1500 emendamenti sul lavoro interinale dichiarati irricevibili continuò a parlare dopo che il presidente Violante le tolse la parola (il tempo a disposizione era finito), disturbando gli altri interventi: per questo ebbe due richiami e rasentò più volte il terzo, ma raggiunse l'apice quando, per farsi sentire dopo la bocciatura di alcuni suoi emendamenti ammessi, "si infilò in bocca un fischietto e iniziò a soffiare. Il presidente Violante, dopo averla richiamata, la espulse. La Malavenda si legò con un foulard al suo banco continuando a fischiare. Intervennero i commessi, con difficolta e dopo qualche minuto riuscirono a tagliare il fazzoletto, mentre il fischio forte e stridente continua a riempire l’Aula. La deputata, presa di peso dai commessi, si fece trascinare nell’emiciclo continuando a fischiare e a gridare. Giunta sulla porta si mise di traverso continuando a fischiare. Tenuta ferma a terra dai commessi - riferì l’Adnkronos - cercò di 'rotolare verso il centro del Transatlantico', naturalmente sempre fischiando. La performance si concluse per la rottura del fischietto". Anche qui si può sorridere o disapprovare quanto è successo. Eppure è successo e, in seguito, è accaduto persino di peggio...

venerdì 15 gennaio 2021

Maie-Italia23: movimenti in arrivo al Senato

Formalmente sul sito del Senato non è cambiato nulla, rispetto anche solo a ieri. Eppure una manciata di ore fa è stata diffusa una nota di Ricardo Merlo, presidente del Movimento associativo Italiani all'estero (Maie) nonché sottosegretario agli Esteri in questo governo: in quel breve testo si annuncia il cambio di nome della "componente" senatoriale da Maie a Maie-Italia23, "per costruire uno spazio politico che ha come punto di riferimento Giuseppe Conte". "N
on cerchiamo responsabili - continua la dichiarazione di Merlo - ma costruttori, a cui l'unica cosa che offriamo è una prospettiva politica per il futuro, per poter costruire un percorso di rinascita e resilienza, nell'interesse dell'Italia, soprattutto in un momento così difficile come quello che stiamo vivendo, tra la crisi sanitaria che continua a mordere e quella economica che ha messo in ginocchio imprese, attività commerciali e famiglie. Facciamo questo alla luce del sole, con trasparenza. Invitiamo a far parte del gruppo tutti i colleghi senatori interessati a costruire e a lavorare da qui alla fine della legislatura per il bene del Paese e degli italiani".
Fin qui il contenuto della nota, al quale ovviamente ci si attiene. Certamente per ora l'operazione non ha ancora una portata numerica rilevante, se non altro perché per adesso la "componente" conta quattro aderenti che già votavano la fiducia al governo: oltre a Merlo, ci sono anche Adriano Cario (già Usei), Saverio De Bonis (eletto in Basilicata con il M5S) e Raffaele Fantetti (già di Forza Italia). La presenza di quest'ultimo è significativa: proprio Fantetti era stato indicato nei giorni scorsi come riferimento dell'operazione Italia23, prima che la paternità dell'iniziativa volta a creare una "lista centrale" (per le prossime elezioni, ma magari anche prima) fosse rivendicata da Gianfranco Rotondi.
Naturalmente nelle prossime ore i promotori dell'operazione attendono l'arrivo di altre persone elette in Senato (tra coloro che finora non hanno appoggiato l'esecutivo: tra queste anche Alessandrina Lonardo in Mastella?), al fine di sostenere il prosieguo del governo Conte-bis; sembra lecito prevedere però almeno un altro passo. Tutti i giornalisti che hanno curato le cronache dal Quirinale, infatti, hanno messo in luce come il Presidente della Repubblica preferirebbe che il sostegno al governo da parte di una diversa maggioranza fosse marcato all'apporto non di singoli eletti, ma di un gruppo parlamentare, anche da costituire. Del resto, era lo stesso sito di Italia23 a contenere già una voce del menu intitolata "Gruppo parlamentare", anche se era ancora vuota. Quella annunciata oggi, come si diceva, è solo una "componente" interna al gruppo misto di Palazzo Madama, anche se il suo valore è pressoché nullo: a differenza di quanto accade alla Camera, infatti, il Senato non conosce l'istituto della componente politica del misto (se non per l'ipotesi davvero marginale prevista dall'art. 156-bis, comma 1 del regolamento: "I Presidenti dei Gruppi parlamentari, a nome dei rispettivi Gruppi, ed i rappresentanti delle componenti politiche del Gruppo misto, possono presentare non più di una interpellanza di Gruppo al mese"). Da anni le componenti sono comunque praticate, ma valgono giusto come "etichette" che aiutano chi lo voglia a farsi riconoscere e non devono per forza essere legate a un partito (il caso di Insieme per l'Italia di Sandro Bondi e Manuela Reperti della scorsa legislatura lo dimostrò). Per avere più visibilità (anche come tempi di intervento), garanzie, prerogative e risorse (locali inclusi) occorre dunque costituirsi in gruppo parlamentare.
Chi segue con attenzione le vicende parlamentari sa, naturalmente, che negli ultimi scampoli della scorsa legislatura il regolamento del Senato  era stato modificato, per cui potevano formare un gruppo, anche in corso di legislatura, solo le compagini di almeno dieci persone elette a Palazzo Madama e che, come requisito politico, avessero rappresentato "un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l'elezione di Senatori" (così si legge nella prima parte dell'art. 14, comma 4 del regolamento).
