Chi ha avuto modo di studiare le decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale, costituito presso la Corte di cassazione, sa che nella quasi totalità dei casi questo finisce per confermare le decisioni con cui il Ministero dell'interno ha chiesto di sostituire un contrassegno e cui il depositante si sia opposto (ma si dà anche il caso in cui qualche avente diritto si è lamentato dell'accettazione di un emblema che a suo dire lo danneggiava). Stavolta non è andata diversamente: su quattro opposizioni, infatti, i magistrati di cassazione ne hanno respinte, in un certo senso, tre e mezza.
Osservazione preliminare: quest'anno il numero delle opposizioni da decidere è stato molto contenuto. Certamente il dato è in linea con la notevole contrazione dei simboli presentati: nel 2013, per dire, le opposizioni erano state 10, a fronte però di 219 simboli presentati (quest'anno, va ricordato, erano soltanto 103); a contenere decisamente il numero delle contestazioni, tuttavia, ha contribuito anche il discreto numero di contrassegni sostituiti (ben sei su dieci ritenuti non accettabili). Va anche dato merito alla Corte di cassazione per avere reso pubbliche, in questa occasione, le sue decisioni, consentendo a tutti di prenderne visione sul suo sito.
Ciò detto, il solo accoglimento parziale di un'opposizione ha riguardato il simbolo che unisce Rinascimento (il partito fondato da Vittorio Sgarbi) e il Mir di Gianpiero Samorì. L'opposizione n. 1 era stata presentata proprio da Vittorio Sgarbi, che il 23 gennaio aveva fatto arrivare al Viminale alcuni documenti con cui chiedeva di ritirare il simbolo di Rinascimento dalla consultazione (e l'accettazione del ruolo di capo della forza politica). Essendo comunque stato ammesso il contrassegno, Sgarbi si è rivolto all'Ufficio elettorale nazionale per ottenere che sparissero dal simbolo i riferimenti a lui e al suo partito (nome e mani) o che fosse ricusato l'intero contrassegno. Il ministero aveva considerato gli atti di Sgarbi tardivi, ammettendo al più che si togliesse il solo riferimento a Sgarbi, avendo questi ritirato la sua accettazione della guida della forza politica. Così è andata: per i magistrati Sgarbi non poteva chiedere di annullare l'ammissione del simbolo (sono legittimati solo i depositanti dei simboli ricusati e i depositanti di un contrassegno ritenuto confondibile), ma aveva titolo per chiedere la rimozione del suo nome, poiché questo poteva indurre in errore i votanti (facendo credere che Sgarbi fosse ancora a capo della forza politica, mentre invece aveva stretto un accordo con Forza Italia). Nel giro di qualche ora il riferimento a Sgarbi è sparito, a tutto vantaggio di quello del Mir di Samorì, che risulta ora visibile a chiunque; il nome Rinascimento (più piccolo, come in origine) e il particolare di Michelangelo, invece, sono rimasti al loro posto, non essendo stati ritenuti confondibili.
L'opposizione n. 2 è stata presentata dal Movimento sociale italiano - Destra nazionale di Gaetano Saya e Maria Antonietta Cannizzaro, che anche questa volta si era visto bocciare il contrassegno dal Ministero dell'interno, ovviamente per la presenza della fiamma tricolore, ritrovabile anche nel segno di Fratelli d'Italia. Saya aveva lamentato la lesione dei propri diritti sul segno (depositato nel 2011 come marchio) e aveva soprattutto sventolato la sentenza della Corte d'appello di Firenze che, a detta sua, avrebbe dovuto assegnare irrevocabilmente la fiamma al Msi.
Per l'Ufficio elettorale nazionale, invece, quella sentenza non rileva affatto, perché per l'ammissibilità valgono soltanto le norme elettorali, considerate lex specialis rispetto a ogni altra norma (comprese quelle civilistiche sui segni di identificazione o distintivi) e qui conta il fatto che Fratelli d'Italia non solo è presente in Parlamento con la fiamma, ma ha certamente partecipato alle elezioni europee del 2014 con un simbolo contenente la fiamma (e con quello si è sottoposta al giudizio del Viminale): proprio come in passato, insomma, l'opposizione è stata rigettata.
