mercoledì 31 ottobre 2018

Dc, cariche rinnovate per ridare corpo allo scudo crociato

Alla fine il tanto evocato - per volerlo o scongiurarlo - XIX congresso della Democrazia cristiana è stato celebrato (il 14 ottobre) e, di seguito (il 27), si è tenuto anche il primo consiglio nazionale che da quella riunione sarebbe derivato: in queste due occasioni, il partito si sarebbe dato di nuovo un segretario politico (Renato Grassi) e avrebbe ricostituito gli organi nazionali, a partire dalla direzione nazionale e dal segretario amministrativo (Nicola Troisi), con l'intenzione di ritornare pienamente operativo a livello nazionale per poter riutilizzare il simbolo dello scudo crociato nella vita politica ordinaria e agli appuntamenti elettorali. 
Naturalmente, trattandosi di vicende democristiane, c'è da sospettare che avranno strascichi in tribunale, non appena a qualcuno verrà in mente di presentare ricorso o se atti precedenti a quelli relativi a quest'assise saranno dichiarati nulli o annullati (in particolare, quelli relativi all'assemblea degli iscritti del 26 febbraio 2017, impugnati da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni, la cui ultima udienza è prevista per il 19 marzo 2019).  
Volendoci fermare ai fatti, questa volta la Dc si è data come segretario un suo dirigente del passato, che peraltro nel corso del tempo ha militato anche in altri partiti che hanno rivendicato l'eredità almeno politica dello scudo crociato, al punto da adottarlo come emblema: risultò, in particolare, tra i fondatori dell'Udc, di cui è stato anche segretario organizzativo nazionale. La candidatura di Grassi, alla fine, è risultata l'unica rimasta in campo: si era infatti presentato anche Nino Luciani (già primo firmatario della richiesta di convocazione dell'assemblea Dc e candidatosi anche allora come presidente dell'assemblea dei soci), ma all'ultimo momento sarebbe stata eccepita la mancanza di una lista di candidati a suo sostegno e non ci sarebbe più stato tempo per sanare il problema. 
La mozione approvata alla fine del congresso - così come la si legge nel sito www.democraziacristiana.cloud - rilancia l'idea di riproporre "un progetto di società nel quale i diritti di tutti vengano difesi e i doveri di tutti attuati: insomma una nuova fase costituente dei doveri", da attuare superando "le tentazioni nostalgiche accompagnate da silenziose lamentele" e considerando il partito riattivato come "una tenda, un luogo includente e aperto a tutti i democristiani, senza costruzione di confini, senza preclusioni ed esclusioni". Occorre dunque verificare in concreto la possibilità di ricostruire, sotto l’unico nome e simbolo dello scudo crociato nella memoria dei Padri Fondatori che hanno fatto la Democrazia Cristiana, l’unità di tutti i democristiani che sino ad oggi, in differenti modi e con diverse iniziative, hanno tuttavia tenuto desto il nome della Dc dopo la diaspora del 1994": ciò dovrà essere fatto aprendo innanzitutto il tesseramento "a tutti coloro che vorranno partecipare a questo progetto e assumere sul serio 'la politica come la più alta forma della carità' (Paolo VI) orientati dalla stella polare della Dottrina Sociale della Chiesa aderendo allo statuto e al codice etico della Dc".
Si sarebbe alla fine trovato un accordo per legare questo progetto a un nuovo nome, quello appunto di Renato Grassi (già scelto, peraltro, per presiedere l'assemblea del 26 febbraio 2017 al posto di Luciani), ma anche per non escludere del tutto Gianni Fontana, che fino a questo momento dell'assemblea dei soci Dc era stato il presidente, pur se ampiamente discusso da più parti. Fontana, alla fine, è stato eletto presidente del consiglio nazionale del partito (non senza polemiche e proteste, tanto da parte di chi lo avrebbe voluto ancora alla guida della Dc, quanto soprattutto da chi lo aveva sostanzialmente accusato dell'inattività del partito e di aver depositato per le politiche del 2018 un simbolo diverso da quello tradizionale, bocciato dal Viminale). 
Non è ancora dato sapere come il partito (che ritiene di essersi) riattivato intenderà percorrere la via della "ricomposizione della diaspora" democristiana, se con una federazione con altre forze o con l'invito a chi si ritiene parte della storia Dc a iscriversi al partito. Anche questa volta non mancano, a dire il vero, polemiche per lamentate irregolarità nelle convocazioni dei soci e nei congressi locali; può essere che siano superate, come può essere che si trasformino in nuove carte bollate. Tra i motivi di polemica, c'è anche la contestazione mossa da alcuni in base alla quale il sito del Nuovo Cdu guidato da Mario Tassone indicherebbe ancora Renato Grassi come titolare del dipartimento organizzativo del partito ed è possibile che lo sia stato anche al momento del congresso democristiano: ciò, secondo alcuni, comporterebbe l'ineleggibilità di Grassi alla segreteria della Dc (ma sul sito dei democristiani è apparso il riferimento alla decisione del Nuovo Cdu di azzerare le cariche nazionali già dall'aprile scorso). 
Nel frattempo, il consiglio nazionale ha deliberato di riaprire il tesseramento (sarà la direzione nazionale del 10 novembre a decidere come fare operativamente) e deciso che tutte le convocazioni degli organi del partito avverranno attraverso la posta elettronica (per non spendere altri soldi che non ci sono). In Abruzzo, peraltro, si continua a parlare della possibilità di presentare una lista unitaria da parte dell'Udc e della Dc riattivata da Gianfranco Rotondi, magari con la candidatura di quest'ultimo alla presidenza e con l'unione del nome e del simbolo storici. Una mossa che a chi ritiene di essere in piena continuità giuridica con la Dc storica non è piaciuta per niente. Sarà un'altra occasione per far sorgere contrasti?

domenica 28 ottobre 2018

La rosa nel pugno: simbolo forte, costato 60 milioni di lire

L'ultima volta che la si è vista per intero su un contrassegno elettorale, per lo meno in una competizione di un certo rilievo, è stata cinque anni fa, alle elezioni regionali in Basilicata. Eppure la rosa nel pugno, o se si preferisce "il simbolo col pugno e la rosa" - così scriveva nel 1976 Notizie Radicali - per oltre vent'anni consecutivi (più molti anni sparsi in seguito) è stato l'emblema grafico che più di tutti ha riassunto il credo e le battaglie del Partito radicale in Italia. Fu proprio nel 1976 che quell'emblema apparve per la prima volta tra le scelte offerte agli elettori (pur se in bianco e nero e dopo varie liti e scazzottate con il Pci per la conquista del primo posto sulla scheda); allora quasi nessuno, tuttavia, sapeva che quel segno grafico era stato utilizzato senza che il suo autore avesse dato l'assenso e avesse ricevuto denaro e che qualche anno dopo la vicenda sarebbe finita in tribunale.