Se in effetti ai quattro senatori citati si aggiungessero almeno altri sei membri di Palazzo Madama, la costituzione del gruppo Maie-Italia23 sarebbe possibile? Il Maie ha in effetti presentato liste con il proprio contrassegno (nella circoscrizione Estero, nelle due ripartizioni americane) e al Senato ha eletto proprio Ricardo Merlo. Ci sarebbe però un problema, non secondario: l'articolo 15, comma 3 del regolamento in via generale non consente di creare gruppi in corso di legislatura (sempre per non agevolare la frammentazione), tranne - per quanto interessa qui - quando la compagine di almeno dieci senatori che richieda la costituzione faccia riferimento "a singoli partiti o movimenti politici che si siano presentati alle elezioni uniti o collegati". 
Era in queste condizioni il Partito socialista italiano
, che nel 2018 aveva partecipato alle elezioni come parte visibile (nel senso che il suo simbolo era contenuto nel contrassegno) del cartello elettorale Insieme Italia-Europa: non gli era dunque preclusa la possibilità di costituirsi in gruppo autonomo in un secondo momento e nel 2019 l'ha fatto, con il benestare del Senato che ha consentito la nascita del gruppo Psi - Italia viva anche se l'unico eletto del partito titolare del beneficio previsto dal regolamento (Riccardo Nencini) aveva conseguito l'elezione in un collegio uninominale, dunque non come diretta espressione della sola lista che conteneva il suo simbolo. Il Maie, invece, non aveva partecipato unito o collegato alle scorse elezioni: del resto non avrebbe nemmeno potuto farlo, non essendo prevista questa possibilità nella circoscrizione Estero che prevede soltanto la presentazione di liste singole concorrenti. In teoria si potrebbe immaginare che, proprio perché i "simboli esteri" non avevano la possibilità di collegarsi, si dovrebbe consentire loro di formare un gruppo: si tratterebbe di una lettura non priva di senso (e persino più accettabile di quella che ha portato a considerare eletto per il Psi un eletto in un collegio uninominale), ma lontana dalla lettera del regolamento, per cui sarebbe opportuna una discussione in Giunta per il regolamento. 
Perché un gruppo Maie - Italia23 possa nascere con sicurezza al Senato, dunque, servirebbe l'apporto di un'altra forza politica che abbia partecipato alle elezioni del 2018 unita o collegata ad altre. Paradossalmente proprio il Psi potrebbe nuovamente consentire la nascita di questo gruppo parlamentare, considerando che Riccardo Nencini ha già dichiarato la sua natura di "costruttore". Naturalmente in questa direzione non è ancora stato detto o deciso nulla in modo ufficiale, né si hanno notizie di un'adesione del Psi a quel possibile gruppo, per cui gli scenari potrebbero essere diversi. 
Certo è che, se Nencini aderisse alla nuova compagine parlamentare e allo stesso tempo il segretario nazionale del partito, Enzo Maraio, concedesse l'uso del nome per la formazione del gruppo, quell'uso verrebbe ritirato ufficialmente a Italia viva, che si ritroverebbe priva - come da più parti si sta facendo notare fin da ieri - il partner che le ha consentito l'emersione dal gruppo misto come gruppo autonomo. Le conseguenze di una simile scelta, come dell'eventuale fuoriuscita di membri che facessero scendere il gruppo sotto le dieci unità, sarebbero pressoché immediate: il gruppo avrebbe dichiarato sciolto e i suoi componenti entrerebbero d'ufficio a fare parte del gruppo misto, perdendo così i privilegi ricordati prima. Naturalmente quella situazione potrebbe non essere definitiva: Italia viva dovrebbe trovare un'altra forza politica in grado di formare un gruppo senatoriale in corso di legislatura. 
Ritenendo di poter escludere che un simile beneficio possano concederlo Noi con l'Italia (che ha eletto Gaetano Quagliariello) oppure l'Udc (che ha eletto tre senatori) per evidenti incompatibilità con il soggetto politico renziano, la possibilità che apparirebbe meno impraticabile sarebbe un accordo con +Europa, che a Palazzo Madama ha eletto Emma Bonino e, come componente, da alcune settimane nel gruppo misto è unita anche a due senatori che ora rappresentano Azione, cioè l'ex M5S Gregorio De Falco e Matteo Richetti, già molto vicino a Renzi durante la loro militanza nel Pd. A dire il vero è altrettanto noto che negli ultimi tempi non sono stati affatto buoni i rapporti tra lo stesso Renzi e Carlo Calenda, fondatore di Azione con Richetti (non si dovrebbe peraltro dare per scontato nemmeno il consenso di Bonino e del leader di +E Benedetto Della Vedova, tra l'altro a pochi mesi dal congresso che si svolgerà in primavera); è altrettanto vero però che l'unione di tre forze moderate e liberali come +Europa, azione e Italia viva avrebbe un significato politico preciso e aiuterebbe forse l'aggregazione in un'area finora decisamente frammentata, dunque piuttosto debole sul piano elettorale. 
È  evidente, in ogni caso, che da qui all'inizio della settimana prossima può ancora accadere di tutto e ogni parola scritta in questo post potrebbe essere velocemente consegnata alla preistoria punto tanto vale quindi aspettare qualche manciata di ore e riflettere su ciò che effettivamente accadrà.

