lunedì 29 novembre 2021

M5S, sentenza di secondo grado sulla titolarità di nome e simbolo

Sono trascorsi ormai quasi quattro anni da quando il 20 dicembre 2017, in uno studio notarile milanese, Luigi Di Maio e Davide Casaleggio costituirono come soggetto giuridico il MoVimento 5 Stelle attualmente operante sulla scena politica italiana (il terzo con quel nome), passato dalla guida politica di Di Maio a quella (temporanea) di Vito Crimi, fino a quella attuale di Giuseppe Conte. Più o meno a metà di questo periodo, cioè due anni fa (nel mese di ottobre del 2019), il tribunale di Genova decise in primo grado l'azione giudiziaria intrapresa dal curatore speciale del "primo" M5S, fondato da Beppe Grillo nel 2009, contro le due associazioni omonime costituite in seguito: in quella sentenza la giudice sostenne che il M5S-1 non avesse titolo per ottenere la disponibilità del sito www.movimento5stelle.it e l'esclusiva titolarità del nome e del simbolo del MoVimento, ritenendo però che il primo M5S, per poter agire (su un sito diverso), avesse bisogno dei dati degli iscritti per poterli contattare. Quella decisione è stata ora confermata in secondo grado: la corte d'appello di Genova ha infatti appena rigettato l'appello proposto dal curatore speciale nell'interesse del M5S-1. 

I precedenti e le richieste

È bene cercare di capire meglio la situazione, riepilogando le precedenti "puntate". Poche settimane dopo la fondazione del M5S-3 (2017), il 12 gennaio 2018, il tribunale di Genova aveva nominato un curatore speciale per il primo MoVimento 5 Stelle (2009, quello che prima si è chiamato M5S-1): un gruppo di iscritti della prim'ora aveva infatti lamentato un conflitto di interessi di Beppe Grillo perché rivestiva un ruolo di vertice nei tre MoVimenti creati via via, distinti tra loro (anche per regole e programmi) e come tali confondibili. Poco più di un mese dopo la nomina Luigi Cocchi, cioè l'avvocato scelto come curatore speciale, aveva a sua volta presentato ricorso al tribunale di Genova: aveva chiesto di inibire l'uso del nome e del simbolo a Grillo e alle altre associazioni MoVimento 5 Stelle fondate nel 2012 (M5S-2) e nel 2017 (M5S-3), perché il primo soggetto giuridico (la "non associazione") avrebbe visto tutelata la sua identità personale e la possibilità di agire solo avendo la titolarità esclusiva di quei segni distintivi; allo stesso tempo, il curatore aveva chiesto che fossero consegnate al M5S-1 le banche dati delle persone iscritte alla "non associazione", in modo che i nuovi rappresentanti del primo MoVimento potessero comunicare di nuovo con gli aderenti.
Visto che per Cocchi la confondibilità dei tre soggetti giuridici con lo stesso nome rischiava di pregiudicare irreparabilmente i diritti del M5S-1, il tribunale di Genova era intervenuto innanzitutto in sede cautelare. Una prima ordinanza (il 27 marzo 2018) aveva respinto le richieste del curatore, distinguendo la "non associazione" del 2009 dai due MoVimenti fondati in seguito (qualificabili come partiti, a differenza del primo soggetto) e ritenendo che mancasse la prova della titolarità del nome, del simbolo o del diritto al loro uso in capo al M5S-1; la richiesta di ottenere i dati degli iscritti era poi stata giudicata "sproporzionata e sbilanciata", perché avrebbe comportato la consegna di molti dati personali a fronte di una richiesta di pochi iscritti rispetto al numero di aderenti. In sede di reclamo, una nuova ordinanza (emessa il 24 maggio 2018) confermò di non trovare indizi per poter attribuire solo alla "non associazione" la titolarità del nome e del simbolo del M5S, ma aggiunse - pur senza pronunciarsi sull'esclusivo accesso al sito www.movimento5stelle.it - che aprire un nuovo sito-sede del M5S-1 per poter operare di nuovo sarebbe stato possibile solo dopo la consegna dei dati degli iscritti al curatore speciale (non agli iscritti). 