Le prime rose

Già, l'autore. Il suo nome è Marc Bonnet, grafico e illustratore. Stando alla minuziosa ricostruzione fatta da Frédéric Cèpéde nel 1996 sulla rivista storica francese Vingtième Siècle, il disegno - che sarebbe stato conosciuto con l'espressione le poing à la rose, o anche la rose au poing e, in seguito, le poing et la rose - vide la luce alla fine del 1969, su richiesta di un militante socialista francese, Yann Berriet, e fu adottato l'anno dopo in una campagna di affissioni del "nuovo" Partito socialista, a seguito di un periodo di grande difficoltà delle forze politiche di quell'area. Fu solo dopo il profondo rinnovamento seguito al congresso di Épinay (11-13 giugno 1971), quello dal quale François Mitterrand uscì eletto segretario, che quell'emblema divenne sempre di più parte della comunicazione del Parti socialiste, fino a essere adottato come suo simbolo ufficiale. 
Negli anni seguenti, i socialisti apparvero assai più in salute, al punto che Mitterrand sfiorò la vittoria alle presidenziali nel 1974: con lui crebbe anche la notorietà del simbolo, al punto tale che proprio nel 1974 Marc Bonnet scelse di depositarlo come titolo di proprietà industriale e come segno di partito politico e l'anno dopo - il 22 maggio 1975 - ricevette 50mila franchi dal Partito socialista francese in cambio della cessione dei diritti di riproduzione della grafica "le poing à la rose". In particolare, il partito francese avrebbe avuto il diritto esclusivo, per tutto il mondo, a riprodurre con tutti i mezzi, in bianco e nero e a colori, ma l'autore - che rinunciava espressamente a ogni pretesa o azione contro i socialisti di Mitterrand per l'uso fatto in precedenza del segno - avrebbe conservato tutti i suoi diritti "con riguardo a tutti gli altri partiti socialisti stranieri o ogni altro partito che dovrà ottenere il suo preventivo assenso formale in caso di utilizzo del disegno", né il Psf avrebbe potuto cedere l'emblema ad altri partiti (esclusi quelli che avesse contribuito a fondare o cui si fosse associato).
Il simbolo della rosa nel pugno, che per una delle pubblicazioni dei socialisti francesi relativa alla loro comunicazione politica incarnava "la forza e la dolcezza, il mondo del lavoro e la qualità della vita, il dinamismo e l'innovazione, la risoluzione alla lotta e la volontà di cambiare la vita, le preoccupazioni quantitative e qualitative" era però già arrivato in Italia due anni prima rispetto all'accordo tra Bonnet e il Psf del 1975. Con tratti molto simili, infatti, era apparso accanto alla testata di Liberazione, prima quotidiano poi bisettimanale che fu pubblicato dall'8 settembre 1973 al 28 marzo 1974: la grafica della rosa - molto simile a quella francese, con la corolla senza gli spessi tratti neri di contorno e piccole modifiche anche alle foglie e al pugno - e dell'intera pubblicazione fu curata da Piergiorgio Maoloni, maestro imprescindibile di grafica (editoriale e non solo: in quel periodo era una delle figure fondamentali al Messaggero).
"Quando cessarono le pubblicazioni - ricorda Vincenzo Zeno-Zencovich, oggi ordinario di diritto comparato all'università di Roma Tre e allora tra i quattro redattori di Liberazione - si decise di trasferire il logo dalla testata al partito." In effetti, già la tessera del 1974 del Partito radicale conteneva una reinterpretazione della rose au poing, sia pure con tratti molto più fini e delicati: per quel che se ne sa, anche in quell'occasione la grafica fu opera di Maoloni. Nel frattempo doveva già esserci stato il famoso incontro tra Marco Pannella e Mitterrand, cui era presente anche il socialista Giacomo Mancini: in quell'occasione a entrambi fu offerta dal futuro presidente francese la possibilità di adottare la rosa nel pugno come simbolo, ma il Psi non era ancora disposto a rinunciare alla falce e al martello (li avrebbe ridotti, non senza polemiche, solo alla fine degli anni '70 per fare posto al garofano di Ettore Vitale, fino a toglierli con la nuova grafica di Filippo Panseca), così la rosa stretta nel pugno fu politicamente affidata ai radicali.


Se l'accordo politico non basta

L'accordo tra il Psf di Mitterrand e i radicali di Pannella (che in quel periodo del Pr era presidente: segretario era invece Gianfranco Spadaccia), tuttavia, era solo di natura politica, non certo anche civilistica: l'atto di quietanza con cui nel 1975 Marc Bonnet aveva riconosciuto il diritto del Parti socialiste all'uso del poing à la rose, infatti, aveva riservato all'autore del segno ogni diritto relativo all'uso che del disegno avrebbero potuto fare altri partiti (socialisti e non) al di fuori della Francia.  
Di certo la notorietà dell'uso dell'emblema di Bonnet in Italia avrebbe potuto essere limitata e, magari, non arrivare mai all'orecchio del creatore; la campagna elettorale del 1976 impossibile da non notare, la conquista di quattro deputati e i loro metodi ostruzionistici entrati negli annali delle procedure parlamentari diedero invece ampia risonanza all'attività del Partito radicale e anche al suo simbolo. A quel punto, fu inevitabile che la notizia arrivasse pure all'ideatore francese e che questi reagisse, per non aver potuto sfruttare economicamente anche in Italia la sua creazione. 
In effetti sarebbe bastato poco per evitare che il contenzioso sorgesse: "Pur non essendomi mai occupato di questa vicenda - ricorda ancora Zeno-Zencovich - già quando si pensò di trasferire il logo da Liberazione al partito consigliai di reinterpretare la grafica: in fondo l'idea del pugno e della rosa non era originale, era sufficiente darne una diversa lettura visiva, magari affidando la grafica di nuovo a Maoloni o ad Aurelio Candido, allora giovane collaboratore dello stesso Maoloni". Com'è noto, invece il simbolo rimase pressoché identico a quello francese, così Bonnet - dopo aver avuto contezza di ciò che stava succedendo in Italia - invitò una prima volta il Partito radicale a prendere contatti con lui per rimediare a quella situazione.
Di risposte, da Via di Torre Argentina, non ne arrivarono, così in seguito Bonnet scelse di portare la questione in tribunale. A novembre del 1979, gli avvocati italiani del disegnatore citarono il Partito radicale per aver adottato e continuato a usare il disegno della rose au poing "senza alcuna autorizzazione, usurpando e violando così i diritti del Bonnet sulla sua opera d'ingegno": si riteneva violato tanto il suo diritto morale d'autore (non era indicato il nome del creatore accanto al disegno), quanto quello patrimoniale. Il fatto che il Pr non ricavasse denaro dall'impiego del simbolo non faceva venir meno, secondo Bonnet, la lesione dei propri diritti, che dovevano essere risarciti: "il Partito socialista italiano era il più naturale acquirente dell'opera - si legge nella citazione, che tra l'altro sosteneva che con la rosa nel pugno il Psi avrebbe evitato anche ogni rischio di confondibilità con l'Unione rifondazione socialista democratica, che aveva già adottato il garofano negli anni '70 e aveva portato il Psi craxiano in tribunale -. Una volta utilizzato il disegno dal Partito radicale, non solo il Psi è un cliente perduto, ma la rose au poing di Bonnet ha un ben difficile sbocco sul mercato italiano, con conseguente grave danno per l'attore".
Chi avesse pensato a una manovra per bloccare l'attività politico-elettorale degli "scostumati" radicali in Italia, sarebbe rimasto deluso: nell'atto di citazione, infatti, si legge anche che l'idea di fare causa era sorta nella primavera del 1979, ma Bonnet aveva preferito aspettare perché "procedere contro il Partito radicale durante un periodo tanto delicato come quello elettorale avrebbe creato a controparte un inutile aggravio"; pur ritenendo di non poter tollerare oltre l'usurpazione del proprio disegno, l'autore non volle richiedere nemmeno in quel caso provvedimenti d'urgenza per tutelare i suoi diritti "per non incidere in una sfera di interessi pubblici di livello diverso da quello del Bonnet". Un gesto di fair play, quasi inimmaginabile al giorno d'oggi, ma anche una strategia per ottenere ragione più facilmente: la richiesta di inibire con urgenza l'uso della rosa nel pugno, con l'effetto sostanziale di bloccare l'attività politico-elettorale del Pr, avrebbe potuto indurre un giudice a una decisione sfavorevole proprio per non compromettere l'attività di un partito rappresentato in Parlamento, mentre la scelta di far valere i propri diritti senza chiedere ai giudici nulla di immediato avrebbe avuto maggiori probabilità di successo.