mercoledì 13 gennaio 2021

Mistipé, il primo partito nazionale di Rom e Sinti

La costituzione per atto pubblico risale al 4 dicembre dello scorso anno, ma il 9 gennaio è stata ufficialmente divulgata la nascita di un nuovo partito, denominato Mistipé: si tratta del primo partito nazionale di Rom e Sinti, fondato da un gruppo di persone a Lanciano, in provincia di Chieti, con l'idea di ampliare la propria presenza ad altre zone dell'Italia non appena questo sarà possibile. 
Presidente del partito è Giulia Di Rocco, assistente legale e mediatrice culturale nelle scuole, nonché membro del Forum Rom Sinti Camminanti (istituito dall'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali presso il Ministero delle pari opportunità) e dell'International Romaní Union, che rappresenta i Rom al Consiglio d'Europa e all'ONU. Con lei fanno parte del direttivo nazionale la vicepresidente Virginia Morello (attivista), il segretario Anthony Guarnieri (attivista e studente) e la tesoriera Concetta  Sarachella, (attivista, stilista e presidente dell'associazione Rom in progress).
Il tempo della costituzione del partito non è affatto casuale: "L'idea di costituire questo partito - spiega Di Rocco a I simboli della discordia - è nata circa due anni fa, quando si erano fatte molto forti alcune campagne mediatiche veramente sgradevoli nei confronti dei Rom. Allora sentivamo il bisogno di difenderci sulla stampa e sui mezzi di comunicazione dagli attacchi che ricevevamo, per dire chiaramente che non è vero che il popolo Rom è fatto di delinquenti. Le 'mele marce' ci sono ovunque, anche se in Italia c'è la mafia nessuno può dire che tutti gli Italiani sono mafiosi, anzi per fortuna gran parte degli Italiani è contro la mafia: lo stesso vale per la comunità Romaní, ma a noi non è dato di difenderci allo stesso modo nella società. Nell'ordinamento giuridico la responsabilità penale è personale, ciascuno è responsabile dei propri errori, mentre quando a compiere un reato o un atto sgradevole è un Rom viene colpevolizzata l'intera etnia e chi vi appartiene finisce spesso discriminato, anche solo magari nella ricerca di un appartamento in affitto. Naturalmente questo non significa giustificare gli atteggiamenti e i comportamenti scorretti o criminali quando sono tenuti da una persona Rom: mi rendo però conto che si tratta di una condizione non facile, di fronte alle discriminazioni occorre un carattere forte per continuare a combattere e a impegnarsi e chi non ce l'ha rischia di pensare 'la società non mi accetta, tanto vale vivere di espedienti'. Per evitare questo serve l'impegno delle associazioni di volontariato e la solidarietà tra noi, ma abbiamo capito che non basta, occorrono anche azioni politiche mirate che facciano valere anche le nostre istanze e permettano di riconoscere in pieno la nostra dignità. Possiamo essere un ponte tra lo Stato e le persone Rom in Italia, cittadine e cittadini italiani che hanno diritto di sentirsi rappresentati".
Nemmeno il nome, naturalmente, è stato lasciato al caso, come puntualizza Di Rocco: "La parola Mistipé, nella lingua romaní, riconosciuta a livello internazionale, esprime uno dei concetti più belli in assoluto: significa amore, bene e rispetto reciproco. L'abbiamo scelta proprio perché comunica ciò che abbiamo in mente: vogliamo il rispetto per il popolo Rom, ma appunto in una dimensione reciproca, con il rispetto da parte nostra verso la società civile".
Il simbolo scelto per il partito richiama, in sostanza, la bandiera della popolazione Roman
í, che contiene una ruota rossa di carro al centro (simbolo del nomadismo) su un fondo a due bande orizzontali, in alto di colore azzurro e in basso di colore verde (rappresentando rispettivamente il cielo e la terra). In questo caso si è voluto rendere riconoscibile il segno senza copiare pedissequamente il vessillo: "Volevamo che Rom e Sinti potessero riconoscere subito il simbolo e identificarsi in esso - ricorda ancora Di Rocco - ma senza impiegare direttamente la bandiera, ci sembrava inopportuno pretendere di usarla senza alcuna modifica". Si è dunque scelto di far occupare quasi tutto il cerchio dalla ruota, lasciando intravedere i colori del fondo della bandiera sul lieve contorno dell'emblema e negli spazi tra una razza e l'altra; per consentire più facilmente la lettura del nome del nuovo soggetto politico (che nel simbolo è riportato senza l'accento acuto, utilizzato nella versione diffusa in Italia, per fare riferimento anche alle pronunce praticate negli altri paesi e offrire una grafia omogenea, valida per tutti i gruppi Rom) si è poi rinunciato alle cavità a livello del diametro orizzontale. 
Il partito è stato fondato a Lanciano, in Abruzzo, per ragioni precise: "La comunità Romaní abruzzese e molisana - nota ancora la presidente del partito - ha una storia lunga e consolidata: ha iniziato a insediarsi qui già alla fine del Trecento, quindi abbiamo pensato di ripartire proprio da questo territorio per un progetto così importante. Abbiamo già preventivato di aprire circoli altrove: pensiamo a grandi città come Milano e Roma, ma anche ad altri centri come Lamezia Terme e al Molise, dove abbiamo avuto disponibilità a impegnarsi per questo progetto. Al momento la partenza è lenta a causa della pandemia Covid-19, non ci è possibile spostarci per cercare luoghi idonei da adibire a sede; speriamo che nei prossimi mesi ci siano le condizioni per lavorare di più e meglio". 
Nel proporsi di rappresentare Rom e Sinti nel panorama politico italiano, Mistipé si propone tra l'altro di operare perché si arrivi al riconoscimento di quel popolo come minoranza linguistica, di compiere azioni per combattere le discriminazioni e l'odio verso Rom e Sinti, nonché per migliorare l'inclusione sociale e scolastica in quelle comunità e la parità di genere. Si vedrà con il tempo se questi scopi saranno perseguiti solo con l'interlocuzione con i vari livelli di governo e con le altre forze politiche o se si riterrà opportuno partecipare anche alle competizioni elettorali.