La prima giudice (quella che aveva emesso l'ordinanza del tutto sfavorevole al ricorrente), nella citata sentenza di primo grado, confermò in pieno il verdetto del collegio di reclamoPosto che la causa era relativa a diritti della personalità e non di diritti di uso economico di un marchio (benché il simbolo del M5S fosse stato registrato anche così), per la giudice nessuno aveva contestato alla "non associazione" il diritto a chiamarsi MoVimento 5 Stelle e a usare il simbolo, mentre questa voleva ottenere l'esclusiva su quei segni. Il fatto era che non ci sarebbe stata alcuna scissione seguita a una trasformazione di un soggetto politico, ma un contenzioso tra un soggetto collettivo destrutturato che si qualificava come "non associazione" (M5S-1) e due associazioni strutturate, qualificabili come partiti e non frutto di scissioni (anzi, in continuità politica con la "non associazione"). Mancava poi la prova che il M5S-1 fosse il solo titolare del nome e del simbolo: dal "non statuto" e da altri documenti sarebbe emersa una titolarità dei segni in capo a Beppe Grillo, né il curatore non aveva provato che l'uso elettorale del simbolo fosse stato autorizzato dal M5S-1 (anzi, la versione del "non statuto" approvata nel 2015 attribuiva la titolarità al M5S-2, poi la V rossa e le cinque stelle erano già parte del simbolo della Lista CiVica a 5 Stelle, legata a Grillo), quindi nome e simboli non erano parte del patrimonio esclusivo della "non associazione" del 2009. I tre soggetti omonimi, per la sentenza, denotavano continuità politica ed evoluzione rispetto al M5S-1, senza rischi di confusione per gli elettori; in più, le lamentele di pochi soci non bastavano per dire che il M5S-2 e il M5S-3 avevano usato nome e simbolo contro la volontà del M5S-1. Nonostante ciò, pur mancando prova della titolarità in capo alla "non associazione" del sito e del dominio www.movimento5stelle.it, senza la disponibilità del sito il M5S-1 non poteva più operare e per poter continuare l'attività su un sito analogo doveva disporre dei dati essenziali degli iscritti (frattanto consegnati al curatore speciale).
La decisione di primo grado evidentemente non aveva soddisfatto il curatore speciale del MoVimento 5 Stelle (2009), che nel mese di gennaio del 2020 ha impugnato la sentenza. Cocchi, innanzitutto, ha contestato la mancata dimostrazione della titolarità esclusiva del nome in capo alla "non associazione", ribadendo che ogni soggetto giuridico ha diritto al nome e all'identità personale e negando che la presentazione precedente delle Liste Civiche a 5 Stelle (e quella seguente di altri gruppi locali) potesse escludere quella titolarità esclusiva di cui si è detto e che Beppe Grillo, quale titolare del marchio del M5S, fosse anche automaticamente titolare del nome. Il ricorrente, poi, ha contestato la ricostruzione della lite come contrapposizione tra una "non associazione" che nega di essere un partito e due associazioni-partito, trattandosi giuridicamente di tre associazioni non riconosciute (e nessuna delle tre è stata inserita nel registro dei partiti), senza contare che il nome è il principale segno di identificazione di un soggetto e va tutelato a prescindere dalla sua natura. Nessun rilievo avrebbe avuto la volontà del M5S-3 di usare il nome del M5S-2 per porsi nello stesso contesto politico di questa o della "non associazione" (anzi, sarebbe comunque stato grave scegliere di usare un nome esistente, dichiarando di essere e agire in piena continuità con il soggetto di cui si è ripresa la denominazione); da ultimo, il fatto stesso che in primo grado il M5S-3 avesse rifiutato una proposta di conciliazione che aveva previsto l'adozione come proprio statuto del "non statuto" del M5S-1, ritenendo che questo fosse "inconciliabile" con quello dell'associazione del 2017, dimostrava per il ricorrente che non c'era alcuna continuità politica tra la "non associazione" del 2009 e l'associazione del 2017. 
