Ma, alla fine, di chi è un simbolo di un partito o di un movimento politico? Del partito? Dei suoi singoli esponenti? Di chi lo ha rappresentato di più a livello apicale? Ce lo si è chiesti più volte negli anni, a ogni dissidio, scissione o dissoluzione di una realtà politica, per cui i giudici non sono mai rimasti senza lavoro. Uno degli ultimi casi finiti in tribunale ha riguardato Democrazia in Movimento, soggetto politico nato - secondo un'etichettatura forse troppo scontata - anche grazie all'apporto di soggetti esclusi dal MoVimento 5 Stelle, a partire dal ferrarese Valentino Tavolazzi.
Molti forse non conoscevano nemmeno la sua esistenza, ancora più difficile dunque sapere che, soprattutto tra settembre e ottobre dell'anno scorso, l'associazione politica aveva conosciuto una fase decisamente concitata, arrivando ad avere contemporaneamente due presidenti (Alessandro Crociata e Gino Albettino), ognuno dei quali si riteneva pienamente legittimato a ricoprire quel ruolo, appellando l'altro come "ex associato" o "pluridimissionario e sfiduciato".
Le acque, insomma, erano agitate proprio come quelle del mare stilizzato nel contrassegno di Democrazia in Movimento. E proprio in quelle circostanze si era arrivati, tanto per cambiare, a litigare sulla titolarità del nome e del simbolo di DiM, oltre che sulla gestione del sito internet. L'associazione rappresentata da Alessandro Crociata aveva dunque citato in giudizio Gino Albettino presso il tribunale di Palermo (città di Crociata e sede della stessa Democrazia in Movimento), chiedendo che ad Albettino, come "ex associato" di DiM, fosse inibito l'uso del nome dell'associazione e del suo emblema, nonché la chiusura degli spazi web di cui era titolare quest'ultimo e la "restituzione" del forum e del gruppo facebook corrispondente (mediante la consegna delle credenziali di accesso).
Sul punto, la sezione specializzata in materia di proprietà industriale del tribunale palermitano si è espressa alcuni mesi fa (23 febbraio - 4 marzo 2015), con un'ordinanza che, in sostanza, ha dato ragione a Crociata. Al suo interno, la decisione affronta vari punti, uno dei quali - al di là delle questioni formali sulla competenza e sulle forme di deposito degli atti, che qui non interessano - merita di essere messo in luce per primo.
Alessandro Crociata, quale presidente di DiM, aveva infatti chiesto al tribunale di pronunciarsi tanto a tutela del nome e dell'identità personale dell'associazione, quanto a tutela dei suoi diritti di proprietà industriale (in particolare, del diritto sul segno distintivo). Per il giudice di Palermo, però, questa seconda ipotesi qui è fuori luogo, sebbene il simbolo di DiM fosse stato effettivamente registrato come marchio da tale Paolo Schiavi di Ferrara. Il magistrato, in particolare, ha ritenuto di non condividere il pronunciamento del 2011 del Tribunale di Milano sul caso "Partito della libertà" (con la Federazione dei liberali contro la Brambilla), sostenendo che "non si versa in materia di proprietà industriale", non trattandosi di segni per beni e servizi destinati ad attività di impresa, con "concreta vocazione commerciale ed economica" (citando a suo sostegno, tra l'altro, una sentenza dell'infinito filone in tema di Democrazia cristiana - in particolare la causa intentata, senza fortuna, dalla Dc-Sandri contro i vari soggetti a qualche titolo "eredi" della Dc a tutela del patrimonio e decisa in primo grado nel 2009 dal tribunale di Roma, giudice Vannucci - e le pronunce in sede europea sulla questione "Partito della libertà", che negavano che il partito di Morelli avesse usato il nome "nella normale prassi commerciale").