L'accordo (salato) dopo la sconfitta

Ben altra, ovviamente, fu la posizione del Partito radicale, rappresentato dall'allora segretario Giuseppe "Geppi" Rippa e difeso tra gli altri da Mauro Mellini, tra i primi deputati radicali. Per Via di Torre Argentina nella rose au poing di Bonnet non c'erano originalità e creatività, mancando a prima vista "una rappresentazione originale di un determinato contenuto di idee, sensazioni e sentimenti che dovrebbe contraddistinguere l'opera d'arte", come pure il "riflesso della personalità dell'autore", requisiti ritenuti necessari dagli avvocati per applicare la tutela del diritto d'autore. Si tratterebbe solo di un segno distintivo, dunque di un marchio, essendo dotato il disegno se non altro di capacità distintiva, ma per i radicali non era applicabile la disciplina dei marchi, non essendo in presenza di merci o prodotti. 
Di più, la novità - nell'ambito dei marchi e del diritto d'autore - sarebbe stata negata anche dall'uso incontestato della rosa nel pugno nella testata di Liberazione, iniziato nel 1973 prima del deposito fatto dall'autore nel 1974; né si sarebbe stati di fronte a un'opera d'arte applicata da tutelare, perché la legge avrebbe tutelato l'applicazione "all'industria" e comunque in presenza di originalità e novità. Da ultimo, l'uso politico-elettorale fatto dal Partito radicale sarebbe sottratto all'applicazione delle norme sul diritto d'autore o sui marchi, essendo sottoposto alle norme speciali dettate per le elezioni: queste si basano sulla "abitualità dell'uso di un simbolo come contrassegno elettorale" e sarebbero improntate "a finalità esclusivamente pubblicistiche", volte all'identificazione chiara e precisa del partito da parte degli elettori.
Per la prima sezione del tribunale di Roma, tuttavia, il Partito radicale aveva torto. Nella sentenza n. 3649/1981, decisa però alla fine del 1980 (curiosità, il relatore era Vittorio Metta: lo stesso finito molti anni dopo al centro delle cronache per la sentenza della Corte d'appello di Roma sul "lodo Mondadori"), i giudici ritennero inverato nel disegno i requisiti della creatività, intesa come "individualità della rappresentazione", e della capacità di sentire ed esprimere in modo personale un'idea: "è un disegno plastico e stilizzato allo stesso tempo; le linee sono grossi tratti essenziali, semplificate al massimo; l'insieme è armonico e rende con tutta evidenza [...] il contrasto tra la robustezza della mano e la delicatezza del fiore", il tutto con "un effetto estetico singolare, assolutamente originale, che non trova riscontro in alcun precedente". 
Il disegno di Bonnet, con tanto di firma del creatore, fu poi usato dal Psf già dal 1971, prima che dai radicali in Italia: il diritto d'autore, in ogni caso, si genera dalla data della creazione e non da quella del deposito come opera dell'ingegno. Quanto alle norme elettorali, pur imponendo ai partiti l'uso come contrassegno del simbolo di norma utilizzato, non permettono affatto "ai partiti di usurpare i diritti altrui" o di far prevalere il diritto all'uso di un'espressione artistica altrui sui diritti del creatore. Infine, pur in mancanza di un ritorno economico per il Partito radicale, l'uso fatto della rose au poing per i giudici violava effettivamente i diritti di Bonnet, per la mancanza della sua firma accanto al disegno (che, evidentemente, solo in seguito a un accordo con il creatore poteva essere omessa) e perché l'impiego da parte dei radicali non consentiva all'autore di trarre profitto dalla sua opera.
Il tribunale di Roma inibì al Partito radicale l'ulteriore uso del simbolo e lo condannò a risarcire Marc Bonnet, anche se una successiva ordinanza avrebbe dovuto stabilire l'entità della somma. Evidentemente, però, dalle parti di Torre Argentina si considerava imprescindibile quel disegno: il 17 settembre 1982, dunque, si arrivò a un accordo con il disegnatore. Questi ricevette dai radicali l'enorme somma di 60 milioni di lire, a titolo di cessione del diritto di riprodurre la rosa nel pugno in Italia. L'atto di quietanza era quasi identico a quello già indirizzato al Psf di Mitterrand, comprensivo anche della rinuncia a ogni azione contro il Pr per l'uso passato del simbolo (cosa che fa supporre che il corrispettivo pagato a Bonnet comprendesse anche parte dei risarcimenti per l'uso pregresso). Simbolo che, nel frattempo, era stato leggermente cambiato: nel 1980, il 23° congresso straordinario del introdusse il "preambolo" allo statuto (tuttora presente) e diede un segno tangibile della partecipazione del Partito radicale alla lotta contro lo sterminio per fame e guerra perseguito dai "signori della guerra" e dai "potenti del mondo e d’Italia", stabilendo nella mozione di abbrunare a lutto l'emblema fino alla sconfitta di detta politica di sterminio, "a testimonianza di pietà, di umana consapevolezza e civile dignità". 
Alle elezioni del 1983, dunque, il partito si presentò con il simbolo listato a lutto (e ancora in bianco e nero), ottenendo 11 deputati e un senatore; un risultato inferiore rispetto a quello del 1979 (18 deputati e 2 senatori), ma comunque di tutto rispetto. Chissà quanti, tra gli oltre 800mila italiani che avevano messo la loro croce sulla rosa nel pugno, sapevano che quel simbolo, solo un paio di anni prima, avevano rischiato di non vederlo più e che la sua permanenza sulle schede era costata cara; e chissà che in futuro, anche in virtù degli sforzi di quasi quarant'anni fa, non faccia di nuovo la sua comparsa sulle schede...

Si ringrazia il Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito, soprattutto attraverso Maurizio Turco, per aver fornito il materiale che ha finalmente permesso di raccontare nei dettagli questo pezzo di storia.

martedì 16 ottobre 2018

Viaggio nella Lega di Salvini, tra novità e punti fermi

Il 31 maggio 2018 Giuseppe Conte ha ricevuto da parte del Presidente della Repubblica l'incarico di formare un governo: lo compongono in gran parte esponenti della Lega (anche se ufficialmente ad avere partecipato alle elezioni è la Lega Nord) e del MoVimento 5 Stelle, due soggetti politici che il 4 marzo sulle schede elettorali erano in concorrenza e, sommando i voti ottenuti nelle urne, hanno raccolto il consenso di un votante su due (guardando ai dati della Camera). E se certamente il M5S ha manifestato una crescita del tutto rilevante, in termini assoluti e relativi, bisogna ammettere che l'incremento più significativo e meritevole di studio, dal 4,09% (e 1,39 milioni di voti, sempre considerando la sola Camera senza la Valle d'Aosta) del 2013 al 17,35% (e 5,7 milioni di voti) del 2018, ha riguardato la Lega, per la prima volta sopra a Forza Italia quanto a consensi ricevuti. Giuridicamente si tratta dello stesso partito delle elezioni politiche precedenti (anche se dal nome è sparita la parola "Nord"); politicamente, a colpo d'occhio, è cambiato molto, con la presenza elettorale del partito anche al Sud e con una collocazione non più semplicemente definibile come di centrodestra. Eppure, secondo alcuni, uno sguardo più approfondito potrebbe svelare che le cose non stanno esattamente così: gli elementi di continuità con il passato sarebbero assai più rilevanti rispetto alle differenze effettivamente apprezzabili a vario livello.
La tesi è sostenuta da Gianluca Passarelli (professore associato alla Sapienza di Roma) e Dario Tuorto (professore associato all'università di Bologna): i due politologi si sono occupati a lungo della Lega Nord in un gran numero di saggi e in una monografia pubblicata dal Mulino nel 2012, Lega & Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi. Da poco la stessa casa editrice bolognese ha pubblicato l'ultima ricerca a loro firma, intitolata La Lega di Salvini e che fin dal sottotitolo - Estrema destra di governo - mette in luce il nucleo della tesi del libro. 