lunedì 11 gennaio 2021

Palazzo Barberini, 1947: i socialdemocratici con falce e martello

Quello che cade nel 2021 non è un anniversario "tondo" o che richieda particolare solennità, rispetto a quelli che si possono festeggiare negli altri anni. Eppure coloro che sono affezionati, per esperienza, storia o memoria alla tradizione socialdemocratica italiana oggi ricordano che a Roma, proprio l'11 gennaio del 1947, dopo una riunione a Palazzo Barberini, nacque il Partito socialista dei lavoratori italiani, primo nucleo di quello che sarebbe diventato ufficialmente nel 1952 il Partito socialista democratico italiano.
Se quello fu un giorno di liberazione per coloro che presero parte a quel passaggio e, in generale, per i seguaci della socialdemocrazia, per la famiglia socialista italiana si trattò di una vera e propria frattura - tanto più che avvenne nel bel mezzo del XXV congresso straordinario del Partito socialista italiano di unità proletaria, convocato sempre a Roma - per l'esattezza alla Città universitaria - dal 9 al 13 gennaio 1947. 
Avanti!, 12 gennaio 1947
Già nel congresso precedente (Firenze, 11-17 aprile 1946) erano arrivate a un primo scontro le posizioni della maggioranza legata a Pietro Nenni (favorevole a proseguire l'alleanza con il Pci, iniziata durante la Resistenza, per non dividere la classe lavoratrice) e della minoranza che aveva riferimento in Giuseppe Saragat e puntava decisamente a posizioni autonome rispetto ai comunisti italiani; un anno dopo le due posizioni apparvero del tutto inconciliabili. Al congresso Saragat, attaccando la linea di Nenni, disse che bisognava difendere "i principi dell'autonomia del Partito socialista", che per colpa dell'alleanza coi comunisti e delle posizioni polemiche assunte il partito stava "perdendo ogni efficacia come fattore politico nella vita nazionale": a quel punto non c'era nulla da fare e, mentre il Psiup - su proposta di Olindo Vernocchi - riassunse la denominazione storica di Psi, Saragat completò lo strappo andando a Palazzo Barberini e contribuendo decisivamente alla nascita del nuovo partito, che per la verità aveva scelto per sé uno dei vecchi nomi dei socialisti (in particolare quello deliberato dal II congresso di Reggio Emilia del 1893).
Il trauma interno alla famiglia socialista, peraltro, si sarebbe riflettuto sull'intera Italia politica: il 1° giugno 1947 Alcide De Gasperi escluse tanto i comunisti quanto i socialisti del Psi dal governo, costituendo il suo quarto esecutivo con socialdemocratici, repubblicani e liberali; ciò non mancò di scaricare varie tensioni sull'operato dell'Assemblea costituente (dalla presidenza della quale Saragat si era già dimesso il 13 gennaio, lasciando il posto al comunista Umberto Terracini), ma ciò non impedì che l'organo terminasse il suo lavoro.
Nonostante quella scelta, nel governo De Gasperi falce e martello erano rimasti. Già, perché nel simbolo che si erano dati provvisoriamente Saragat e i sostenitori dei gruppi che si riconoscevano in Critica sociale e Iniziativa socialista erano presenti e ben riconoscibili alcuni elementi dell'emblema con cui il Psiup si era presentato alle elezioni dell'Assemblea costituente il 2 e il 3 giugno 1946: la falce e il martello, appunto, collocati sul libro aperto della conoscenza - e di fatto simboleggiava anche l'unione tra i lavoratori "del braccio" e quelli "della mente". Anche il cerchio centrale poteva essere letto come una sorta di sole, richiamando di nuovo l'antico emblema. 
Del tutto nuove per l'Italia erano invece le tre frecce diagonali (di solito rappresentate come puntate verso l'alto e a sinistra) che attraversavano il cerchio: prima di essere utilizzate come emblema dell'Internazionale socialista, erano state adottate - lo ricorda il ricercatore Luca Einaudi in un suo articolo del 1998 (La simbologia dei partiti politici italiani dal 1919 al 1994) - dal Fronte di ferro dei socialdemocratici tedeschi per cancellare le svastiche o contrapporsi a esse; da lì erano state utilizzate anche dalla Spd tedesca, dai socialisti francesi della Sfio e da altri soggetti politici, fino appunto all'adozione da parte dell'Internazionale socialista.
Lo stesso motivo, con la grafica giusto un po' reinterpretata, si vide sulla tessera che il Psli - il cui nome nel frattempo aveva inglobato la dicitura "Sezione dell'Internazionale socialista" - produsse appunto per l'anno 1947, inserendo quegli elementi grafici in una bandiera rossa, segno che avvicinava ancora di più sul piano iconografico i transfughi al Psi.
Nonostante questo, tuttavia, il simbolo con falce, martello e libro non si vide sulle schede delle delicatissime elezioni politiche del 18 e 19 aprile 1948: pur essendo stato depositato regolarmente al Ministero dell'interno, fu lasciato da parte. Gli aderenti al Psli, infatti, si presentarono al voto guidando la lista Unità socialista, qualificata come "autenticamente socialista e democratica", in grado di raccogliere vari consensi tra i socialisti anticomunisti, in uscita dal Psi (i nomi più illustri furono quelli di Ivan Matteo Lombardo e Ignazio Silone). Per l'occasione nel contrassegno figurava solo la parola "Socialismo", al di sopra di un sole nascente dal mare: il sole coi raggi ricordava almeno in parte l'emblema rettangolare del Partito socialista unitario di Filippo Turati, che aveva concorso alle elezioni del 1924.
In quell'occasione elettorale, come si sa, sulla scheda elettorale non finì nessun simbolo con falce e martello (tranne quello del Partito comunista internazionalista, presente in pochissime circoscrizioni): anche il Psi, infatti, depositò il suo simbolo - molto simile a quello impiegato nel 1946 - ma poi non lo utilizzò, avendo dato luogo con il Partito comunista italiano e altre forze minori all'esperienza del Fronte democratico popolare per la libertà, la pace, il lavoro, contrassegnato dall'effigie di Giuseppe Garibaldi al di sopra di una stella. Alle elezioni, stravinte dalla Dc, il Fronte ottenne alla Camera 8.136.637 voti, pari al 30,98%, ma la lista Unità socialista riuscì a raccogliere 1.858.116 voti, cioè il 7,07%, contribuendo certamente a indebolire il Fronte e confermando "sul campo" la partecipazione al nuovo governo De Gasperi (il quinto), arrivando addirittura con Saragat alla vicepresidenza. Il volto di Garibaldi (e con esso l'alleanza Pci-Psi) fu messo da parte; il sole nascente, invece, rimase e divenne il simbolo ufficiale degli scissionisti di Palazzo Barberini, anche dopo la trasformazione in Psi. 
Falce e martello si sarebbero riavvicinati solo tra il 1968 e il 1969, con il tentativo dell'unificazione elettorale di Psi e Psdi (con l'emblema a "bicicletta") e addirittura con un simbolo fuso nel 1969 (con falce, martello e libro all'interno del sole); dopo il fallimento elettorale dell'anno prima, tuttavia, l'esperimento si sarebbe sciolto in fretta e i socialdemocratici non avrebbero più voluto incrociare quei segni che non sentivano più loro, quasi dimenticando di essere nati con "gli arnesi" al centro del loro primo simbolo e della loro prima tessera.