Morale, per la giudice Claudia Spiga di Palermo, il marchio serve a individuare un prodotto o un'attività commerciale e, di conseguenza, a evitare il rischio di confusione tra i consumatori (a tutela loro e del titolare del segno), non a proteggere l'identità di un gruppo politico e ad evitare dubbi tra i cittadini-elettori. Resta però il fatto che il Ministero per lo sviluppo economico ha accettato la registrazione come marchio dell'emblema di Democrazia in Movimento e, non bastasse, lo ha fatto benché fosse rotondo, circostanza nella quale il Viminale aveva sempre espresso avviso contrario alla registrazione; dimostrazione, una volta di più, di quanto sarebbe necessario intervenire con una disposizione precisa per portare un minimo di chiarezza nella materia dei segni distintivi politici.
Morale, per la giudice Claudia Spiga di Palermo, il marchio serve a individuare un prodotto o un'attività commerciale e, di conseguenza, a evitare il rischio di confusione tra i consumatori (a tutela loro e del titolare del segno), non a proteggere l'identità di un gruppo politico e ad evitare dubbi tra i cittadini-elettori. Resta però il fatto che il Ministero per lo sviluppo economico ha accettato la registrazione come marchio dell'emblema di Democrazia in Movimento e, non bastasse, lo ha fatto benché fosse rotondo, circostanza nella quale il Viminale aveva sempre espresso avviso contrario alla registrazione; dimostrazione, una volta di più, di quanto sarebbe necessario intervenire con una disposizione precisa per portare un minimo di chiarezza nella materia dei segni distintivi politici.
Nel merito, la giudice ha negato che nelle carte del convenuto si trovassero tracce delle dimissioni di Crociata dalla presidenza di Democrazia in Movimento (per cui lui sarebbe ancora il legale rappresentante dell'associazione) e che la registrazione del simbolo come marchio da parte dell'associato Schiavi fosse di qualche effetto, se non altro perché il mandato a depositare l'emblema l'aveva ricevuto proprio dall'associazione il 17 febbraio 2013, "con obbligo alla successiva cessione della titolarità": l'associazione DiM, dunque, può agire per rivendicare il diritto sul marchio che il mandatario Schiavi aveva fatto sorgere per suo conto.
In generale, la situazione è stata inquadrata come sempre nella categoria del dissidio e della scissione, secondo la dinamica ben nota: divergenze interne all'associazione, dimissioni di parte degli associati, nascita di un nuovo soggetto politico che chiede però di utilizzare nome e simbolo originari. Si tratta di una situazione analoga a quelle creatasi nel passaggio tra Pci e Pds (con la nascita della futura Rifondazione comunista) e tra Msi e An (con il sorgere della futura Fiamma tricolore): stavolta, però, nessuno voleva cambiare il nome alla prima associazione, ma il nuovo gruppo intendeva usare i segni distintivi già noti, probabilmente ritenendo di incarnare maggiormente lo spirito con cui Democrazia in Movimento era nata.
Ha buon gioco dunque la giudice a sottolineare che "la titolarità del nome 'Democrazia in Movimento - DiM', del simbolo che la identifica (...) e del relativo sito web è quindi rimasta in capo all'associazione ricorrente", rappresentata dal presidente Crociata, e che non è vero che l'uso da parte di Albettino e degli altri non ha arrecato pregiudizi a DiM: è stata messa in pericolo la funzione identificativa dei segni distintivi (per l'identità dell'associazione e il suo patrimonio ideale), potenzialmente "svilita" dalla presenza di due soggetti politici diversi che pretendono di usare le stesse insegne. Lo stesso discorso è stato applicato ai siti web, i cui domain name vengono trattati con le regole valide per la tutela dei nomi: "ogniqualvolta (...) il nome a dominio contenga il nome altrui, precedentemente utilizzato, e sia quindi idoneo ad ingenerare confusione sull'identità del soggetto titolare del sito web, la relativa utilizzazione, deve ritenersi illegittima".
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