Molti oggi indossano le insegne dell’Udc, che non si è ancora privato
dello scudo crociato, altri militano nel Pdl, nel Pd, nell’Api o altrove,
sempre che non abbiano lasciato la politica o siano passati a miglior vita.
Eppure, per chi è stato democristiano (e, probabilmente, non ha mai smesso di
sentirsi tale), si apre un periodo frenetico, ai limiti della schizofrenia. Il
10 e l’11 novembre, infatti, la Democrazia cristiana terrà il suo 19° congresso
(non è ancora dato sapere dove); oggi, invece, a Roma si riunisce il Comitato
nazionale della Democrazia cristiana e, per i suoi aderenti, la Dc di congressi
ne ha già celebrati 22. A
non tornare, non sono solo i conti: per molti l’esperienza del partito di De
Gasperi, positiva o negativa che fosse, è termina all’inizio del 1994.
Il problema, per questi campioni di scudo crociato, sta proprio lì.
Quando, nel 1994, Mino Martinazzoli e Rosa Russo Jervolino decisero di
archiviare la Democrazia cristiana per tornare al vecchio nome di Partito
popolare italiano, lo fecero senza convocare un Congresso: si limitarono a mutare
la denominazione in direzione e consiglio nazionale, ma un assise per marcare
quel passaggio non ci fu mai. Qualcuno non si era mai arreso alla scomparsa
della Balena bianca, al punto da fare di tutto per riportarla in vita. Anche in
formato mignon e passando dalle aule di un tribunale. Ci aveva provato per
primo, nel 1997 (e a ottantadue anni suonati), Flaminio Piccoli, fondando una
«Democrazia cristiana» con tanto di scudo crociato “degasperiano” (quello col
bordo superiore arcuato): che quel partito non fosse lo stesso di De Gasperi,
tuttavia, era chiaro a tutti, tanto che i giudici diedero puntualmente torto a
Piccoli e gli impedirono di usare il simbolo tradizionale, quando riusciva a
presentarsi alle elezioni.
Da dieci anni a questa parte, vari gruppi di (ex) democristiani hanno
deciso di fare sul serio, con una tenacia che ha dell’incredibile: sono nate
varie Democrazie cristiane, con infinite varianti di quello scudo originario,
pronte a dar vita tra di loro a battaglie memorabili (e costose) davanti alle
commissioni elettorali e in tribunale per affermare il diritto di considerarsi
l’unico erede della Dc; il tutto, mentre l’Udc agiva ad ogni elezione per
impedire che una di queste formazioni utilizzasse qualche forma di scudo
crociato (troppo confondibile con il suo), non di rado riuscendoci.
Alla fine del 2010, la Cassazione aveva concluso una vicenda giudiziaria
iniziata nel 2002, confermando una sentenza dell’anno precedente che cercava di
mettere ordine a una giungla di nomi, simboli e pretese: il concetto è che
nessuno aveva sciolto la Democrazia cristiana, il cambio di nome era avvenuto in
modo irregolare e né l’Udc, né le varie Dc in campo potevano dirsi eredi di
quel partito. Un gruppo di democristiani, guidato dall’ex ministro Clelio
Darida, ha preso l’iniziativa, chiedendo la convocazione del consiglio
nazionale della Dc in carica nel 1994 (ed eletto nel 1989) alla Jervolino che
lo presiedeva: loro hanno letto la sentenza come se tutto fosse rimasto
“congelato” per diciotto anni – niente Popolari, Ccd, Cdu e sigle varie – e
fosse arrivato il momento di riattivare la macchina del partito, con tanto di
tesseramento e congresso (il 19°, rispettando l’antica numerazione). Assise che
si svolgerà il 10 e 11 novembre, con l’ex ministro Giovanni Fontana come
segretario uscente e Alessandro Duce come segretario amministrativo: lui era
stato l’ultimo a ricoprire quel ruolo nella “vecchia” Dc e nel 2002 aveva già
provato a “scongelare” il partito, anche se i ricorsi di Cdu e Udc l’avevano
fermato dopo pochi mesi.
Peccato che, ad Angelo Sandri, tutto questo non piaccia per niente.
Sandri, coordinatore del Comitato nazionale della Dc che vuole raccogliere gli
iscritti al partito degli anni 1992-1993, rivendica di essere stato eletto
segretario della Democrazia cristiana da un’assemblea di iscritti nel 2002 –
convocata dopo i tentativi di riattivazione di Duce – e di aver riottenuto
quella carica con i Congressi del 2005 e del 2009 (il 20° e il 21°, secondo
altra numerazione): morale, il partito sarebbe nelle sue mani, mentre Darida,
Fontana e gli altri sarebbero dei mistificatori, da contestare e fermare in
sede legale. Anche questo è all’ordine del giorno dell’assemblea degli iscritti
convocata per oggi a Roma, cui è prevista la partecipazione anche degli
iscritti alla Rinascita della Democrazia cristiana, partito costituito nel 2000
e guidato oggi come allora dal varesotto Carlo Senaldi.
Tanto per semplificare il quadro, da tempo non pervengono notizie della
Democrazia cristiana di Giuseppe Pizza, divenuto segretario nel 2003 dopo
Angelo Sandri (che aveva dato impulso a quel
19° congresso) e rimasto tale nel 20° e nel 21° congresso che anch’egli
ha fatto celebrare, dopo che nel 2004 si è consumata una rottura tra Sandri e
lo stesso Pizza, praticamente mai ricomposta negli anni successivi (Sandri
sostiene di aver sfiduciato Pizza nel 2004 e si ritiene continuatore di quel
partito, mentre il suo avversario contesta tutto ciò). Pizza nel 2008 era diventato
sottosegretario all’istruzione nel governo Berlusconi, il sito del suo partito
è ancora in rete, ma sembra assai poco aggiornato (in compenso, la Dc di
Fontana ha preso il simbolo di Pizza, non quello della “vecchia” Dc e forse nemmeno se n'è accorta); qualche
notizia in più di sé la dà la Democrazia cristiana regionalizzata, una
struttura federale costituita in varie regioni a partire dal 2009 da vari
iscritti della Dc-Pizza e ora sembra in contatto con Sandri, sebbene almeno uno
dei promotori, Alberto Alessi, abbia aderito alla Dc di Fontana.
In tutto questo, c’è anche chi alza sommessamente la mano e fa notare che
in effetti la Democrazia cristiana non è mai stata sciolta, ma nessuno ha mai
voluto questo, men che meno Martinazzoli che di fatto ha chiesto solo di
cambiare il nome al partito. Unico erede della Dc, dunque, sarebbe il Ppi,
passato da Martinazzoli a Bianco a Marini, fino all’ultimo segretario Pierluigi
Castagnetti: egli ne è tuttora legale rappresentante, a dieci anni dalla
confluenza del Ppi nella Margherita e a un lustro dalla nascita del Pd. Certo,
i giudici hanno stabilito che il cambio di nome da Dc a Ppi, senza congresso,
era irregolare, ma l’unica conseguenza sarebbe che i Popolari, in realtà,
avrebbero continuato a chiamarsi, fino a oggi, Democrazia cristiana. È lecito
dunque prevedere che le dispute su nome e simbolo continuino ancora, con uno
scambio incrociato di ricorsi e provvedimenti di cui farsi scudo. Crociato,
ovviamente.
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