Mutazioni accelerate, punti fermi mantenuti

E' opportuno sgombrare subito il campo da equivoci: i cambiamenti ci sono stati eccome, anche gli autori ne sono convinti e sanno che tutti questi passano attraverso la segreteria federale di Matteo Salvini, iniziata alla fine del 2013: "Salvini - scrivono - è stato abilissimo. Ha condotto una campagna elettorale impeccabile. Capace di risultare innovatore agli occhi e alle orecchie degli elettori, proprio perché ha innovato" anche grazie all'opera di chi ha curato la sua immagine. Soprattutto, "è stato veloce, coniugando ambizione e capacità di riempire un vuoto generatosi tanto nel partito quanto nella coalizione di centro-destra": il tramonto della leadership di Umberto Bossi (in uno dei periodi più difficili in assoluto per il partito e con la mancanza di sfidanti realmente in grado di contendere la vittoria a Salvini) e la crisi conosciuta da Forza Italia hanno permesso a Salvini di farsi strada grazie alla sua velocità e a un linguaggio diretto, riuscendo ad apparire nuovo pur essendo stato consigliere comunale a Milano dal 1993 al 2012 ed europarlamentare dal 2004 (con un crescente successo personale, come testimoniato dalle preferenze ricevute, non solo al Nord).
In effetti, secondo Passarelli e Tuorto, già Bossi aveva capito che, a dispetto del nome, non si poteva puntare tutto e solo sul Nord (al di là delle azioni per caricare la base nella campagna elettorale) se si voleva stare al governo dell'Italia, per cui già dall'inizio degli anni 2000 aveva parzialmente corretto il tiro rispetto all'azione del periodo precedente, avvicinandosi organicamente al centrodestra (e non, come da più parti si è sospettato, per l'esigenza di "disinnescare" le cause forziste nei confronti del Carroccio e della Padania e garantirsi le risorse necessarie all'attività del partito); solo dopo la fine della segreteria di Bossi e sull'onda degli scandali che avevano colpito il partito si sarebbe arrivati a formalizzare lo slogan "Prima gli italiani" (dopo il maroniano "Prima il Nord"), come passo determinante verso un'alleanza "dell'Europa delle patrie", avendo come maggiore interlocutrice Marine Le Pen. 
Nel frattempo, con il cambio di segreteria, secondo gli autori il partito muta innanzitutto all'interno, passando dall'autorevolezza e dal carisma (riconosciuto dai militanti) di Bossi all'autorità e alla popolarità (indiscutibile) di Salvini, un processo simile a quello riscontrabile proprio all'interno del Front National francese, nel passaggio della leadership da padre a figlia. Salvini di fatto si pone come unica vera figura di spicco all'interno della "sua" Lega, pur in presenza di personaggi ben noti della "vecchia guardia" (a partire da Roberto Calderoli) che però sono molto meno in luce di prima; il tutto mentre è via via cresciuta (anche prima di Salvini) la presenza leghista nelle istituzioni regionali e locali e, a dispetto del calo sensibile del numero di sezioni presenti sul territorio (segno che la generale crisi della militanza non ha risparmiato la Lega, anche per le vicende che l'hanno direttamente riguardata), si è comunque mantenuta una base solida, compatta e ben contornata da un popolo di elettori-non-militanti.   


Un partito che resta del Nord e a destra

Le ultime elezioni hanno dimostrato certamente una presenza del partito in tutte le regioni, ma per Passarelli e Tuorto si è comunque di fronte a "un partito del Nord e radicato principalmente nel Nord", che rimarrebbe comunque il centro pulsante, propulsivo (e ricco) del partito. Il terzo capitolo del volume analizza nel dettaglio i risultati elettorali leghisti e, se riconosce che alle ultime elezioni le percentuali del voto ottenute dal partito nelle varie regioni d'Italia sono state molto più simili tra loro rispetto al passato - con un "indice di nazionalizzazione" pari allo 0,71 -, sottolinea che le regioni del Centro-Sud continuano a pesare molto meno in termini di voti apportati rispetto al Nord (arrivando quasi a pareggiare il conto con i consensi raccolti in ciò che resta della "zona rossa", che però è molto più ristretta territorialmente), anche se di certo sono molto più rilevanti che in passato, essenzialmente nelle aree del Centro. Il baricentro della zona d'influenza leghista, in ogni caso, non si è spostato di molto, limitandosi a un viaggetto dall'area cremo-mantovana a quella parmigiana e, se si va a "esplodere" il risultato delle ultime elezioni politiche nei vari comuni, si scopre che è sempre nel Nord che si concentra la stragrande maggioranza degli enti locali in cui la Lega è risultata il primo partito o tra le tre formazioni più votate (con prevalenza assoluta dei piccoli comuni, mentre al Centro-Sud le proporzioni si equivalgono).    
Altri punti di cambiamento da osservare con più attenzione riguardano la collocazione politico-ideologica e il linguaggio utilizzato dalla "nuova" Lega. Per Passarelli e Tuorto "già da alcuni anni il partito ha assunto i tratti di una formazione di estrema destra, con tratti razzisti, xenofobi, politicamente e socialmente violenti": una posizione, questa, che certamente ha alla base la scelta fatta tra il 2000 e il 2001 di collocarsi stabilmente nel centrodestra, fino a raccogliere via via l'interesse e il consenso di vari elettori di destra che - dopo la confluenza di An nel Pdl - non si ritrovavano perfettamente nel nuovo partito berlusconiano e non hanno trovato altre "case" politiche (la Destra, Fli, Fratelli d'Italia). Ne sarebbe un buon esempio la cosiddetta "rivoluzione del buonsenso", applicata soprattutto in materia di immigrazione e di difesa dell'italianità (che ha portato, nella base leghista, a un recupero dei concetti di unità nazionale e patria assolutamente non immaginabile solo una manciata di anni prima): un'italianità che, però, secondo gli autori, sarebbe ancora declinata "decisamente in chiave settentrionale" ("quali e quante sono le industrie in grado di competere sul mercato internazionale difendendo il Made in Italy? Sono quelle insediate nel Triveneto, in Lombardia e in Emilia Romagna. E la stessa flat tax [...] rappresenta una soluzione che se adottata rischierebbe di enfatizzare più che di ridurre le differenze economiche realizzando l'agognata secessione non con i 'fucili' e le ampolle di bossiana memoria, ma con la divisione de facto tra le aree deboli e forti del paese").
A fronte di una netta collocazione nell'area destra della politica italiana ed europea (anzi, estrema destra, anche se probabilmente i protagonisti rifiuterebbero quell'etichetta; si veda però con attenzione il quarto capitolo che analizza anche il profilo degli elettori della Lega di Salvini e li ritrova tanto tra i benestanti quanto tra i dipendenti, li qualifica in gran parte liberisti e soprattutto "ostili e tradizionalisti" in materia di immigrazione, diritti e religione), occorre guardare con attenzione ai rapporti con le altre forze del centrodestra italiano, a partire ovviamente dai partiti nel tempo guidati da Silvio Berlusconi. Se, come si è detto, non è stata in discussione la collocazione in quell'area a partire dal 2001 (nonostante la scarsa affidabilità mostrata dal 1994 in poi, quando il primo governo Berlusconi durò pochi mesi proprio per lo sfilarsi del Carroccio e nel 1996 il partito corse da solo in pieno "estremismo di centro", come notato da Piero Ignazi) e al più si è assistito a vari tentativi di insidiare la leadership berlusconiana della coalizione, le elezioni del 2018 sembrano avere ribaltato i termini della categoria del forzaleghismo teorizzata con lucidità da Edmondo Berselli, cioè il "nordismo sbrigativo che accomuna il mondo della Lega con l'insediamento politico ed elettorale di Forza Italia". Il concetto, beninteso, cambia poco, ma qui casomai secondo gli autori abbiamo il "leghismo forzista": personalmente preferirei il "legaforzismo" perché la posizione ufficiale di Forza Italia non vorrebbe mai rischiare di "scimmiottare" Salvini, mantenendo piuttosto una sua identità; il recente caso di "Forza Salvini", tuttavia, dà ragione a Passarelli e Tuorto nel dire che anche nel partito di Berlusconi c'è chi si è fatto contagiare dalla popolarità e dall'impatto salviniani.
L'ultimo capitolo guarda inevitabilmente ai rapporti tra Lega e MoVimento 5 Stelle, i due contraenti dell'accordo per il "governo del cambiamento" qualificati dall'inizio come frères ennemis, fratelli nemici, ma che certamente condividono la natura di partito di protesta: la prima, tuttavia, presentandosi come "partito pro sistema al Nord, dove governa" in varie regioni e in moltissimi enti locali, mentre il secondo avrebbe "tratti di protesta coltivati e alimentati dal disagio", in chiave di protesta soprattutto "antiélite" e "anticasta" (tema che in parte la Lega ha dovuto riesumare, dopo averlo abbandonato a lungo nei periodi di permanenza al governo). Hanno mostrato alle ultime elezioni di avere distribuzioni elettorali quasi speculari, con un forte radicamento in una parte d'Italia (il Centro-Nord per la Lega, il Centro-Sud per il M5S) e l'aumento della presenza nelle altre zone del paese (anche se là dove il MoVimento è più debole risulta comunque più forte rispetto alle aree a minor densità leghista e gli elettori stellati sono più forti nei comuni mediograndi rispetto a quelli piccoli o grandi) e con una diversa distribuzione in base alla struttura territoriale dell'economia (la Lega prevale nelle aree con migliori performance del mercato del lavoro, il M5S in quelle con un maggiore tasso di disoccupazione). 
Sotto vari punti di vista, le due forze politiche finiscono per risultare complementari (anche e soprattutto dal punto di vista dell'elettorato) e in quella posizione hanno stipulato il loro accordo che ha portato al governo presieduto da Conte, "affiancato" da Salvini e Di Maio. Il "contratto", che appare per vari commentatori più una "dichiarazione di intenti" volta a non scontentare troppo i reciproci elettori (soprattutto per la mancanza di indicazioni specifiche sul reperimento delle risorse necessarie), per Passarelli e Tuorto mette davanti i due soggetti politici a una sfida molto delicata: da una parte, la Lega potrebbe avere da guadagnare dall'alleanza, se si dimostrasse duratura, per poter rimanere al governo, dal momento che avrebbe comunque bisogno di un alleato forte non potendo governare da sola (per cui se l'alleanza saltasse avrebbe comunque bisogno di Forza Italia o, almeno, dei suoi elettori); dall'altra parte, il MoVimento 5 Stelle dovrà essere in grado di far digerire all'ala più movimentista lo smacco dell'aver accettato di concludere un'alleanza (andando contro a quando dichiarato per anni) e di aver rinunciato a punti importanti del proprio programma a favore dei compagni di avventura leghisti, mettendo piuttosto in luce i risultati ottenuti stando al governo che non sarebbero mai arrivati dai banchi dell'opposizione. Una sfida oggettivamente rischiosa per il M5S (che potrebbe anche implodere e finire in parte inglobato dalla Lega), ma non facile nemmeno per un partito come la Lega: essa ha una lunga storia - la più lunga tra i partiti presenti sulla scheda - e una classe dirigente nazionale e locale comunque con una certa esperienza, oltre che un elettorato compatto e fidelizzato, ma potrebbe non trarre sempre giovamento dall'arroccarsi su posizioni ritenute "di destra estrema" e faticare a trovare una ricetta davvero in grado di comporre gli interessi dell'intero paese.   