Quanto al simbolo, per il curatore speciale del M5S-1 la sentenza di primo grado si contraddiceva nel sostenere prima che non si dovesse applicare il "diritto dei marchi" e nel negare poi che la "non associazione" avesse la titolarità esclusiva del simbolo sulla base delle frasi del "non statuto" o del regolamento che parlavano del contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo e dei post che avrebbero riaffermato la titolarità in capo allo stesso Grillo: per Cocchi, il M5S-1 aveva comunque usato per primo il simbolo (prima della registrazione come marchio dello stesso) e in ogni caso doveva prevalere il diritto all'identità personale della "non associazione" che per anni si è fregiata dell'emblema; di più, i soci del M5S-1 non avrebbero accettato di "spogliarsi" della titolarità del loro emblema a favore del M5S-2 (fondato nel 2012), anche dopo le modifiche al "non statuto" e al regolamento intervenute tra il 2015 e il 2016. Altri motivi di appello riguardavano il rigetto della richiesta di rientrare nella disponibilità del sito www.movimento5stelle.it (ribadendo che di questo doveva ritenersi titolare la "non associazione" e che comunque questa l'aveva pacificamente usato fino alla fine del 2017, quando ne è stata spogliata) e la questione del risarcimento del danno (per Cocchi i danni esistevano, anche solo quanto all'impossibilità di mantenere i contatti con i soci che non si erano iscritti al M5S-3 e di presentare candidature con il proprio nome e simbolo).
Nell'appello, dunque, il curatore speciale aveva chiesto di restituire al M5S-1 la piena ed esclusiva disponibilità del sito, di accertare e dichiarare la titolarità esclusiva del nome e del simbolo del M5S in campo alla "non associazione" (inibendo l'uso dei segni o di nomi e fregi confondibili a Grillo e ai MoVimenti costituiti in seguito), nonché di condannare gli appellati al risarcimento dei danni. Ben diversa, ovviamente, era la posizione di Beppe Grillo e delle associazioni denominate MoVimento 5 Stelle. In particolare, Grillo e il M5S-2 avevano chiesto di rigettare per intero i motivi di appello (chiedendo anzi che quella intentata da Cocchi fosse considerata "lite temeraria", cioè in malafede o con colpa grave); analoga richiesta era venuta dal M5S-3 (qui non era stata chiesta la lite temeraria, ma comunque che si disponesse il pagamento di "una somma equitativamente determinata").

La sentenza di secondo grado

Il collegio di giudici della terza sezione civile della corte d'appello di Genova ha ritenuto infondato l'appello e l'ha respinto in pieno. Per la corte innanzitutto sarebbe toccato al curatore speciale dimostrare che la "non associazione" aveva avuto la titolarità esclusiva del nome e del simbolo descritto nel "non statuto" (confermando che nessuno aveva mai contestato al M5S-1 il diritto a usare quei segni): per il collegio il tenore dell'art. 3 del "non statuto" ("Il nome del Movimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso") è inequivocabile. Quella frase non potrebbe essere letta ritenendo che Grillo fosse titolare esclusivo solo del simbolo e non del nome: anzi, per i giudici sarebbe una lettura "capziosa", essendo "evidente che i 'diritti d'uso', posti alla fine del periodo, non possono che riferirsi tanto al nome quanto al contrassegno, indicati all’inizio del medesimo periodo". Il collegio ha ribadito poi la natura del M5S-1 quale "realtà del tutto destrutturata" (aderendo alla ricostruzione del M5S-2, in base alla quale - si cita dalla sentenza che verosimilmente riassume il contenuto degli scritti di parte - "occorre quasi fare una forzatura per qualificarla come associazione non riconosciuta perché anche quest’ultima soggiace alla disciplina prevista dagli artt. 36 e segg c.c. mentre nel caso in esame non si rinviene alcuna disposizione relativa al funzionamento degli organi deliberativi dell’ente. In realtà si trattava solo di un sito internet volto a favorire lo scambio di opinioni e il confronto tra quanti intendevano accedervi"): basterebbe questo per qualificare i MoVimenti fondati nel 2012 e nel 2017 come "evoluzione dell’Associazione del 2009", la cui costituzione formale è stata necessaria per partecipare alle competizioni elettorali. 
La mancanza di titolarità esclusiva (sul nome e) sul simbolo del M5S in capo alla "non associazione" emergerebbe anche dalle disposizioni del "non statuto" sulla designazione dei candidati alle elezioni e dall'art. 3 dello statuto del M5S-2 (nel quale si dichiarava che Grillo, titolare esclusivo del contrassegno, lo metteva a disposizione dell'associazione costituita nel 2012 giusto per il perseguimento dei fini di questa): non poteva dunque dirsi che il regolamento approvato nel 2016 riferisse la titolarità del contrassegno alla "non associazione" del 2009 (M5S-1) invece che all'associazione del 2012 (M5S-2). Per i giudici non serviva alcuna altra argomentazione relativa alle liste presentate con quel simbolo: era sufficiente riferirsi al testo del "non statuto" per rilevare che tra i diritti di cui può fregiarsi la "non associazione" non c'è "l'esclusività dell'uso del nome e del simbolo" (né il M5S-1 avrebbe potuto invocare a suo favore una sentenza del tribunale di Roma del 2018, passata in giudicato, in cui si diceva che "l’esistenza di detto M5S costituito nel 2009 e la sua operatività sia reale che virtuale nel periodo precedente alla formale costituzione dell’Associazione Movimento 5 Stelle del 2012 possono ritenersi pacifiche fra le parti", visto che quella controversia riguardava tra l'altro la legittimità del regolamento pubblicato da Grillo nel 2014, sulla base del quale erano state decise alcune espulsioni, dunque un oggetto del tutto diverso).
