giovedì 21 luglio 2022

Sul MoVimento 5 Stelle, tra prassi parlamentare e "diritto dei partiti"

Gli occhi di chiunque faccia parte - a qualunque titolo - della categoria dei #drogatidipolitica ieri erano inevitabilmente puntati sull'aula di Palazzo Madama, sul dibattito sulle "Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri" seguite alle dimissioni di Mario Draghi non accolte dal Presidente della Repubblica, nonché sul successivo voto sulla risoluzione presentata da Pier Ferdinando Casini su cui lo stesso Draghi ha posto la questione di fiducia. 
Ieri molta attenzione è stata dedicata alle decisioni del MoVimento 5 Stelle: ciò era inevitabile, visto che - senza voler dare qui alcun giudizio politico, che non compete a questo sito - la scelta del M5S di lasciare l'aula del Senato e non partecipare al voto sulla questione di fiducia relativa alla legge di conversione del "decreto aiuti" è stata ufficialmente alla base della decisione di Draghi di rassegnare le dimissioni. Naturalmente chi ha seguito l'evoluzione - concitata e per alcuni versi drammatica - della giornata di ieri sa che sull'esito finale del voto hanno pesato anche le decisioni dei gruppi della Lega e di Forza Italia (peraltro non condivise da alcuni esponenti rilevanti di quest'ultimo partito - a partire da Andrea Cangini e dalla ministra Mariastella Gelmini - il che può far pensare a nuovi rilevanti evoluzioni in ambito politico-partitico e in vista delle elezioni). In questo articolo, tuttavia, sembra opportuno concentrare l'attenzione su due profili legati al M5S: uno relativo al voto di ieri e al modo in cui si è arrivato al suo esito e un altro sulle ordinanze del tribunale civile di Napoli che tra giugno e luglio hanno respinto le istanze cautelari di sospensione degli effetti dei voti online dello scorso marzo con cui si sono (tra l'altro) ripetute le votazioni sulle modifiche statutarie e sulla presidenza del MoVimento effettuate nel 2021 e già sospese dallo stesso tribunale. Sono ovviamente passati vari giorni da quando queste ordinanze sono state pubblicate, ma sembra ancora utile passarle in rassegna: un po' perché - tra le vicende legate alla guerra e quelle connesse alle fibrillazioni politiche verso la crisi di governo - hanno avuto meno attenzione di quel che avrebbero meritato, un po' perché vari aspetti del contenuto richiedono qualche riflessione, anche problematica.

La novità dei "presenti non votanti"

Il primo profilo da approfondire, come si diceva, riguarda il voto di ieri in Senato. Erano state presentate due mozioni: con la prima, proveniente da parte dei partiti del "centrodestra di governo" (firmatari Roberto Calderoli e Massimiliano Romeo per la Lega, Anna Maria Bernini per Forza Italia e Antonio De Poli per l'Udc), il Senato si sarebbe dichiarato "disponibile a continuare a dare il proprio contributo per risolvere i problemi dell'Italia con un Governo profondamente rinnovato rispetto agli indirizzi politici e nella propria composizione", purché nella compagine governativa fossero "compresi esclusivamente [soggetti] espressione dei partiti che hanno votato a favore della fiducia nella [...] seduta del Senato del 14 luglio" e fosse praticata "una netta discontinuità nelle politiche e nella composizione dell'Esecutivo" (con riferimento implicito alla sostituzione, oltre che dei membri del M5S, di ministri poco graditi al centrodestra e soprattutto alla Lega, quali Roberto Speranza e Luciana Lamorgese); la seconda, assai più stringata e di semplice adesione alla "linea Draghi" ("Il Senato, udite le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri, le approva"), era stata presentata da Pier Ferdinando Casini, senatore eletto nel collegio uninominale di Bologna per la coalizione di centrosinistra (in quota Civica popolare - Centristi per l'Europa), ma aderente fin dall'inizio al gruppo Per le Autonomie (Svp-Patt, Uv). 