domenica 10 gennaio 2021

Italia Unita, esperimento liberaldemocratico di 25 anni fa

Nell'anno di non troppa - ma neanche scarsissima - grazia 1996 la politica italiana era impegnata a mutare, nel tentativo di approdare a un "nuovo" più semplice e magari bipolare (non andò così, ma pazienza). I cantori dei bei tempi andati c'erano pure allora, ma in quel periodo la più parte delle energie era impiegata altrove. Gli ex Pci avevano girato pagina nel 1991, senza rinunciare alla loro storia: rimasero falce e martello in miniatura, ma l'albero del Pds prevaleva (e i duri e puri di Rifondazione comunista se ne andarono); quattro anni dopo anche il partito opposto, il Msi, si rinnovò, mutando nome in An senza gettare il nucleo del vecchio simbolo (mentre gli affezionati alla destra sociale intitolarono il loro partito proprio alla Fiamma tricolore). Tra il 1994 e il 1995 la Dc aveva cambiato nome e, non riuscendo più a stare al centro senza prendere posizione "di qua" o "di là", si era spaccata (almeno) in due tronconi. Qualcuno aveva guardato a sinistra per costruire qualcosa con ex comunisti, parte degli ex socialisti e altri gruppi, credendo di aver fatto una scelta coerente; altri, per non stare con gli avversari di vari decenni, avevano deciso fermamente di collocarsi dall'altra parte. Quel campo, dopo che la Lega Nord aveva scelto di correre da sola, era occupato dalla destra che voleva cambiare pelle, ma soprattutto da un partito costruito intorno al suo leader, diventato presto un punto di ritrovo per vari moderati, inclusi vari ex socialisti e liberali.
Proprio in quelle due aree forse si trovava il maggior numero di persone non tanto nostalgiche, ma politicamente a disagio: nel nuovo scacchiere politico italiano non c'era più un partito socialista forte (o con percentuali seriamente paragonabili a quelle del Psi di pochi anni prima), così come mancava un soggetto politico che potesse dirsi pienamente e solo liberale, oltre che con una quota di voti non trascurabile. Naturalmente c'era Forza Italia, c'erano la Lista Pannella e il Patto Segni, ma nessuno avrebbe mai potuto dire che sotto quei simboli c'erano soltanto idee e persone liberali. Qualcuno si adattò comunque a fare politica sotto le insegne di quei nuovi partiti, altri si allontanarono, altri ancora presero la via degli esperimenti, cercando di tracciare nuovi percorsi.
In quest'ultima categoria rientrava certamente anche Luciano Garatti: nato a Pian d'Artogne (Bs) nel 1951, avvocato del foro di Brescia fin dal 1979, era molto noto per la sua attività in Val Camonica (aveva e ha il suo studio a Darfo Boario Terme). Nel 1992 si era candidato al Senato per il Pli e nel collegio di Breno aveva raccolto 6197 voti (oltre 500 in più rispetto alla persona schierata da Rifondazione comunista): non era certamente poco, ma il risultato non era stato sufficiente per l'elezione. Anche in base a quella performance, in ogni caso, Garatti nel 1994 era stato candidato dal Polo delle libertà - dunque sotto le insegne di Forza Italia e della Lega Nord - sempre al Senato, nel collegio di Lumezzane (che comprendeva anche la Val Camonica) e quella volta aveva vinto, con il 41,57%; aveva aderito al gruppo senatoriale di Forza Italia, ma non si iscrisse mai a quel movimento politico. Finita in fretta la legislatura, nel 1996 era stato ricandidato dal Polo per le libertà nel collegio di Darfo Boario (in quel caso alla Camera), ma la corsa solitaria della Lega Nord (che lì vinse con Davide Caparini sfiorando il 42%) lo aveva fatto arrivare terzo con il 28.27%, superato di poco dal candidato del centrosinistra.
Quell'esperienza probabilmente suggerì a Garatti che poteva essere il momento di tentare una soluzione diversa, autonoma rispetto ai compagni di viaggio avuti sino a quel momento. Alla fine di giugno del 1996, quindi, lui e poche altre persone di fiducia fondarono con atto notarile - anche se forse si trattava di dare forma giuridica a qualcosa che esisteva informalmente già prima - l'associazione Italia Unita, con sede proprio a Boario Terme. Pur avendo scelto una strada autonoma, non venne abbandonata la collocazione politica, che rimase quella di un "movimento liberaldemocratico", così come stava scritto nel frontespizio dello statuto. E proprio l'articolo 2 di quel documento fondativo precisava che Italia unita si proponeva di "agire come gruppo d'opinione democratica, collocato nell'area moderata, ove si incontrano i valori della cultura cattolica e laica per attuare al meglio il principio della libertà individuale quale primato della persona sullo Stato per una migliore difesa dei principi di legalità a tutela dei diritti dell'uomo da cui le istituzioni trovano la propria legittimità". 
Nei tempi in cui la Lega Nord propugnava la secessione, Italia Unita voleva "assicurare un solido contributo al mantenimento dell'unità ed indivisibilità dello Stato Italiano, facendo salve le esigenze federaliste per l'autonomia e per il decentramento amministrativo periferico, adoperandosi nel contempo per una rapida realizzazione delle riforme costituzionali dello Stato per un'efficace trasformazione e modernizzazione del Paese, onde possa essere in grado di dare adeguate risposte in termini di servizi e sviluppo al cittadino". Lo strumento per perseguire questi scopi era "la libera discussione con l'impegno ad attenersi alle decisioni della maggioranza a meno che essa non sia contraria ai diritti umani ed ai principi fondamentali delle libertà".
Allegato all'atto costitutivo dell'associazione c'era anche il simbolo, che il 5 luglio 1996 fu anche depositato come marchio: la domanda, presentata per la classe 42 (Servizi scientifici e tecnologici e servizi di ricerca e progettazione ad essi relativi; servizi di analisi e di ricerche industriali; progettazione e sviluppo di computer e di programmi per computer), fu accolta molto più in là, il 16 febbraio 1999. Il contenuto dell'emblema in effetti era molto semplice: il nome del movimento, scritto in bianco in font Kunstler corsivo, era posto al centro di un cerchio blu, bordato da una circonferenza tricolore (anche se tutto questo nel marchio si poteva solo immaginare, essendo stato curato il deposito dell'emblema in bianco e nero).
Quel passo non rimase isolato: Garatti e altri aderenti nel 1997 cercarono la via delle elezioni, presentando proprie liste in alcune competizioni comunali rilevanti. Lo stesso Garatti, in particolare, si presentò a Torino come candidato sindaco, (sfidando Valentino Castellani, Raffaele Costa, Domenico Comino e altri nove aspiranti alla guida della città) sostenuto da una lista espressione del suo movimento; altrettanto fece Ugo Frisoli a Milano, in una sfida monopolizzata dallo scontro tra Gabriele Albertini, Aldo Fumagalli e l'uscente Marco Formentini. A Roma,  invece, la lista entrò nel centrodestra, a sostegno di Pierluigi Borghini che sfidava l'uscente Francesco Rutelli; liste di Italia Unita, in quell'occasione, si trovarono anche ad Agrigento e a Palermo, in entrambi i casi con candidature autonome al di fuori da ogni polo.
Almeno a Roma, tra l'altro, il simbolo subì una modifica grafica: comprendendo forse che il carattere scelto, pur elegante, poteva essere scarsamente leggibile, si pensò di usare un'altra font. Venne scelto il carattere Forte, giusto un po' compresso in larghezza per far stare il nome nel cerchio e ingrandirlo il più possibile. Che fosse opportuno rendere la scritta più leggibile è indubbio; che fosse il caso di scegliere quella font, certamente più marcata ma anche piuttosto informale e poco "istituzionale", è almeno discutibile. Di certo quell'esperienza non può etichettarsi come fortunata: la lista raccolse a Torino lo 0,19%, a Milano lo 0,11%, a Roma lo 0,28%, ad Agrigento lo 0,67% e a Palermo lo 0,13%, risultando sempre la formazione meno votata (tranne che a Roma, ma il simbolo fu comunque il meno scelto della coalizione di centrodestra). Quelle sortite di Italia Unita, dunque, non furono affatto un successo; Garatti, tuttavia, cercò di consolidare il proprio progetto, a suo dire valido. Ci sarebbero state nuove occasioni elettorali, anche per provare altre soluzioni grafiche, alla ricerca di quelle più accattivanti (anche se nel 2006, alla scadenza del marchio, questo fu rinnovato per un altro decennio). Tempo qualche manciata di mesi e sarebbe arrivato il momento di sperimentare, di nuovo. 