Quanto al motivo di appello relativo al sito, per i giudici era da ritenere infondato: all'inizio la sede del Movimento era collegato "in modo ancora più marcato" a Beppe Grillo (www.beppegrillo.it, eletto come sede del M5S-1) e sarebbe stato già rilevato nella sentenza di primo grado che il dominio www.movimento5stelle.it, creato il 9 ottobre 2009, era stato venduto alla Casaleggio Associati s.r.l. il 9 novembre 2010 e poi ceduto nel 2015 al M5S-2, che ne è titolare. Il curatore speciale del M5S-1 non avrebbe invece provato che fosse della "non associazione" la titolarità esclusiva di quel dominio (in più, secondo i giudici, si si sarebbe dovuto impiegare un diverso strumento processuale per essere reintegrati nel possesso del sito). Da ultimo, la corte d'appello ha ribadito che la domanda di risarcimento danni del curatore speciale della "non associazione" doveva essere respinta, poiché non sarebbe stata dimostrata "alcuna condotta lesiva da parte delle appellate cui causalmente potere ricondurre gli asseriti fatti lesivi da cui sarebbero scaturiti i danni".
Essendone stati respinti tutti i motivi, l'appellante (il curatore speciale) è stato condannato - per il principio della soccombenza - a rifondere alle parti appellate le spese di questo secondo grado di giudizio (non anche del primo); la corte d'appello non ha invece ritenuto che quella del curatore speciale fosse una lite temeraria (non sarebbe stata dimostrata "l'effettiva e concreta esistenza di un danno" dovuto al comportamento processuale dell'avversario, tenuto per giunta con dolo o colpa grave (cioè sapendo che le proprie tesi erano infondate o che i mezzi per agire erano "irrituali o fraudolenti").

Qualche riflessione

Fin qui il contenuto della decisione di secondo grado, del quale si prende certamente atto. Nel pieno rispetto di chi ha emesso la sentenza, sembra comunque opportuno fare qualche riflessione.
Ci si vede costretti, innanzitutto, a ripetere quanto detto nel commentare la sentenza di primo grado: si può anche discutere sul fatto che il M5S-1 non volesse diventare un partito e non avesse una struttura definita, a differenza dei MoVimenti costituiti in seguito, ma sul piano giuridico rileva soltanto che tanto la "non associazione" del 2009 (a dispetto dell'etichetta scelta), quanto le associazioni fondate nel 2012 e nel 2017 sono associazioni non riconosciute, in base all'articolo 36 del codice civile. Di queste due, la prima non ha mai chiesto di essere inserita nel Registro dei partiti politici previsto dalla legge (e non ha  mai sottoposto a esame il suo statuto); non risulta che lo abbia fatto finora nemmeno l'associazione fondata nel 2017, anche se ora potrebbe doverlo fare, se portasse avanti l'idea di accedere al finanziamento indiretto, cioè alla ripartizione del 2 per mille del gettito Irpef (per accedervi, però, occorre appunto che la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici dichiari lo statuto del M5S conforme alle previsioni di legge). Non si mette certo in dubbio che le associazioni del 2012 e del 2017 presentino differenze rispetto alla "non associazione" del 2009 (a  differenza di questa, sono state costituite con atto notarile e hanno partecipato alle elezioni, oltre ad avere un diverso contenuto statutario); non per questo, però, sembra di poter dire che da tali differenze si possono far derivare differenze nella titolarità e nel godimento di diritti. Con queste parole non si sta escludendo che ci siano altre ragioni per dire che il M5S-1 non ha la titolarità esclusiva dei suoi segni di identificazione (nome e simbolo): si dice solo che non sembra possibile affermare che il M5S-1 non è titolare esclusivo di questi sulla base del fatto che è un soggetto collettivo destrutturato, mentre gli altri soggetti omonimi sono partiti.