Com'è noto, tuttavia, si è votato solo su quest'ultima, sulla quale proprio Mario Draghi, nella sua replica agli interventi di ieri, ha chiesto di porre - direttamente, senza avvalersi come di solito accade dell'intervento del ministro per i rapporti con il Parlamento, in questo caso Federico D'Incà - la questione di fiducia sulla "risoluzione Casini": essendo incompatibile con la risoluzione su cui la fiducia è stata concessa, sulla proposta del centrodestra l'aula non si è espressa con un voto (risultato dunque precluso). Le persone appassionate di diritto e procedura parlamentare potranno rilevare che il voto è avvenuto in conformità alla prassi cui si è abituati da tempo, per cui - come scritto nel resoconto di ieri - "[c]iascun senatore chiamato dal senatore Segretario" ha espresso "il proprio voto passando innanzi al banco della Presidenza", anche se il regolamento vigente prevede, come in passato - all'art. 116, comma 3 - che "[i]l Senatore, chiamato nell'appello, esprime ad alta voce il suo voto e contemporaneamente aziona in conformità il dispositivo elettronico". L'esito del voto di fiducia, peraltro, merita un'attenzione maggiore, a partire dai numeri riscontrati in aula. Certamente ha colpito la quota bassissima di voti a favore del governo: solo 95, comunque sufficienti per ottenere la fiducia su 133 votanti (a fronte di 38 voti contrari). I numeri da considerare, tuttavia, sono anche altri.
Si può notare facilmente, infatti, che 133 sta ben al di sotto del numero legale ordinario (161 su 321) e di quello della singola seduta di ieri (occorre sottrarre dal plenum dei 321 i 35 tra senatrici e senatori in congedo o missione: si arriva a 286, quindi la metà più uno fa 144). Se si guarda il resoconto della seduta, però, si vede che sono indicati 192 presenti, nonostante la somma tra favorevoli e contrari faccia appunto 133: tra le persone presenti si contano anche le senatrici e i senatori del MoVimento 5 Stelle che, a quanto si è visto, nel tradizionale passaggio sotto il banco della presidenza hanno pronunciato la frase "Presente non votante". Un escamotage adottato, a quanto si è detto a più riprese ieri, proprio per non far mancare il numero legale alla seduta e non invalidare la votazione (che si sarebbe dovuta ripetere, una volta riconvocata l'aula), senza però risultare partecipanti al voto a dispetto della presenza in aula. Si tratterebbe, insomma, di un effetto simile a quello dell'astensione, ipotesi da cui però il MoVimento 5 Stelle si è nettamente voluto distaccare (preferendo dichiarare la non partecipazione in alcun modo al voto). Ciò doveva essere risultato ben chiaro alla Presidente del Senato e ai funzionari di Palazzo Madama: Maria Elisabetta Alberti Casellati ha annunciato all'esito della votazione "astenuti 0", come si vede anche nel tabulato dei voti allegato al resoconto di seduta, mentre curiosamente la tabella contenuta nel resoconto stenografico non riporta l'indicazione degli astenuti.
Quello che è accaduto ieri, tuttavia, ha sostanzialmente creato una nuova ipotesi, rispetto a quelle - logiche e previste dal regolamento - del voto favorevole, del voto contrario e dell'astensione, nonché della fattispecie "fattuale", concreta, della non partecipazione al voto uscendo dall'aula: questa era praticata in passato soprattutto per ovviare al fatto che fino alla fine del 2017 ogni deliberazione era presa "a maggioranza dei Senatori che partecipano alla votazione", includendovi anche chi si asteneva e i "sì", per prevalere, dovevano superare la somma dei "no" e delle astensioni (al punto che si sosteneva, sbrigativamente, che al Senato le astensioni di chi rimaneva in aula equivalevano a voti contrari), dunque l'uscita dall'aula era un modo "plastico" e inequivocabile per non partecipare al voto e non essere considerati presenti e "automaticamente" astenuti. La riforma regolamentare del dicembre 2017, invece, è intervenuta sull'art. 107, comma 1, precisando che "Sono considerati presenti coloro che esprimono voto favorevole o contrario": stando ai tabulati, però, i presenti erano 192 e non 133 (95 favorevoli + 38 contrari).