Più delicata era la questione legata ai Libeguali di Luciano Chiappa: lui aveva presentato due emblemi per rivendicare la primogenitura del concetto di "libegualità" (anche rispetto ai Liberi e Uguali di Grasso), ma era stato invitato dal Viminale a sostituire i contrassegni "e, nel contempo, a modificare la stessa denominazione del partito". Con l'opposizione n. 3, Chiappa aveva rifiutato di cambiare il nome, ritenendo che ciò non sia previsto dalla legge ("Sarebbe a dir poco singolare, sotto il profilo dello stato di diritto e dei principi del nostro ordinamento giuridico [...] che sia imposto per atto ministeriale ad un libero gruppo politico non solo il diniego del diritto all'esercizio dell’uso della sua propria preesistente denominazione ma persino l’obbligo della sua modificazione"); quanto al simbolo, il depositante aveva dato una lettura solo storica del criterio di precedenza previsto dalla legge elettorale (e non anche con riguardo all'ordine di arrivo nei giorni del deposito: Liberi e Uguali era stato presentato il giorno prima), lamentando l'assoluta mancanza di "uso tradizionale" del nome da parte di Liberi e Uguali, visto che il gruppo parlamentare è stato costituito il 20 dicembre 2017, ma nello stesso giorno Chiappa aveva diffidato il gruppo affinché non utilizzasse quel nome.
I magistrati di Cassazione hanno sì ridimensionato l'invito a modificare la denominazione del partito, ritenendo che questo riguardasse solo il nome presente all'interno del simbolo (e non anche il nome vero e proprio del soggetto politico), ma hanno comunque rigettato l'opposizione. Si è ritenuto che prevalesse l'esistenza in Parlamento di un gruppo con "Liberi e Uguali" nella denominazione (anche se quel nome era stato aggiunto solo negli ultimi giorni della legislatura), a tutela non tanto dei partiti o delle liste ma dei loro elettori; di più, l'Ufficio elettorale ha sostenuto che il concetto di "uso tradizionale" vada interpretato "alla luce dell'evoluzione storica degli strumenti di informazione che consentono di portare a conoscenza quasi immediata della intera collettività tutti i cambiamenti e i processi evolutivi del contesto politico", dunque anche con riferimento alla "notorietà acquisita tramite la diffusione dei mass media".
Si tratta esattamente delle stesse tesi sostenute dalla Direzione centrale dei servizi elettorali nel 2013, quando a lamentarsi della possibile esclusione era stato il Movimento politico Fratelli d'Italia di Salvatore Rubbino, esistente e partecipante a elezioni locali ben prima che Giorgia Meloni costituisse il suo partito (ma erano già state citate espressamente dall'Ufficio nella decisione n. 8/2013, relativa alla titolarità elettorale del contrassegno di Grande Sud); averle ripetute anche in quest'occasione ha l'effetto pratico di certificare che la notorietà mediatica, magari ottenuta da chi gode di per sé di visibilità o ha ingenti risorse da investire in pubblicità, finisce per rendere irrilevante il titolo di chi ha immaginato prima un nome uguale o simile o addirittura lo ha usato elettoralmente, ma solo a livello locale o circoscritto. La tutela degli elettori e del loro affidamento è importante, ma questa consapevolezza è oggettivamente piuttosto avvilente, perché "a pelle" c'è qualcosa di sbagliato. Tanto più che qui il gruppo rivendica non una semplice preesistenza, ma l'essere un gruppo politico "che nel neologismo Libeguali esprime un progettualità e una fondazione filosofica nettamente distinta, alla radice e nei suoi risvolti politici pratici, rispetto a ciò che può essere portato nel nome Liberi e Uguali", dunque con una proposta ideale e politica del tutto diversa da ogni altra proposta attuale (a partire dal concetto di "libegualità", che supera libertà e uguaglianza con "libera individualità ed eguale socialità").
L'ultima opposizione era stata presentata da Diego Coroni, che aveva depositato il simbolo della Democrazia cristiana su mandato del presidente dell'associazione Gianni Fontana, ma si era visto chiedere la sostituzione per la somiglianza dello scudo crociato con quello utilizzato dall'Udc nel cartello con Noi con l'Italia. L'opposizione, a dire il vero, aveva sorpreso molti, visto che proprio Coroni lo stesso giorno aveva accolto l'invito del Viminale e aveva presentato un nuovo simbolo (quello a metà tra il lenzuolo, la bandiera e la vela crociata); il depositante, però, intendeva far riconoscere l'infondatezza della richiesta di sostituzione e far valere l'interesse a impedire l'uso dello scudo a Noi con l'Italia - Udc. L'Ufficio elettorale centrale nazionale, peraltro, ha correttamente considerato inammissibile l'opposizione, "per l'assoluta mancanza di interesse del ricorrente che ormai utilizza il nuovo contrassegno depositato" (oltre che per contrarietà alla dichiarazione di rinuncia a contenziosi sul simbolo che viene ritualmente sottoscritta in sede di sostituzione del contrassegno). Si trattava probabilmente dell'opposizione dall'esito più prevedibile; certo è che, con la sua presentazione, si è arrivati alla settima elezione nazionale di fila con almeno una decisione dell'Uecn su simboli legati alla Dc e a chi ritiene di poterne usare il simbolo. Un primato davvero considerevole, non c'è che dire.