La sentenza di appello si concentra poi sul passaggio del "non statuto" del 2009 per cui "Il nome del MoVimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso": per i giudici è ovvio che Grillo è "unico titolare" non solo dei diritti d'uso del simbolo, ma anche del nome, ritenendo che non si possano scindere nome e contrassegno. Da un certo punto di vista la posizione è comprensibile, poiché il contrassegno è in gran parte la "visualizzazione" del nome. Non sono però mancati casi in cui si è distinta la titolarità giuridica del nome e del simbolo: un precedente noto è legato alla vicenda di Scelta civica per l'Italia, quando Mario Monti si era opposto all'uso del nome del partito da lui fondato per distinguere un nuovo gruppo parlamentare, ma gli era stato eccepito dall'Ufficio di Presidenza della Camera che in base ai documenti da lui prodotti era titolare del simbolo del partito, non anche del nome. In passato (specie in questo contributo sui raggruppamenti politici delle Camere uscito sulla Rivista AIC, alle pagine 44 e 45) ho espresso perplessità sulla decisione, sostenendo che allora le vicende giuridiche di nome e simbolo del partito erano state "di fatto disgiunte" con leggerezza: ne resto convinto, ma le mie perplessità nascevano soprattutto dal non aver potuto vedere il contenuto dei documenti in base ai quali Monti si riteneva titolare anche del nome. 
Tornando al caso del M5S, pur comprendendo il ragionamento "logico" dei giudici, credo anche che i pochi testi rilevanti vadano "presi sul serio": se il "non statuto" dice che Grillo è "unico titolare dei diritti d'uso dello stesso", al singolare, è evidente il riferimento al contrassegno registrato a suo nome, ma solo a quello; pure lo statuto del M5S-2 (2012) indica Grillo come "titolare esclusivo del contrassegno", senza parlare del nome. Quando si interpreta un testo giuridico, anche quello di un atto tra privati, l'argomento letterale è sempre il primo a dover essere applicato: se si è scritta una cosa, quella è, almeno finché non si decide di cambiarla (cosa che è sempre possibile). Certamente non va dimenticato che, in base all'art. 1362 del codice civile, "[n]ell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole" (anche se questo non è esattamente un contratto); è anche vero però che le parole quelle sono e da lì si deve partire. Naturalmente dire che il "non statuto" e altri documenti non sembrano assegnare a Beppe Grillo la titolarità esclusiva del nome del M5S non significa concludere in automatico che titolare esclusivo del nome è il M5S-1 (2009); anche qui si intende solo che un'attenta lettura suggerisce di non usare le disposizioni viste sin qui per attribuire la titolarità esclusiva del nome a un soggetto diverso dal M5S-1 (per negarla a questo).
Quanto alla continuità dei tre soggetti giuridici (associazioni non riconosciute) che portano il nome di MoVimento 5 Stelle, continuità ovviamente solo politica (nessuno mette in dubbio che si tratti di entità giuridiche diverse), resta valido ciò che si è scritto due anni fa: usare il metro della continuità politica per avallare l'uso di un segno identificativo è almeno in parte pericoloso, perché - applicandolo in modo esteso - in questo modo si potrebbe consentire a chiunque voglia porsi in continuità con un soggetto associativo/politico esistente l'uso del nome e della grafica di quello stesso soggetto, senza che questo possa opporsi (magari eccependo che il nuovo ente giuridico ha un programma diverso, politiche di alleanza diverse contrastanti con l'identità originaria, etc.). Naturalmente la vicenda è complicata dal fatto che il nome "MoVimento 5 Stelle" fa parte del segno grafico registrato come marchio (italiano e comunitario) da Beppe Grillo, per cui i piani dei segni di identificazione e dei marchi hanno finito per sovrapporsi e confondersi; i giudici intervenuti in questa vicenda hanno escluso che si discutesse di diritto della proprietà industriale, ma pur limitando la causa ai profili del diritto al nome e dell'identità personale si sono avvalsi ugualmente dei riferimenti a un "contrassegno registrato". 