Non si tratta, a dire il vero, della prima "stranezza" nei conteggi delle votazioni. Si prenda ad esempio la quarta votazione per l'elezione del Presidente della Repubblica nel 2022, da parte del Parlamento in seduta comune integrato coi delegati regionali: come notato acutamente dal costituzionalista Alessandro Gigliotti, nel conteggio risultavano 441 astenuti, ma si trattava in realtà di persone (essenzialmente di centrodestra) che avevano rifiutato la scheda, per poi uscire dall'aula. Concretamente non avevano partecipato al voto, ma il rifiuto della scheda li aveva fatti risultare formalmente presenti e, tra l'altro, avrebbero concorso alla formazione del numero legale (anche se questo non è stato in discussione: i votanti erano 540 su 981). Allora però i conti tornavano, mentre questa volta la somma non combacia, anche considerando gli astenuti pari a zero: combacia solo considerando i "presenti non votanti" del MoVimento 5 Stelle. Che di fatto hanno contribuito - involontariamente - a innovare le prassi in materia di computo dei voti a Palazzo Madama (per giunta in un'occasione delicata come un voto di fiducia).

Il M5S e il "diritto dei partiti": le decisioni del Tribunale di Napoli

La decisione del MoVimento 5 Stelle di non esprimere un voto sulla questione di fiducia al Senato è arrivata dopo giorni di discussione all'interno del M5S sulla linea da tenere, con le posizioni di chi era favorevole a un sostegno esplicito al governo che hanno trovato spazio sui media, in una fase di notevole travaglio politico per quella come per altre forze politiche. In effetti il voto di ieri ha creato paradossalmente un cortocircuito, anche se ora è poco visibile. Lo statuto fa tuttora riferimento al "Codice etico" del MoVimento che, salvo errore o fatti nuovi di cui non si è a conoscenza, è ancora quello adottato nel 2017 (in fondo solo lo statuto è stato modificato): l'art. 3 di questo documento, tra gli obblighi per le persone elette sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle, citava "votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle". Certo, Draghi non era espressione del M5S, ma il MoVimento era ancora parte del governo - i ministri non erano stati ritirati - e proprio sulla base dell'avere negato la fiducia al governo Draghi vari senatori a febbraio del 2021 furono espulsi dal gruppo M5S (anche se quei provvedimenti vari mesi dopo sono stati invalidati dall'organo d'appello di autodichia di Palazzo Madama), mentre altri procedimenti disciplinari erano stati annunciati nei confronti degli assenti ritenuti "non giustificati" (anche se non risultano irrogate sanzioni). Stavolta nulla di ciò è accaduto, visto che la linea dell'essere "presenti non votanti" è stata decisa all'interno degli organi del MoVimento e chi si è comportato così non ha fatto altro che rispettare le decisioni prese; i dissenzienti del febbraio 2021 (di uno di loro, Fabio Di Micco, è peraltro stato comunicato proprio oggi il ritorno nel gruppo del M5S) avevano invece negato la fiducia agendo in dissenso rispetto alle risoluzioni prese nel gruppo. Ma nel vedere il M5S non votare la fiducia a un governo di cui era ancora parte avranno forse ripensato al loro caso.
Al di là di questo, ci si può chiedere se la linea degli ultimi mesi del MoVimento 5 Stelle sarebbe stata la stessa qualora il Tribunale civile di Napoli avesse sospeso anche le deliberazioni avvenute online lo scorso mese di marzo, con le quali - tra l'altro - si era rimodificato lo statuto e si era rivotato sull'elezione di Giuseppe Conte alla presidenza del movimento, ripetendo le votazioni dell''agosto 2021 i cui effetti erano stati sospesi lo scorso febbraio da un'ordinanza dello stesso tribunale. Ovviamente non è questa la sede per rispondere alla domanda di prima, per il suo valore politico e per la sua inattualità: due ordinanze in sede cautelare (la prima del 14 giugno, la seconda - quella di reclamo - del 14 luglio) hanno infatti respinto le richieste di sospensione, rinviando al giudizio di merito l'esame più approfondito sulle lamentele dei ricorrenti. Vale comunque la pena cercare di capire perché le richieste di sospensione sono state rigettate per due volte e valutare la solidità di quelle argomentazioni.