Ciò detto, il solo accoglimento parziale di un'opposizione ha riguardato il simbolo che unisce Rinascimento (il partito fondato da Vittorio Sgarbi) e il Mir di Gianpiero Samorì. L'opposizione n. 1 era stata presentata proprio da Vittorio Sgarbi, che il 23 gennaio aveva fatto arrivare al Viminale alcuni documenti con cui chiedeva di ritirare il simbolo di Rinascimento dalla consultazione (e l'accettazione del ruolo di capo della forza politica). Essendo comunque stato ammesso il contrassegno, Sgarbi si è rivolto all'Ufficio elettorale nazionale per ottenere che sparissero dal simbolo i riferimenti a lui e al suo partito (nome e mani) o che fosse ricusato l'intero contrassegno. Il ministero aveva considerato gli atti di Sgarbi tardivi, ammettendo al più che si togliesse il solo riferimento a Sgarbi, avendo questi ritirato la sua accettazione della guida della forza politica. Così è andata: per i magistrati Sgarbi non poteva chiedere di annullare l'ammissione del simbolo (sono legittimati solo i depositanti dei simboli ricusati e i depositanti di un contrassegno ritenuto confondibile), ma aveva titolo per chiedere la rimozione del suo nome, poiché questo poteva indurre in errore i votanti (facendo credere che Sgarbi fosse ancora a capo della forza politica, mentre invece aveva stretto un accordo con Forza Italia). Nel giro di qualche ora il riferimento a Sgarbi è sparito, a tutto vantaggio di quello del Mir di Samorì, che risulta ora visibile a chiunque; il nome Rinascimento (più piccolo, come in origine) e il particolare di Michelangelo, invece, sono rimasti al loro posto, non essendo stati ritenuti confondibili.
L'opposizione n. 2 è stata presentata dal Movimento sociale italiano - Destra nazionale di Gaetano Saya e Maria Antonietta Cannizzaro, che anche questa volta si era visto bocciare il contrassegno dal Ministero dell'interno, ovviamente per la presenza della fiamma tricolore, ritrovabile anche nel segno di Fratelli d'Italia. Saya aveva lamentato la lesione dei propri diritti sul segno (depositato nel 2011 come marchio) e aveva soprattutto sventolato la sentenza della Corte d'appello di Firenze che, a detta sua, avrebbe dovuto assegnare irrevocabilmente la fiamma al Msi.
Per l'Ufficio elettorale nazionale, invece, quella sentenza non rileva affatto, perché per l'ammissibilità valgono soltanto le norme elettorali, considerate lex specialis rispetto a ogni altra norma (comprese quelle civilistiche sui segni di identificazione o distintivi) e qui conta il fatto che Fratelli d'Italia non solo è presente in Parlamento con la fiamma, ma ha certamente partecipato alle elezioni europee del 2014 con un simbolo contenente la fiamma (e con quello si è sottoposta al giudizio del Viminale): proprio come in passato, insomma, l'opposizione è stata rigettata.
Più delicata era la questione legata ai Libeguali di Luciano Chiappa: lui aveva presentato due emblemi per rivendicare la primogenitura del concetto di "libegualità" (anche rispetto ai Liberi e Uguali di Grasso), ma era stato invitato dal Viminale a sostituire i contrassegni "e, nel contempo, a modificare la stessa denominazione del partito". Con l'opposizione n. 3, Chiappa aveva rifiutato di cambiare il nome, ritenendo che ciò non sia previsto dalla legge ("Sarebbe a dir poco singolare, sotto il profilo dello stato di diritto e dei principi del nostro ordinamento giuridico [...] che sia imposto per atto ministeriale ad un libero gruppo politico non solo il diniego del diritto all'esercizio dell’uso della sua propria preesistente denominazione ma persino l’obbligo della sua modificazione"); quanto al simbolo, il depositante aveva dato una lettura solo storica del criterio di precedenza previsto dalla legge elettorale (e non anche con riguardo all'ordine di arrivo nei giorni del deposito: Liberi e Uguali era stato presentato il giorno prima), lamentando l'assoluta mancanza di "uso tradizionale" del nome da parte di Liberi e Uguali, visto che il gruppo parlamentare è stato costituito il 20 dicembre 2017, ma nello stesso giorno Chiappa aveva diffidato il gruppo affinché non utilizzasse quel nome.