domenica 3 gennaio 2021

Italia23, prove di "lista centrale" (con Rotondi) e di gruppo parlamentare

In rete se ne parla da alcuni giorni, dopo che un articolo del Foglio - a firma di Valerio Valentini - ha dato per primo la notizia: l'11 dicembre 2020 è stata fondata un'associazione denominata Italia23, già dotata di un sito e forse - si aggiunge qui - è già pronta anche una pagina Facebook (creata il 31 dicembre 2020, ancora vuota, ammesso naturalmente che non sia una pagina con altri scopi), qualificata come legata a un "partito politico" e che nella descrizione riporta solo la frase "
L'Italia che noi tutti vogliamo". 
Secondo Valentini, la data non sarebbe esattamente casuale: si collocherebbe a due mesi di distanza dal giorno in cui Raffaele Fantetti, eletto nel 2018 in Senato nella circoscrizione Estero-Europa con Forza Italia, ha lasciato il gruppo dei forzisti per entrare nel gruppo misto, scegliendo di rappresentare il Maie (Movimento associativo degli italiani all'estero), soggetto politico che sostiene il governo in carica e il cui presidente, Ricardo Antonio Merlo, è attualmente sottosegretario per gli affari esteri e la cooperazione internazionale. Proprio Fantetti sarebbe il fondatore di quest'associazione che, in base alle anticipazioni offerte dal Foglio, potrebbe rapidamente diventare il "partito di Conte", pronto a sostenere il presidente del Consiglio in carica nelle sue "ambizioni politiche". "Perché 'Italia 2023' - scriveva Valentini - è stata una suggestione più volte evocata, dal premier: un 'piano', una 'agenda', che di tanto in tanto ricompariva nelle sue interviste, come ad alludere alla scadenza naturale della legislatura, che poi è l'unica cosa che conta davvero, nel Palazzo". 
Sentito per quell'articolo sull'idea che quel nome possa essere presto associato a un partito, lo stesso Fantetti avrebbe dichiarato: "Ma per carità, è solo un think tank, il nostro". Eppure a dimostrare che il nascente think tank (un termine che sembrava un po' passato di moda, anche se le strutture continuavano certo a esistere) potrebbe avere presto una sua proiezione nelle Camere provvede una particolare voce del menu del sito: "Gruppo parlamentare". La pagina è vuota, anzi, più esattamente contiene una "lettera aperta", non firmata, in cui si legge che "lo scontro politico non può, non deve, essere portato fino al limite di una grave crisi istituzionale: è anzi necessario perseguire una cornice in cui sia la maggioranza che l’opposizione approntino una doverosa collaborazione istituzionale per gli interessi immediati e superiori dei cittadini, quali la salvaguardia della salute, del lavoro e della pacifica convivenza sociale. Come ogni altro Paese del mondo, non abbiamo certo bisogno di incertezza politico-istituzionale ed instabilità socio-economica e finanziaria in questa fase storica in cui dobbiamo contrastare una pandemia e favorire la ripresa dello sviluppo". Non è ancora un contenuto propriamente parlamentare, ma le intenzioni sono nette e, in ogni caso, è lecito dubitare che la scelta del titolo della pagina sia frutto di un caso o di un errore. 
L'articolo fa vari nomi, di aree potenzialmente interessate dal nuovo progetto politico (quella "scettica" di Italia viva) e di persone che potrebbero essere coinvolte: vari ex forzisti (Paolo Romani, Gaetano Quagliariello, Massimo Vittorio Berutti, tutti rappresentanti di Idea-Cambiamo!, e Alessandrina Lonardo, per ora priva di "etichette" nel gruppo misto), rappresentanti dell'Udc ora nel gruppo forzista (Paola Binetti, Antonio Saccone), con la speranza di arrivare a qualche ex M5S. Posto che, nelle ore scorse, Giovanni Toti per Cambiamo! e Lorenzo Cesa per l'Udc hanno smentito qualunque sostegno a Conte, occorre ricordare che per poter dare luogo all'eventuale gruppo al Senato occorrerebbero dieci persone, ma servirebbe anche il sostegno di un partito che si è presentato alle ultime elezioni e ha eletto almeno un senatore. Questo, in realtà, potrebbe essere il problema minore: visto il coinvolgimento di Fantetti come esponente del Maie, proprio Ricardo Merlo potrebbe mettere a disposizione il nome del suo soggetto politico e, proprio come aveva fatto il Psi con Italia viva a settembre del 2019, affiancarlo nel nome del nuovo gruppo a quello di Italia 2023.
Oppure, più, semplicemente, di Italia23. Già, perché è questo il nome abbreviato - con tanto di logo con tricolore a pallini, che poco si presta a essere inserito in un cerchio, ma magari potrebbe convivere con altre grafiche - che si legge nel sito. Un sito in cui non c'è un nome che sia uno, ma si possono trovare lo statuto dell'associazione (in cui il nome è proprio "Italia23") e una sua sommaria descrizione: 