I ricorrenti (difesi anche questa volta dall'avvocato Lorenzo Borrè) avevano innanzitutto ritenuto che l'assemblea per la votazione fosse stata convocata da tre persone - Giuseppe Conte, Paola Taverna e Vito Crimi - non titolate a indirla. Si è poi lamentata di nuovo la pubblicazione della convocazione sul sito www.movimento5stelle.eu, diverso da quello indicato nello statuto (www.movimento5stelle.it) e dunque ritenendo che la convocazione non fosse valida; per lo stesso motivo, l'uso di una piattaforma (SkyVote) diversa da Rousseau, indicata nello statuto, avrebbe reso la votazione non conforme alle norme statutarie. Si è ripetuta anche la contestazione dell'esclusione dal voto degli iscritti da meno di sei mesi, ritenendo che questa violasse la parità dei diritti degli associati e, in ogni caso, mancasse una delibera limitativa del diritto di voto da parte del Comitato di garanzia che fosse stata in precedenza proposta dal Comitato direttivo (visto che quest'organo, tra l'altro, come era emerso in passato, non era mai stato eletto). Altre critiche riguardavano specifiche disposizioni statutarie (ritenute difformi rispetto a principi di diritto e di "diritto dei partiti", in particolare con riguardo alla "democrazia interna"), la votazione con cui Giuseppe Conte è stato di nuovo scelto come presidente del MoVimento (sia per i difetti lamentati della deliberazione sullo statuto, sia per difetti propri), nonché di altre delibere.
La prima ordinanza emessa dal Tribunale di Napoli dopo la seconda impugnazione delle delibere (e relativa alla richiesta di sospendere l'efficacia di quelle delibere in via cautelare, per evitare che producessero pregiudizi gravi e irreparabili) è datata 14 giugno. La giudice designata - Loredana Ferrara - dopo essersi ritenuta competente a giudicare (visto che il giudizio di merito era stato iniziato a Napoli e quello cautelare doveva essere trattato dallo stesso giudice, anche se in ipotesi questo fosse risultato in seguito incompetente) e avendo ricordato che "ogni singolo associato" ha interesse "all’osservanza delle regole previste dalla legge e/o dalla disciplina interna affinché l'ente venga gestito da organi nominati nel rispetto delle stesse" (e a evitare che eventuali delibere che sembrano già dall'inizio illegittime producano danni irreparabili), ha respinto le richieste sospensive, ritenendo che a un primo sguardo le lamentele degli attori non fossero fondate.
In particolare - e limitandoci qui a occuparci delle censure relative alle votazioni sullo statuto - per la giudice la sospensione delle delibere dell'estate 2021 aveva fatto rivivere lo statuto previgente e gli organi eletti in base a quelle regole (sospendendo anche ogni deliberazione avvenuta dopo l'entrata in vigore delle modifiche sospese): in questo senso, Vito Crimi risultava presidente del Comitato di garanzia e come tale aveva titolo per convocare l'assemblea per votare online. Quanto alla convocazione su un sito diverso da quello scritto nello statuto, essa non avrebbe consentito "di ritenere la mancanza di forme di comunicazione idonee ad informare gli associati delle convocazioni assembleari" (per la giudice il sito "ufficiale" del M5S era ormai quello nuovo, pur non indicato sullo statuto); l'uso di una piattaforma diversa da Rousseau pareva non avere "alcun riflesso sulla validità della deliberazione, specie in mancanza di specifiche contestazioni", considerando che "[i]l richiamo alle peculiarità operative del MoVimento, e la libertà lasciata ai privati nella regolamentazione delle associazioni non riconosciute, sia pur nel rispetto del principio di democraticità, consente di ritenere che i lavori assembleari si sono svolti nel rispetto delle precipue e legittime regole statutarie". Circa le censure circa il "difetto di un'effettiva modalità assembleare per lo svolgimento" delle assemblee e delle votazioni, secondo l'ordinanza "il MoVimento 5 Stelle si è da sempre caratterizzato per la peculiarità del meccanismo di attuazione dei principi democratici, attraverso l’adozione di più moderne modalità telematiche, consentendo agli aderenti una partecipazione diretta attraverso Internet [...]. Chi ha liberamente scelto di associarsi, ha accettato le regole di funzionamento della democraticità del M5S anche con riferimento al metodo assembleare" e, mancando "norme imperative che impongano specifiche e rigide regole per la 'discussione' assembleare", il metodo scelto dal MoVimento è stato ritenuto non contrario alle norme vigenti.