Va poi richiamato un altro profilo già affrontato due anni fa. Di certo il giudice non può valutare la continuità o la coerenza politica di un soggetto rispetto ai suoi programmi (la cosa è nota e accettata da tempo). Di certo però il M5S-3, ente giuridico diverso al M5S-1 e costituito con l'idea di "travasarvi" gran parte degli iscritti alla "non associazione" (ritenuta non più in condizione di operare), è ormai soggetto molto lontano dal MoVimento 5 Stelle del 2009: se questo valeva nel 2019, vale ancora di più oggi, dopo il corso impresso al M5S dalla guida di Giuseppe Conte). Ora, considerando che l'art. 5 del "non statuto" individua tra i requisiti di ammissione il non far parte "di partiti politici o di associazioni aventi oggetto o finalità in contrasto con quelli sopra descritti" e che il venir meno di tale requisito è presupposto per la cancellazione dell'utente, se si rinvenissero contrasti tra il M5S-3 e il M5S-1, questi renderebbero incompatibili le iscrizioni ai due soggetti (comportando un recesso dalla "non associazione") e a quel punto qualche problema in più legato all'uso dei nomi ci sarebbe. Anche la corte d'appello di Genova, infatti, ha ribadito che nessuno ha mai contestato al M5S-1 il diritto a usare il nome o il simbolo usato in passato (privato, si immagina, del riferimento al sito di Beppe Grillo). Su questa base, in teoria, chi è tuttora aderente alla "non associazione" dovrebbe poter organizzare indisturbato una manifestazione, locale o nazionale, spendendo il nome e il simbolo di questa senza impedimenti; di più, se gli aderenti al M5S-1 avessero deciso di aprire il nuovo sito per riprendere le loro attività sulla base dei dati degli iscritti ricevuti, sempre in teoria dovrebbero poterlo fare. 
Si deve dire in teoria perché, ovviamente, i problemi ci sarebbero: i poteri del curatore speciale sono limitati alla rappresentanza in giudizio, ma non è il rappresentante legale del M5S-1, per cui non sarebbe agevole capire chi avrebbe titolo per convocare riunioni, organizzare eventi, ricostruire un sito usando i dati consegnati da Grillo. Lo stesso discorso varrebbe per un'ipotesi anche più delicata: se il diritto del M5S-1 (2009) a usare il nome e il simbolo usati in precedenza non è contestato, pur non essendo esclusivo, che succederebbe se decidesse di partecipare alle elezioni con quei segni identificativi? Qui il discorso si complicherebbe di molto: com'è noto, le elezioni sono regolate da norme speciali - non si applicano quelle legate ai segni di identificazione o ai marchi - e si dà parecchio peso all'affidamento degli elettori, che non devono essere sviati con l'uso di simboli simili a quelli di partiti o movimenti presenti in Parlamento (come il M5S-3). Sarebbe anche difficile individuare l'eventuale soggetto titolato a presentare il contrassegno o le candidature (o a delegarne la presentazione); certo è che sembrerebbe oggettivamente strano sostenere che un soggetto politico può utilizzare un nome e un simbolo (pur senza pretendere di essere l'unico a farlo) e poi impedirgli di usarlo nella sede più importante (quella elettorale). Non ci si sente, poi, di intervenire sulla questione relativa al sito internet, troppo complessa e delicata per essere liquidata in poche righe. 
Quanto si è detto finora, tuttavia, sembra dare sufficienti elementi per sostenere che la sentenza di secondo grado su questa vicenda, sempre nel rispetto di chi ha avuto il compito di decidere, lascia aperti alcuni dubbi non irrilevanti e alcuni problemi che potrebbero sorgere da questa. Alcuni problemi, ovviamente, non dovevano essere risolti da questo collegio giudicante (come quelli legati a possibili usi del nome e del simbolo operati dal M5S-1, sulla base di quanto non è stato contestato a questo ente); allo stesso tempo, bisogna ricordare che decisioni diverse da quella presa avrebbero potuto oggettivamente porre la forza politica più votata nel 2018 (e tuttora con una buona rappresentanza parlamentare, pur se ridotta rispetto a qualche anno fa) nella condizione di non operare o, per lo meno, di non operare più con lo stesso nome e lo stesso simbolo e che in ogni caso, il ricordato intreccio tra prassi, norme sui diritti della personalità e segni distintivi ha contribuito a creare una matassa complessa, difficile da dipanare. Per ora ci si limita alle riflessioni fatte sin qui; in caso di eventuali sviluppi, ci sarà altro da commentare.

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