I magistrati di Cassazione hanno sì ridimensionato l'invito a modificare la denominazione del partito, ritenendo che questo riguardasse solo il nome presente all'interno del simbolo (e non anche il nome vero e proprio del soggetto politico), ma hanno comunque rigettato l'opposizione. Si è ritenuto che prevalesse l'esistenza in Parlamento di un gruppo con "Liberi e Uguali" nella denominazione (anche se quel nome era stato aggiunto solo negli ultimi giorni della legislatura), a tutela non tanto dei partiti o delle liste ma dei loro elettori; di più, l'Ufficio elettorale ha sostenuto che il concetto di "uso tradizionale" vada interpretato "alla luce dell'evoluzione storica degli strumenti di informazione che consentono di portare a conoscenza quasi immediata della intera collettività tutti i cambiamenti e i processi evolutivi del contesto politico", dunque anche con riferimento alla "notorietà acquisita tramite la diffusione dei mass media".
Si tratta esattamente delle stesse tesi sostenute dalla Direzione centrale dei servizi elettorali nel 2013, quando a lamentarsi della possibile esclusione era stato il Movimento politico Fratelli d'Italia di Salvatore Rubbino, esistente e partecipante a elezioni locali ben prima che Giorgia Meloni costituisse il suo partito (ma erano già state citate espressamente dall'Ufficio nella decisione n. 8/2013, relativa alla titolarità elettorale del contrassegno di Grande Sud); averle ripetute anche in quest'occasione ha l'effetto pratico di certificare che la notorietà mediatica, magari ottenuta da chi gode di per sé di visibilità o ha ingenti risorse da investire in pubblicità, finisce per rendere irrilevante il titolo di chi ha immaginato prima un nome uguale o simile o addirittura lo ha usato elettoralmente, ma solo a livello locale o circoscritto. La tutela degli elettori e del loro affidamento è importante, ma questa consapevolezza è oggettivamente piuttosto avvilente, perché "a pelle" c'è qualcosa di sbagliato. Tanto più che qui il gruppo rivendica non una semplice preesistenza, ma l'essere un gruppo politico "che nel neologismo Libeguali esprime un progettualità e una fondazione filosofica nettamente distinta, alla radice e nei suoi risvolti politici pratici, rispetto a ciò che può essere portato nel nome Liberi e Uguali", dunque con una proposta ideale e politica del tutto diversa da ogni altra proposta attuale (a partire dal concetto di "libegualità", che supera libertà e uguaglianza con "libera individualità ed eguale socialità").
L'ultima opposizione era stata presentata da Diego Coroni, che aveva depositato il simbolo della Democrazia cristiana su mandato del presidente dell'associazione Gianni Fontana, ma si era visto chiedere la sostituzione per la somiglianza dello scudo crociato con quello utilizzato dall'Udc nel cartello con Noi con l'Italia. L'opposizione, a dire il vero, aveva sorpreso molti, visto che proprio Coroni lo stesso giorno aveva accolto l'invito del Viminale e aveva presentato un nuovo simbolo (quello a metà tra il lenzuolo, la bandiera e la vela crociata); il depositante, però, intendeva far riconoscere l'infondatezza della richiesta di sostituzione e far valere l'interesse a impedire l'uso dello scudo a Noi con l'Italia - Udc. L'Ufficio elettorale centrale nazionale, peraltro, ha correttamente considerato inammissibile l'opposizione, "per l'assoluta mancanza di interesse del ricorrente che ormai utilizza il nuovo contrassegno depositato" (oltre che per contrarietà alla dichiarazione di rinuncia a contenziosi sul simbolo che viene ritualmente sottoscritta in sede di sostituzione del contrassegno). Si trattava probabilmente dell'opposizione dall'esito più prevedibile; certo è che, con la sua presentazione, si è arrivati alla settima elezione nazionale di fila con almeno una decisione dell'Uecn su simboli legati alla Dc e a chi ritiene di poterne usare il simbolo. Un primato davvero considerevole, non c'è che dire.
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