Con riferimento invece all'esclusione degli iscritti iuniores, per la giudice essa non aveva inciso sul risultato della votazione (le deliberazioni sono state prese senza che fosse richiesto un quorum costitutivo; dati poi i numeri delle votazioni, il fatto che - a una "prova di resistenza" - gli iscritti da meno di sei mesi non fossero in numero tale da poter ribaltare l'esito delle votazioni rende inutile chiedersi se esistesse e fosse valido un eventuale regolamento per limitare l'elettorato attivo dei soci. Da ultimo, secondo la redattrice dell'ordinanza escludere i soci più giovani non lederebbe la "democrazia interna" e la parità degli iscritti, trattandosi di una limitazione dei diritti del socio solo temporanea e bilanciando anzi "la facilità di accesso all’associazione, con riferimento ai requisiti minimi e alla snellezza della procedura per l'ammissione dei nuovi associati" (e ogni associazione, partiti inclusi, sarebbe sostanzialmente libera di disciplinare l'ordinamento e l'organizzazione interna, in maniera autonoma). 
I ricorrenti, insoddisfatti della pronuncia, hanno proposto reclamo e le loro domande cautelari sono passate all'attenzione di un collegio di tre giudici (due su tre - il presidente Gian Piero Scoppa ed Eduardo Savarese - erano già stati nel collegio che aveva accolto, sempre in sede di reclamo, la richiesta di sospendere le delibere del 2021, mentre il terzo era il giudice - Francesco Paolo Feo - che non aveva accolto quelle richieste nella prima ordinanza). Il giudice collegiale, però, ha respinto il reclamo, negando di nuovo la sospensione delle delibere. Se però la prima ordinanza si era diffusa su 14 pagine, la nuova decisione ne ha impiegate soltanto 3 (limitando la motivazione effettiva alle ultime due).
In quel poco spazio, i giudici hanno essenzialmente rilevato che alle votazioni tenutesi online a marzo di quest'anno il numero degli associati esclusi in rapporto al novero di coloro che hanno approvato le delibere era assai minore rispetto ai numeri riscontrati nel 2021, "onde la votazione, almeno sul piano numerico, non avrebbe avuto altro esito anche se alla stessa avessero partecipato gli associati iuniores (per le delibere sospese invece il numero di voti a favore era risultato "inferiore al numero degli votanti rimasti esclusi"); hanno pure rilevato la mancanza di quorum costitutivi per la deliberazione e ritenuto "correttamente disposta" la convocazione, visto che Crimi quale presidente del ("ridestato") Comitato di garanzia aveva il potere di provvedervi. Per ogni altro motivo, il collegio chiamato a esprimersi sul reclamo ha richiamato l'ordinanza di rigetto di giugno, non senza aggiungere che "le restanti tematiche agitate (utilizzo delle piattaforme, modalità di espletamento del dibattito assembleare prodromico alla votazione, modalità di esercizio dei poteri del garante, ecc.) appaiono investire ex professo la natura stessa della struttura organizzativa del MoVimento, come definito fin dalla sua originaria costituzione [...] e richiedono un ulteriore adeguato approfondimento istruttorio nell’ambito della causa di merito, non compatibile con il carattere sommario della presente delibazione (rilevando pure che coloro che erano stati esclusi dal voto avevano comunque potuto partecipare al "confronto assembleare" come gli altri soci e, con riguardo al voto sulla guida del MoVimento, non era risultata alcuna candidatura ulteriore, "neppure in termini di aspirazione e/o ambizione e nemmeno sul piano del dibattito politico-giornalistico", rispetto a quella di Conte).
Come sempre, delle decisioni dei giudici si deve innanzitutto prendere atto: come avviene per ogni altra branca giuridica che abbia un contatto effettivo con la realtà e con le liti che questa può conoscere, il "diritto dei partiti" si costruisce anche a partire dalle decisioni concrete prese dai giudici, condivisibili o no che siano. Alcune affermazioni contenute nelle ordinanze, tuttavia, lasciano oggettivamente perplessi: le perplessità non si spengono nemmeno pensando che un'ordinanza che avesse sospeso gli effetti anche di queste nuove votazioni avrebbe di fatto lasciato il MoVimento 5 Stelle senza guida (più correttamente, avrebbe privato di nuovo Giuseppe Conte, almeno in via provvisoria, della legittimazione giuridica a guidare il M5S), con effetti non certo trascurabili sulla vita del soggetto politico e forse sulle dinamiche del sistema politico attuale.