Al di là del suo statuto e degli scopi che ci si propone come libera associazione, "ITALIA23" nasce nel dicembre 2020 come un gruppo di esperti della società civile impegnato nell’analisi e nella soluzione di problemi complessi, specie in campo politico-economico. Ci siamo dati tre anni di tempo per disegnare e proporre, settore per settore, l’Italia che vorremmo nel 2023.
Resta il fatto che, al momento, nomi veri spesi - come si diceva - non ce ne sono. Gli unici emersi finora sono quello di Fantetti, ma in realtà anche quello di Gianfranco Rotondi. Sì, perché sul suo profilo Facebook, poco prima di mezzogiorno del 29 dicembre (il giorno in cui l'edizione cartacea del Foglio ha pubblicato l'articolo cui si faceva riferimento), è apparsa questa breve nota: 
Non è vero che il Centro esiste solo col proporzionale. In Italia esiste il maggioritario dal 1994 e abbiamo avuto le seguenti esperienze di Centro: Segni nel 1994, quindici per cento dei consensi; Andreotti e D’Antoni nel 2001, tre e mezzo di voti; Casini nel 2008, sette per cento; Monti nel 2013, dieci per cento. Senza considerare il Movimento 5 Stelle, che non è di Centro, ma sicuramente alternativo a destra e sinistra. Lo spazio c'è e ci proveremo, in caso di voto anticipato, con liste nella quota proporzionale e nei collegi uninominali. Il logo "Italia 2023" è stato registrato da me, non da Conte. Il logo "Italia 2023" (con la variante 2021 e 2022 in caso di elezioni anticipate) è il nome provvisorio di una lista centrale che riunirà le forze alternative a Salvini e al Pd alle elezioni politiche. Perché questa iniziativa, da me promossa, venga costantemente confusa con un ipotetico partito di Conte, sinceramente non lo so.
Così è rispuntato Rotondi, tra i pochi che continuano a utilizzare per sé, e senza problemi o nostalgie, l'etichetta di "democristiano", e in poche righe ha ritirato fuori nomi e simboli che qualcuno aveva forse dimenticato, a partire dal Patto per l'Italia del 1994 (sotto le cui insegne peraltro Rotondi fu eletto deputato nel collegio di Avellino e fu uno dei pochissimi a riuscirci) o da Democrazia europea del 2001. Naturalmente, in seguito, ha accompagnato questa rivelazione ad altre "profezie" nel suo stile: ad Adnkronos ha dichiarato che "
La legislatura finirà presto e dal duello Conte-Renzi, come nel '94, uscirà un outsider che rimetterà in discussione vecchi e nuovi assetti politici e alleanze", una "faccia nuova" di cui lui conosce i lineamenti ma non rivela l'identità; ha poi aggiunto che "il governo cadrà per incompatibilità politica", magari nel giro di qualche settimana, che Renzi "vuole la testa di Conte" e alza i toni perché "interpretare la parte distruttiva è più facile che impersonare quella costruttiva" e che su un governo di unità nazionale non scommetterebbe "un centesimo". 
Non è dato sapere quanto di quello che ha indicato Rotondi si realizzerà a breve e se proprio nei termini da lui indicati. Di certo è nota da tempo la sua intenzione di non candidarsi nella stessa coalizione di Matteo Salvini: nella serata del 29 dicembre, il presidente della Fondazione Democrazia cristiana (già Fondazione Fiorentino Sullo) lo ha ribadito sempre su Facebook. "Io sono stato eletto in una lista denominata 'Berlusconi presidente' e dunque - ha scritto - ogni mio comportamento parlamentare lo decide Silvio Berlusconi, come è giusto che sia. Alle elezioni è diverso; se Berlusconi confermerà il sostegno a Salvini, io potrei valutare una scelta diversa. Un sostegno a Conte? Forse sì, se ispirerà una sua lista al cattolicesimo democratico". 
Nel frattempo, in ogni caso, Rotondi inizia a muoversi, preparandosi a una rincorsa breve o lunga, a seconda che si vada al voto nei prossimi mesi o dopo il "semestre bianco". Del resto, a pensarci bene, ci è abituato: nel 2004 fondò la "sua" Democrazia cristiana, poi dal 2005 Democrazia cristiana per le autonomie, che nel 2006 ottenne un pugno di seggi nel cartello con il Nuovo Psi, ma nel 2008 era già pronta per rafforzare il nascente Pdl, con cui fu eletto (in quell'anno e nel 2013); alla fine di giugno del 2015 sorse Rivoluzione cristiana, che nel 2018 avrebbe concluso un accordo con Forza Italia. Già all'inizio di quest'anno Rotondi aveva messo in campo il proprio impegno per tentare di far ripartire l'area centrista con un progetto federativo dei popolari e dei democratici cristiani, affidandolo alla cura di Giuseppe Gargani; per ora si erano viste essenzialmente liste dell'Udc allargate (e con improbabili combinazioni grafiche), per il futuro si vedrà. Intanto, però, si guarda con chiarezza al 2023 (tenendo di scorta anche il 2022 e il 2021, se ce ne fosse bisogno). E magari, se nascesse un gruppo parlamentare, si potrebbe anche sperare in una riforma elettorale che inserisse anche i nuovi gruppi tra quelli in grado di esentare le liste dalla raccolta delle firme: non se ne sta parlando, ma in Italia è successo quasi a ogni cambio di legge elettorale...