La portata dei cambiamenti simbolici

Qualche passaggio del volume è dedicato anche alle questioni legate al simbolo, a partire dalle "forzature simboliche" che Salvini avrebbe attuato per mostrare in modo visibile "l'abbandono tattico della battaglia secessionista per l'indipendenza della Padania": per gli autori, "l'eliminazione del simbolo del partito" (probabilmente riferendosi al Sole delle Alpi, che faceva ancora parte del simbolo ufficiale allegato allo statuto registrato nel 2015) e "della parola 'Nord' dal nome" dovevano rendere tangibile il passaggio dall'indipendentismo al sovranismo e ai temi classici della destra nazionalista, anche se al fondo c'è la convinzione che, a dispetto delle potature grafiche e nominali, "il comunitarismo valligiano tornerà comodo quando il vento in poppa calerà".
Soprattutto, però, per Passarelli e Tuorto "non è sufficiente togliere tatticamente dal simbolo del partito il termine 'Nord' per diventare, automaticamente, un partito nazionale", perché il Nord "rimane, eccome, nel voto e nelle politiche del partito guidato temporaneamente da Salvini": posto che "la genetica politica segnala inequivocabilmente quanto sia resistente al cambiamento, soprattutto quando è mera cosmesi elettorale e non profonda revisione", accanto ai segni di discontinuità rispetto al passato, infatti, gli autori colgono altri indizi di continuità che li confermano nelle loro tesi.
Un altro simbolo in qualche modo messo da parte, pur se diverso da quelli di natura grafica, è individuato nell'incontro annuale al pratone di Pontida, che negli ultimi anni avrebbe cambiato significativamente natura pur restando abbastanza simile a se stesso: da "rito (ri)fondativo irrinunciabile che dava al suo variegato popolo l'occasione per toccarsi, contarsi e attualizzare la tradizione popolare delle origini", infatti, sarebbe poi stato celebrato con meno enfasi, affinché "non fungesse da stigma e intimorisse gli elettori più urbanizzati o a sud del Po". Una scelta, dunque, che marcherebbe una maggiore distanza da parte della base del partito, senza però rinunciare del tutto - e non solo per opportunità - al pratone, perché "rappresenta un luogo dell'anima, cui tornare e ritornare". Perché anche nel tempo della "turbopolitica" (secondo la definizione di Edoardo Novelli) e dei social network, a guardare bene, ai luoghi e ai simboli dell'anima non è stato dato il foglio di via: non a caso, Alberto da Giussano - o, comunque, la statua del guerriero di Legnano - è ancora lì, al suo posto.

domenica 14 ottobre 2018

Verso il 17° congresso di Radicali italiani: partito nuovo o nuovo partito?

Nelle pagine di questo sito mi sono occupato spesso della galassia radicale e dei soggetti politici per eccellenza che la compongono - a partire dal Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito - anche quando i rapporti tra essi si sono fatti particolarmente delicati, se non addirittura conflittuali. Ora Radicali italiani si prepara ad andare a congresso - l'assise, la numero 17, si terrà a Roma al Rome Life Hotel dall'1 al 3 novembre - e, tra le molte questioni sul tavolo, c'è inevitabilmente il rapporto con +Europa, soggetto politico che Ri ha contribuito a costituire il 10 gennaio 2018: sarà il caso di confluire definitivamente in quel soggetto politico? E' invece opportuno che Radicali italiani continui a esistere e operare come soggetto politico autonomo?
Domande di questo tipo implicano necessariamente una riflessione sullo statuto di Ri, dal momento che l'art. 1, comma 4 di quel documento fondativo recita testualmente: "Radicali italiani in quanto tale e con il proprio simbolo non si presenta a competizioni elettorali", per cui quel soggetto politico in effetti non ha mai corso ad elezioni politiche o europee (e, che si sappia, nemmeno regionali). Non a caso, a occuparsi di questo tema è e sarà la commissione statuto di Ri, sulla base di una riflessione guida proposta da Roberto Cicciomessere: vale la pena di valutare con attenzione il contenuto, traendone spunti per altre considerazioni.