Alcuni punti suscitano vari dubbi, a partire dalle considerazioni della prima ordinanza in materia sulle censure alla convocazione attraverso un sito e alle votazioni su una piattaforma diversi da quelli previsti nello statuto. La giudice sottolinea di fatto che si sia trattato di inadempimenti statutari senza particolari effetti, visto che la convocazione era stata comunque pubblicata su un sito vissuto come "ufficiale" e l'uso di una diversa piattaforma non avrebbe influito sui risultati. Le due osservazioni possono anche essere vere, ma le affermazioni contenute nell'ordinanza sembrano legittimare una considerazione minore per lo statuto del partito (o di ogni altra associazione): posto che chi scrive o fa scrivere un atto costitutivo e uno statuto è libero di determinare gran parte del contenuto, ciò che si è scritto nello statuto e non è diventato impossibile dovrebbe essere sempre seguito e praticato; sembra questo l'unico modo per "prendere sul serio" lo statuto di un partito e il suo valore di "legge associativa". Tra l'altro, nei giorni successivi all'ordinanza del tribunale napoletano che aveva sospeso le prime delibere, era stata concretamente valutata da Beppe Grillo l'opportunità di svolgere le nuove votazioni sulla piattaforma Rousseau, con il consenso del titolare (Davide Casaleggio): la scelta forse non sarebbe convenuta al MoVimento (per le questioni economiche e politiche in sospeso con Casaleggio), ma ciò mostrava che l'uso della piattaforma indicata sullo statuto non era impossibile. Del resto, se in una delle tante cause relative ai tentativi di rimettere in moto la Democrazia cristiana (Tribunale di Roma, ordinanza del 2013 del giudice Francesco Scerrato) un'ordinanza precisò che voler ridestare un partito dotato di un certo statuto comporta il dover osservare quello statuto "in ogni sua parte, fino a quando lo stesso non venga legittimamente modificato": ciò sembrerebbe molto importante, a maggior ragione con riferimento a un sito e a una piattaforma indicati con nettezza nello statuto, come fossero elementi fondamentali del "patto associativo" in un soggetto politico.
Non convince in pieno nemmeno l'idea che l'esclusione dei soci iuniores (che questo sito non contesta, essendo storicamente stata praticata in molti partiti) sia stata qui ritenuta irrilevante - a prescindere dalla correttezza della sua legittimazione - per una mera "questione di numeri": gli esclusi dall'elettorato, visto il numero contenuto rispetto al totale dei votanti e al novero dei voti positivi, in questo caso sarebbero stati ininfluenti. Eppure, pur potendosi capire il discorso della "prova di resistenza" nell'ottica di non perdere tempo in sede cautelare, bisogna dire che per varie sentenze non conta tanto quanto incide la singola persona in una deliberazione, ma che abbia la possibilità di farlo partecipando e votando. 
Da ultimo, stupisce molto che la seconda ordinanza - quella di luglio sul reclamo, davvero troppo breve - abbia sostenuto che la lamentela sull'uso delle piattaforme di voto, assieme ad altre, riguardava "ex professo la natura stessa della struttura organizzativa del MoVimento, come definito fin dalla sua originaria costituzione (prescindendo dunque dalla specifica declinazione e/o conformazione del singolo statuto) e richiedono un ulteriore adeguato approfondimento istruttorio nell’ambito della causa di merito". A chi scrive, in particolare, sembra che la questione della piattaforma o del sito, proprio perché legata alla peculiarità di natura e organizzazione del MoVimento 5 Stelle, meritasse più attenzione e considerazione, proprio in fase cautelare. 
Non si può sapere come sarebbero andate le cose senza Conte alla guida del M5S già qualche settimana fa; magari la crisi sarebbe iniziata prima o comunque con altre forme. In ogni caso, per il futuro si terrà conto anche di queste decisioni dei giudici, per vedere se saranno seguite o, al contrario, spingeranno a riflessioni per scelte di segno diverso.

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