Non se l’immaginavano nemmeno,
nei corridoi austeri del Ministero dell’interno, che un giorno qualcuno avrebbe
coniato il «Partito du pilu» proponendo in giro per le strade una finta
campagna elettorale e, soprattutto, che qualche buontempone avrebbe colto l’occasione
per scodellare una «Lista Bunga Bunga – Più pilo per tutti», senza peraltro
osare proporla al di là del Piemonte (almeno fino alle prossime elezioni
politiche: ci sarà di che divertirsi…).
Eppure non dev’essere stata meno
interessante l’espressione assunta dai funzionari del Viminale che il 31 marzo
2001, nell’ultimo giorno di fila per il deposito dei contrassegni per le
elezioni politiche che avrebbero riportato Berlusconi a Palazzo Chigi, si sono
visti consegnare l’incartamento del «Partito della gnocca». Certamente
serissimo doveva essere il latore del fascicolo, tale Federico Staunovo
Polacco, nel farsi protocollare il suo emblema con il numero 149, tra il «Movimento
denominato Unità democratica federale – Associazione del Pollino» e l’«Unione
Nord Est», formazioni che difficilmente hanno provato il brivido di superare l’1%,
almeno a livello nazionale.
Quasi certamente era la prima
volta che una parola un po’ sopra le righe (popolare per alcuni, volgare per
altri) metteva le tende al Viminale, anche se ci sarebbe rimasta poco: i funzionari
delegati, infatti, passarono rapidamente al setaccio il contrassegno, per
vagliarne l’ammissibilità. Nessuna traccia nell’emblema del nome del partito,
soltanto uno gnocco di patate (almeno, così sembra) in bella vista sopra lo
stellone della Repubblica. O meglio, la sua taroccatura: sul nastro rosso che
lega i rami di ulivo e quercia, dove normalmente sta scritto in maiuscolo «Repubblica
italiana», una mano birbante aveva inserito la frase definitiva e inesorabile «Quando
Ti Tocca Vota La Gnocca» (con tutte le maiuscole ben marcate); il tutto su una
riproduzione sbiadita e sgranata dell’emblema.
Una manciata di ore e a Staunovo era
arrivata la comunicazione: simbolo bocciato. Il problema non era tanto la parolaccia
– in fondo nessuno aveva osato tanto fino ad allora – ma il punto in cui era
scritta: taroccare l’emblema della Repubblica, scrivendoci «gnocca» sopra, si
traduceva in un simpatico «vilipendio a un emblema dello Stato», che per l’articolo
292 del codice penale è un reato, sanzionato con una bella multa (da 1000 a 5000 euro). Non che
ci sia scritto da qualche parte che un contrassegno elettorale deve rispettare
il codice penale, ma per i funzionari del Ministero questo è implicito: il
simbolo, così com’era, non poteva passare.Anche quella parolina, però, in fondo non piaceva proprio, tant’è che
qualcuno deve aver suggerito al depositante di toglierla assieme allo stellone.
La nuova versione del contrassegno era del tutto enigmatica: lo gnocco stava
ancora lì, ma stavolta si stagliava su un bersaglio da freccette – chissà poi
perché – e in alto si stendeva a semicerchio il nuovo nome della lista che, con
estremo esercizio di fantasia, recitava «Partito dello gnocco». Questa volta il
Viminale non aveva nulla da dire: l’emblema fu accettato e tornò regolarmente
in bacheca, nei corridoi del Ministero, incontrando per un attimo lo sguardo di
decine di persone, tra giornalisti, ministeriali e politici vari. Gli avesse profetizzato
qualcuno di Bunga Bunga, Forza Gnocca e Partiti du Pilu, avrebbero scosso la
testa e li avrebbero presi per matti.
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