Il divieto di correre alle elezioni "in quanto tale"

Prima di tutto, però, è il caso di ripercorrere in breve la nascita di questo divieto di partecipare alle elezioni "in quanto tale e con il proprio simbolo" che Radicali italiani si è autoimposto. 
La norma è stato inserita nel congresso del 2012: la proposta formalmente era del tesoriere uscente, Michele De Lucia, ma a monte era stata suggerita dal segretario uscente (poi riconfermato), Mario Staderini. Se per vent'anni - era la tesi di quest'ultimo - la Lista Marco Pannella partecipando alle elezioni aveva rivestito un "ruolo di garanzia, non solo per i radicali, in un sistema antidemocratico", mentre Radicali italiani aveva nei suoi undici anni di vita sostenuto ogni progetto politico-elettorale dell’area radicale e partecipato alla sua decisione, senza però concorrere direttamente al voto, era il caso di dichiarare "per statuto" il divieto di presentare liste con il simbolo di Ri (rendendo dunque norma quella che fino a quel momento era stata una prassi), identificandola come elemento costitutivo dell’essere radicale. De Lucia, per parte sua, sosteneva che quella scelta fosse la logica conseguenza dell’istituto della “doppia tessera” (su cui Radicali italiani è "ontologicamente fondato") e coerente con le decisioni del Partito radicale transnazionale (di cui Ri è soggetto costituente), visto che il suo statuto contiene tuttora una disposizione identica. 
L'emendamento fu approvato, ma di misura: in molti espressero dubbi perché non ritenevano incompatibile la partecipazione alle elezioni con la "doppia tessera" (che era stata introdotta nel 1967 per negare che vi fosse una disciplina di partito da rispettare, ma il Partito radicale aveva continuato a presentare liste per vent'anni) e consideravano inopportuno impedire la corsa elettorale all'unico soggetto politico dell’area radicale - Radicali italiani, appunto - cui l'iscrizione era aperta a chiunque, perché allora si sarebbe dovuta delegare ogni partecipazione alle elezioni alla Lista Pannella (che non prevede iscrizioni aperte a tutti) o a nuovi eventuali soggetti costituiti ad hoc (le famose "liste di scopo"), per cui si sarebbe rischiato almeno temporaneamente un "deficit democratico" nell'area radicale. Alla fine, sia pure per pochi voti, prevalsero le ragioni di chi rivendicava la coerenza di quella previsione con quella contenuta nello statuto del Partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartito, temendo che la partecipazione alle elezioni con il suo simbolo avrebbe messo a rischio la natura "transpartitica" che emerge anche dallo statuto di Radicali italiani (art. 2, comma 2); l'introduzione della rinuncia alle candidature per Ri "in quanto tale" non avrebbe comunque impedito ai radicali di trovare altre "soluzioni creative" per vivere le elezioni come una scadenza d’iniziativa politica (attenta, dunque, alle lotte democratiche da condurre e pubblicizzare, più che al risultato elettorale), magari presentando candidature sotto altre forme e con nomi diversi.
Finora quella disposizione è stata rispettata, anche se nel 2016 sono scoppiate molte polemiche per la decisione di presentare liste alle elezioni amministrative di Milano e Roma con la parola "radicali" in primo piano: per il Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito (e soprattutto per il suo tesoriere, Maurizio Turco), si trattava di un'operazione di "travestitismo elettorale", non condivisa all'interno della galassia radicale e non corretta politicamente e giuridicamente (ma le liste comunque si fecero e furono regolarmente ammesse, pur non riscuotendo risultati troppo lusinghieri, tra l'altro con il voto tenuto meno di un mese dopo la morte di Marco Pannella). 


Un divieto non più attuale?

Nel suo intervento introduttivo, Cicciomessere sembra fare propria la tesi del ricercatore Lorenzo Strik Lievers (che già nel 2012 si era espresso contro l'emendamento De Lucia): lui nell'ultimo Comitato nazionale di Radicali italiani aveva detto che "la teoria e la pratica del transpartito non ha mai funzionato negli ultimi 50 anni", perché nessun esponente di altri partiti che abbia avuto anche la tessera radicale (di Ri o anche, visto il riferimento agli anni, probabilmente anche del Prntt) ha mai "utilizzato il partito radicale come luogo privilegiato per fare politica", preferendo limitarsi ad aderire a singole battaglie ma restando coi piedi ben piantati in altri partiti. 
Di più, già in preparazione al congresso del 2017, lo stesso Strik Lievers aveva ricordato che non ci sono "mai state elezioni politiche in cui i radicali non abbiano cercato di avere un loro ruolo e tante volte riuscirono ad averlo, quasi sempre presentando il proprio simbolo o il richiamo all'identità radicale"; di più, nella galassia radicale Radicali italiani era stato pensato come associazione "con una specifica funzione di forza politica generale operante in Italia, non settoriale e a tema come le altre" e proprio Ri aveva deciso con lo Sdi la nascita della Rosa nel Pugno (con l'inserimento della parola "radicali" ma con il simbolo concesso in comodato dalla Lista Pannella) e con il Pd l'inserimento di candidati all'interno delle liste nel 2008. 
Dopo la sospensione degli organi statutari del Prntt seguita al congresso di Rebibbia del 2016, già prima della XVI assise di Radicali italiani si era detto che quel soggetto politico doveva essere "chiamato a una prova di maturità, e cioè a prendere atto di quello che nei fatti è sempre stato: un partito politico", così da obbligare gli aderenti "a confrontarci con quello che siamo e con la strada da intraprendere per crescere e diventare quello che vogliamo diventare", ammettendo allo stesso tempo di non essere "più l’espressione italiana e tanto meno l’unica del Prntt".
Per Cicciomessere "non è immediatamente comprensibile perché ripristinare la possibilità di RI di presentarsi con il nostro simbolo – possibilità che non costituisce certo un obbligo, così come non comporta neppure l’esclusione di liste costituite con altri simboli e altri soggetti politici – rappresenti una ferita, una discontinuità nei confronti dell’identità e della storia radicale, o neghi la natura di partito che ha sempre utilizzato la scadenza elettorale solo come strumento per affermare e rafforzare le lotte democratiche e di civiltà che ha condotto nelle piazze del paese": eliminare l'autodivieto introdotto nel 2012 "rappresenterebbe solo un ripristino di una normalità e continuità statutaria durata undici anni, a partire dal 2001".


Uno sguardo all'indietro

Per suffragare la propria tesi, Cicciomessere si rivolge alla lunga storia radicale, richiamando l'esperienza dell'unico soggetto della galassia radicale che sia finora stato sciolto: il Movimento dei Club Pannella-Riformatori, costituito nel 1994 e qualificato dall'ex parlamentare radicale come "predecessore di Radicali italiani". Quell'ente politico era nato "per coordinare le attività dei vari soggetti dell’area radicale italiana, in particolare i referendum abrogativi e le campagne elettorali" e nel suo statuto era scritto espressamente che "Il Movimento può decidere di prendere parte, in quanto tale, con proprie liste e propri candidati, alle elezioni politiche o amministrative, partecipare a intese elettorali e può anche sostenere direttamente liste o candidati – iscritti o no al Movimento – promosse o proposti da altri". 
Per Cicciomessere, dunque, abrogare l'autodivieto sarebbe "in perfetta continuità addirittura con il primo soggetto esclusivamente italiano, il cui presidente Marco Pannella fu eletto con il 90% dei voti". A onore del vero, bisognerebbe ricordare che in quella forma e con quell'esatto nome il movimento non partecipò mai: si limitò a presentare liste alle elezioni europee del 1994 con il contrassegno della Lista Pannella - Riformatori (aggiungendo una corona stellata intorno al cerchio) e a depositare l'emblema alle elezioni politiche del 1996, ma le candidature in quel caso furono presentate dalla Lista Pannella - Sgarbi, dunque con una partecipazione a "intese elettorali" previste dallo statuto del movimento.
Serie storica del voto alle liste dei radicali o da loro partecipate 
alla Camera (C) e al Parlamento europeo (E), dal 1976 al 2018
(dal sito www.radicali.it)




Soprattutto, però, Cicciomessere ha mostrato, dati e grafico alla mano, che "il movimento radicale, nel corso di tutta la sua storia politica, ha sempre ritenuto essenziale partecipare direttamente o con altre liste nella maggior parte delle competizioni elettorali nazionali ed europee, certamente per dare sbocco parlamentare alle sue battaglie di civiltà": negli ultimi 42 anni si sarebbe presentato 17 volte "in modo sicuramente non scontato, ma senza perdere neppure per sbaglio un'occasione".