sabato 2 gennaio 2021

Addio a Formentini, tra Psi e Lega (senza scordare Margherita e Dca)



Oggi i media hanno dato la notizia della morte di Marco Formentini: un personaggio lontano da oltre dieci anni dalla politica attiva, ma che indubbiamente ha lasciato un segno, tanto nella storia politica ufficiale quanto in quella "dei dettagli", che finisce per interessare gli entomologi dell'Italia che vota e i #drogatidipolitica persino di più di quella che verosimilmente passerà alla storia. Anche se, almeno in parte, Formentini alla storia ci era già passato da tempo: per lui, infatti, sarebbe del tutto inappropriata la catalogazione tra le meteore o, come qualcuno potrebbe essere tentato di dire, tra le "figure minori della Seconda Repubblica". 
Ci sono varie ragioni per dire questo. Innanzitutto perché la sua militanza - come quella, del resto, di molte altre vere star, per poco o per molto, della politica italiana dalla metà degli anni '90 - era iniziata molto tempo prima: al di là del suo impegno come vedetta partigiana nella Resistenza, il primo ruolo politico rilevante di Formentini risale alla prima metà degli anni '70, nel Partito socialista italiano, reduce dalla cattiva esperienza unitaria con i socialdemocratici e tornata alla propria autonomia, con il vecchio nome e una versione rivista - curata da Sergio Ruffolo - del simbolo storico, con falce e martello sul libro aperto, tutti inseriti nel sole con i raggi che occupavano gran parte del simbolo. Sotto quelle insegne (simili a quelle già note in famiglia, per le simpatie del padre) Marco Formentini esercitò il suo ruolo di segretario della giunta della Regione Lombardia, mentre presidente era il democristiano Piero Bassetti.
Le strade dei due si sarebbero incrociate di nuovo nel 1993, ma nel frattempo Formentini aveva fatto in tempo ad abbandonare la politica per una decina abbondante di anni per poi ritornarvi all'inizio degli anni '90, stavolta legando il suo nome ad Alberto da Giussano. Proprio per la Lega Nord - anzi, per l'esattezza, per il contrassegno composito che conteneva la "pulce" della Lega Lombarda - Formentini venne eletto deputato nel 1992: 8.854 voti nella circoscrizione Milano-Pavia: lui che era spezzino di origine, ma si era trasferito a Milano nel 1958 dopo un lungo periodo all'estero, era stato il secondo candidato più votato, battuto solo da un irraggiungibile Umberto Bossi, primissimo con 239.798 preferenze. 
La stessa collocazione sarebbe risultata identica alle europee del 1994, nella circoscrizione Nord-Ovest (in quel caso sulle schede era finito il simbolo solo con la statua del guerriero di Legnano, senza "pulce"): il Senatùr in tutto raccolse 387.546 preferenze, ma quella volta Formentini schizzò a 204.728. Alla base del balzo c'era inevitabilmente un episodio risalente all'anno prima, il più famoso nella storia politica di Formentini: alle elezioni amministrative del 6-7 giugno 1993 lui si era infatti candidato come sindaco di Milano proprio per la Lega Nord - Lega Lombarda, risultando il candidato più votato con il 38,82% e lasciando fuori dal ballottaggio proprio Piero Bassetti (all'epoca sostenuto, oltre che dalla Dc, dal Psdi, dalla lista Con le Donne per Ricostruire Milano e da Federalismo di Umberto Giovine; tempo due settimane e lo stesso Formentini al secondo turno sconfisse lo sfidante Nando Dalla Chiesa, sostenuto da Rifondazione comunista, Pds (al primo turno più debole di Rc), La Rete, Verdi e lista Per Milano. Il primo sindaco di Milano eletto direttamente dai cittadini era anche il primo sindaco non socialista da un quarto di secolo (l'ultimo legato non al Psi, ma al Psdi era stato Pietro Bucalossi, sindaco dal 1964 al 1967).
L'esperienza amministrativa di Milano e il successo della Lega Nord in quegli anni portarono molta attenzione a Formentini: lo mostrò, come si diceva, il risultato delle europee del 1994. Quando, nel 1997, lui tentò il bis, non contò sul sostegno delle forze di centrodestra (che appoggiarono Gabriele Albertini, eletto poi al ballottaggio), ma solo sulla lista della Lega Nord e su tre formazioni civiche legate in gran parte al Carroccio: con il 19,14%, quella volta toccò a lui restare fuori dal ballottaggio. Due anni dopo, in compenso, arrivò il tempo del riscatto: alle europee del 1999 fu di nuovo il secondo candidato della Lega Nord più votato nel Nord-Ovest, superato solo da Bossi; erano calati sensibilmente i voti per il Carroccio - che in quelle elezioni aveva schierato un simbolo più complesso, con più evidenza al leone di San Marco e con la presenza del "Sole delle Alpi" (che in effetti c'era anche nel simbolo usato da Formentini alle comunali di Milano di due anni prima) - ma l'ex sindaco di Milano aveva superato in preferenze anche un nome di prim'ordine della Lega Nord come Francesco Speroni.
Poco dopo l'elezione, in compenso, il rapporto con il Carroccio si consumò del tutto e per vari mesi Formentini rimase tra gli eurodeputati non iscritti. In compenso, il 5 ottobre 1999 aderì al gruppo europeo dell'Eldr (liberali, democratici e riformatori europei): lo fece per essersi avvicinato ai Democratici, formazione prodiana ed europeista guidata da Arturo Parisi e che aveva corso alle europee con il simbolo dell'asinello (sia pure in versione quasi disneyana) e in quell'occasione aveva ottenuto il 7,73%, ben di più del 4,48% rimasto alla Lega Nord. Nella scheda del Parlamento europeo, peraltro, Formentini risulta essere rimasto riferito al Carroccio fino al 20 marzo 2002, mentre dal giorno successivo il suo nome è legato ai Democratici.
La cosa, per i #drogatidipolitica italiani, può sembrare piuttosto curiosa, se si considera che proprio in quei giorni - dal 22 al 24 marzo 2002 - l'esperienza dei Democratici veniva politicamente archiviata, essendosi celebrato il congresso fondativo di Democrazia è libertà - La Margherita, esperienza nata come cartello elettorale alle politiche del 2001 e in quel momento trasformatasi in partito, guidato da Francesco Rutelli e frutto della confluenza di Ppi, Democratici (appunto) e Rinnovamento italiano. Fu dunque la Margherita il punto di approdo anche per Formentini, che continuò la sua attività a Strasburgo, anche se con meno riflettori rispetto agli anni precedenti.
Sempre da eletto legato alla Margherita, nel 2004 tentò di ottenere il suo terzo mandato e fu candidato sempre nella circoscrizione Nord-Ovest, ma nella lista Uniti nell'Ulivo, lista comune che unì le candidature di Democratici di sinistra, Margherita, Socialisti democratici italiani, Repubblicani europei e altre componenti. Quell'occasione, a dire il vero, non fu affatto fortunata: non solo Formentini non venne eletto, ma nella classifica finale delle preferenze si collocò al 16° posto su 20, con 9.288 voti (andò peggio di lui Vittorio Dotti, già deputato forzista allontanatosi da Berlusconi dopo l'affaire Ariosto). Tanto per dire, nel suo ex partito, Bossi aveva fatto il pieno come al solito, con 182.823 preferenze, ma meglio di Formentini era andato anche Matteo Salvini, alla sua prima elezione per il Parlamento europeo, con 14.707 voti (primo dei non eletti, subentrò quando Bossi optò per l'elezione nel Nord-Est).
A quell'esperienza non positiva seguirono comunque alcuni anni come impegno da dirigente regionale e nazionale della nella Margherita, così come si ricorda la presidenza nel 2007 in Lombardia del comitato per i referendum elettorali (quelli promossi tra gli altri da Giovanni Guzzetta e Mariotto Segni e per i quali si sarebbe votato nel 2009); alla fine del 2008, però, Formentini aderì alla Democrazia cristiana per le autonomie di Gianfranco Rotondi, partecipando il 29 e il 30 novembre 2008 a un evento del partito a Sesto San Giovanni (La vera scelta di campo), volto a portare il partito nel nascente Popolo della libertà (dopo che quattro esponenti della Dca, incluso Rotondi erano già stati eletti nelle liste del Pdl). Per questo oggi Rotondi ha ricordato Formentini come "leghista democristiano" (anche se non risulta che sia stato tra i fondatori della Dca nel 2005).
Di fatto è stata questa l'ultima esperienza politica visibile - e dotata di simboli - di Marco Formentini, anche se negli anni successivi ha comunque lavorato a favore del centrodestra a Milano, negli anni dell'amministrazione guidata da Letizia Brichetto Moratti, così come si era parlato di una sua possibile candidatura in una lista moderata a sostegno della ricandidatura della sindaca uscente (cosa che poi non si concretizzò, ma in ogni caso a vincere fu Giuliano Pisapia). Certamente, però, la politica non aveva mai smesso di ottenere la sua attenzione: è il destino di chi l'ha fatta o seguita a lungo, figurarsi di chi - come Formentini - era riuscito a ritagliarsi uno spazio nella storia. Forse non come figura di prima fila, ma non certo come comparsa.