Il destino della galassia e quello (giuridico) di Ri

Cicciomessere ritene più convincente la spiegazione con cui Emma Bonino al congresso del 2012 sostenne l'emendamento De Lucia (convincendo probabilmente più di qualcuno a votare a favore): Radicali italiani non poteva decidere autonomamente di presentarsi alle elezioni perché esisteva la più vasta "galassia radicale" da cui dipendeva la forza radicale e e la capacità di condurre lotte radicali transnazionali. Un'affermazione che, pur condivisibile, per l'ex parlamentare radicale non ha più fondamento: a suo dire, infatti, "oggi non esiste più la 'galassia radicale' e [...] l'associazione Lista Marco Pannella, che ha il controllo giuridico di alcuni simboli radicali della “galassia” e delle proprietà radicali, è sottoposta al controllo esclusivo di un gruppo ristretto di quattro radicali del Prntt nominati da Marco Pannella" (si trattava in realtà degli altri fondatori della lista nel 1992, ossia Maurizio Turco, Laura Arconti, Rita Bernardini e Aurelio Candido, mentre non ne fanno più parte da tempo Marco Taradash e Vittorio Pezzuto) e la stessa Lista Pannella ha "persino sfrattato Ri e l’Associazione Luca Coscioni dalla sede storica di via Torre Argentina". 
A detta sua, dunque, "nessuno può decidere la presentazione di una lista con il simbolo dell’unico soggetto radicale italiano effettivamente esistente": il che è vero, ma più per la previsione statutaria che per le altre ragioni elencate sopra (il controllo giuridico da parte del Prntt di alcuni simboli, essenzialmente la rosa nel pugno e il profilo di Gandhi elaborato da Paolo Budassi con il nome "Partito radicale" in molte lingue - attuale emblema del Partito radicale transnazionale - non rappresenta certo un ostacolo alla partecipazione alle elezioni con l'emblema di Radicali italiani).
Di più, Cicciomessere ha sottolineato - ancora riprendendo Strik Lievers - che per un partito il concorso alla scelta dei membri del Parlamento è una "nobile funzione" e per i radicali il voto ha sempre rappresentato "la possibilità di utilizzare direttamente gli strumenti parlamentari e le alleanze politiche con gli altri gruppi per trasformare in leggi i nostri obiettivi di lotta. Questo anche considerando il pensiero espresso all'Assemblea costituente dal maggior costituzionalista che si sia mai occupato di partiti, Costantino Mortati: lui sottolineò che "è nei partiti che si selezionano gli uomini che rappresenteranno la nazione nel Parlamento", dunque (come scritto in un articolo dello stesso periodo) è bene "affidare la facoltà di presentazione non a gruppi formati occasionalmente, bensì a partiti organizzati" (un pensiero che portò lui e, tra gli altri, Aldo Moro, Aldo Bozzi e Piero Calamandrei a ritenere necessario che i partiti fossero democratici al loro interno, oltre che nei rapporti tra loro). 
Questo è servito a Cicciomessere per ricordare, da una parte, che "la decisione di presentarsi e la scelta del simbolo e dei candidati" nella galassia radicale è stata "affidata a un soggetto terzo – l’Associazione Lista Marco Pannella – con uno statuto decisamente antidemocratico che affida a quattro soci ordinari nominati da Marco Pannella tutti i poteri, compresi quelli di accettare altre iscrizioni" (non è esattamente così: i quattro rimasti sono, come detto, soci fondatori e non ordinari; in più non è inaccettabile per legge che i soci esistenti non accolgano nuove iscrizioni); dall'altra, però, lo stesso militante di Radicali italiani riconosce che quella stessa associazione potrebbe non avere i requisiti per l'iscrizione al Registro dei partiti politici previsto dal decreto-legge n. 149/2013 (e non 2016 come scritto nel sito), poiché il testo richiede che nello statuto siano indicate, tra l'altro, "le modalità di selezione delle candidature per le elezioni". Cicciomessere qui coglie un problema effettivo, che probabilmente non è l'unico ostacolo alla registrazione - lo avevo già messo in luce, quasi con le stesse parole, nel mio saggio Senza rosa e senza pugno pubblicato nel 2016 da Nomos: una citazione sarebbe stata gradita, visto che il riferimento a Mortati nello scritto di Cicciomessere sembra preso pari pari da lì... - e, comunque, era già stato posto da Riccardo Magi nell'assemblea degli iscritti al Prntt del 23-24 aprile 2016 (l'ultima con Pannella ancora vivo). 

Radicali italiani e +Europa

Di certo un elemento nuovo era ed è rappresentato dalla decisione di trasformare +Europa da cartello elettorale in un vero e proprio soggetto politico a partire da gennaio del 2019: per Cicciomessere questo "solleva non pochi problemi politici, con riflessi obbligati sullo statuto di Radicali italiani e sulla sua natura". A suo dire "nascerà un vero e proprio partito quasi esclusivamente elettorale, anche per quanto riguarda le consultazioni regionali e locali, anche alla luce delle caratteristiche e degli interessi di due dei suoi fondatori, Forza Europa e Centro democratico": ciò si dedurrebbe dal disinteresse di +Europa "a prendere iniziative politiche, ma soprattutto dall'automatismo scontato della presentazione alle elezioni, che si è manifestata anche in questi giorni con l’annuncio alla stampa che +Europa si presenterà alle prossime elezioni europee del 2019", qualcosa di molto diverso dal monito che Emma Bonino aveva lanciato nelle scorse settimane (togliendo il proprio nome dal simbolo) e dalle"vibrate assicurazioni dei maggiori dirigenti radicali che non ci saremmo mai presentati alle elezioni in modo scontato, come automatismo, ma sempre come forma di iniziativa e lotta politica".
Queste osservazioni non servono tanto a Cicciomessere per delegittimare +Europa, ma piuttosto a "prendere atto che mentre a Radicali italiani è preclusa la possibilità di presentare proprie liste sulla base di considerazioni [...] a mio avviso assolutamente inconsistenti, stiamo contribuendo a trasformare un cartello elettorale in un partito elettorale che tendenzialmente avrà vita propria e in gran parte indipendente [...] con le nostre battaglie politiche, ma che in materia elettorale ci rappresenta interamente e di fatto di fronte all'opinione pubblica". Il rischio, dunque, è che - senza esserne del tutto consapevoli - Radicali italiani diventi un "soggetto titolare 'solo' di lotte e di elaborazioni politiche che demanda di fatto la sua rappresentanza elettorale e parlamentare a un altro soggetto che potrà decidere autonomamente in un congresso le sue linee politiche, sulla base della capacità d’influenza dei tre soggetti fondatori": per Cicciomessere è improponibile rinunciare alla prerogativa di concorrere alle elezioni del Parlamento, demandando di fatto tale funzione a un soggetto terzo "sul quale potrebbe non avere formalmente alcuna influenza o averne una solo indiretta e che potrebbe persino assumere decisioni politiche contrastanti" con le proprie. E' vero che Ri potrebbe non sostenere la lista +Europa mediante una delibera congressuale o del Comitato nazionale, ma questo significherebbe "buttare a mare un nostro investimento credo maggioritario di risorse umane e finanziarie (1,7 milioni di euro)" e affrontare la "responsabilità [...] di compromettere, anche se in misura limitata, il possibile successo di questa lista sostenuta da Emma Bonino e da molti altri prestigiosi compagni, consegnando all'opinione pubblica un'immagine di un partito litigioso e frazionista di cui sinceramente non sentiamo la mancanza".
Non si sa ancora quale struttura organizzativa assumerà +Europa dopo il congresso fondativo e questo evidentemente avrà riflessi sulle scelte che Radicali italiani potrà assumere: se si sceglierà una struttura federale, con i tre soggetti politici fondatori che manterranno "alcuni poteri rafforzati rispetto agli iscritti", avrà meno senso l'art. 11 sulle "modalità di partecipazione non diretta alle elezioni politiche nazionali ed europee" , non potendo ragionevolmente il segretario - e nemmeno gli altri organi del partito - intervenire ex post su una decisione in ambito elettorale presa dal partito (se non, evidentemente, marcando la distanza di Radicali italiani dalla decisione presa, ma così si ricadrebbe nel caso visto sopra); per prendere atto della nuova situazione, sostenendo che il Comitato o il Congresso possono al più delegare genericamente le decisioni circa la partecipazione elettorale al segretario (lasciando poi la determinazione finale alla maggioranza di +Europa) sarebbe comunque necessario modificare lo statuto. Ci sarebbe qualche problema in meno se alla fine +Europa fosse solo un partito di iscritti, senza più soggetti fondatori, anche se per Cicciomessere si creerebbe ugualmente una situazione di concorrenza sulle iscrizioni tra Ri e +Europa, soprattutto perché le seconde costano un quarto delle prime. In ogni caso, però, per il politico "sarebbe incomprensibile il mantenimento del divieto in capo a Radicali italiani di presentarsi in quanto tale alle elezioni, dal momento che, nello sciagurato caso di rottura con +Europa, ci precluderemmo anche questa possibilità".

Conclusioni: un partito nuovo o un nuovo partito?

Tutte queste riflessioni dovrebbero portare a chiedersi se sia più opportuno per Radicali italiani confluire nel nuovo partito +Europa e riorganizzarsi al suo interno (concludendo in sostanza l'esperienza giuridica di Ri, perché avrebbe ben poco senso continuare a esistere ma delegare di fatto la rappresentanza elettorale a +Europa) o rifondarsi e ripensarsi come un partito nuovo, visto che la galassia radicale è profondamente diversa da quella in essere anche solo sei anni fa e fare tutto questo alla luce "delle urgenze che incombono per fermare il populismo" (ma resterebbe il problema della concorrenza tra le iscrizioni ai due soggetti politici).
Al di là delle questioni giuridico-organizzative, tuttavia, per Cicciomessere il quesito di fondo è tutto politico: "+Europa può contribuire in modo significativo a contrastare l’affermazione dei populisti e sovranisti e la trasformazione del nostro sistema politico in una democrazia illiberale? +Europa può essere uno strumento elettorale efficace per guadagnare nella prossima scadenza europea percentuali significative di voto contrastando il successo della Lega e del M5S?". Per lo storico esponente radicale l'esperienza di +Europa è stata positiva, ma ammette che "non è stata portatrice di quel valore aggiunto rispetto ai partiti fondatori" su cui contava, perché non ha aggregato altri soggetti politici o personalità in grado di raccogliere consenso e iscrizioni (e sembra lontana anche la soglia del 4% prevista per le europee, come già aveva ammonito settimane fa Emma Bonino).
Per Cicciomessere, in definitiva, la soluzione migliore sarebbe mantenere in vita Radicali italiani e '"trovare il tempo e l’entusiasmo, pur tra le incombenze della campagna elettorale che impegneranno non poco tempo […], per pensare ad altro, ad una strategia proiettata nei lunghi anni di regressione democratica che ci aspettano e non solo alle prossime scadenze elettorali, con un progetto ambizioso al limite della follia: avviando con determinazione il processo per la costituzione di un Partito nuovo capace di animare la rivolta nonviolenta contro i populisti". Per l'esponente radicale occorre farsi identificare come "gli autentici sognatori del passato che sanno indicare la 'luna' che vogliono raggiungere e dimostrano che è possibile farlo, che conducono certamente battaglie politiche che si traducono in diritti civili e maggiore civiltà, ma soprattutto creano nuova cultura politica della speranza per emergere dal rancore populista che dilaga nel paese": per farlo c'è bisogno di dimostrarsi, come in passato, "maleducati, scandalosi e irriverenti contro i nuovi oppressori", testimoniando che la nonviolenza è "esercizio della forza legittima contro l'oppressore", ricomponendo "la frattura sociale tra perdenti e vincenti della globalizzazione", fornendo "risposte efficaci alle vecchie e nuove povertà" e raccogliendo "le sfide che l'innovazione e la rivoluzione industriale sollecitano" e "le storiche opportunità per un nuovo rinascimento culturale, economico e quindi politico". 
Compito arduo, affascinante e, soprattutto, difficile da adempiere passando (solo) attraverso modifiche statutarie: sarà interessante vedere come il congresso discuterà e deciderà in merito. Già che ci si è, sarebbe il caso di notare anche che nello statuto è ancora descritto il vecchio simbolo del partito, quello disegnato da Aurelio Candido, in cui non era presente l'aggettivo "italiani" e la corolla della rosa - tratta dall'antico simbolo dell'Associazione Riformatori, sempre di Candido - era abbinata a "una 'R' in carattere stampatello minuscolo conformato a 'chiocciola'": se Ri non si scioglierà, sarà anche il caso di adeguare la descrizione del simbolo (soprattutto se si vorrà tentare la registrazione del partito secondo le procedure previste).

sabato 13 ottobre 2018

Forza Salvini, una questione politica che si fa giuridica

Poi non ci si venga a dire che i simboli, in fondo, contano poco e nelle vicende dei partiti non sono poi così importanti: la vicenda di Forza Salvini, che si sta consumando in questi giorni e si è conquistata vari titoli di pagine web, dimostra che non è affatto così. Anzi, l'uso di un emblema - anche se modificato alla bisogna, scherzandoci sopra ma non troppo, soprattutto se lo scopo è far parlare di sé - può essere la molla che fa scattare un provvedimento disciplinare per il mancato rispetto delle regole interne. Una questione, dunque, di "diritto dei partiti" a tutti gli effetti, che merita di essere trattata come tale, oltre che come fatto politico..
L'antefatto, di cui qualcuno forse si era già scordato, vivendo gli ultimi sviluppi come un fulmine a ciel sereno, risale all'inizio di agosto: vari siti di informazione avevano dato la notizia della comparsa di un nuovo sito internet, www.forzasalvini.it, in cui un gruppo di aderenti a Forza Italia dichiarava scopertamente il proprio sostegno a Matteo Salvini. Nessuna accusa per essersi alleato con il MoVimento 5 Stelle e non con il partito di Berlusconi: la responsabilità dell'assenza dei forzisti dal governo è proprio loro e non del leader della Lega. E, per non lasciare nulla all'immaginazione, l'appoggio al "capitano" leghista è reso visibile con un'elaborazione della bandierina di Forza Italia, in cui al posto del riferimento al paese c'è quello a Salvini.
L'elaborazione grafica, bisogna dirlo, è stata fatta un po' in fretta: nel sito si vede bene che le lettere A, L e I sono state prese tali quali da "Italia", mentre le altre sono state aggiunte con una font diversa, ma probabilmente si voleva marcare in fretta la propria presenza online. Così si può tuttora leggere sul sito:
I salviniani di Forza Italia si organizzano nell'associazione "Forza Salvini". 
Saldamente tutti dentro Forza Italia ma assolutamente e convintamente a sostegno del leader del centro destra, Matteo Salvini, e del suo governo. 
Stiamo perdendo eletti, attivisti ed elettori per la totale assenza di un’identità politica e di un progetto. Stiamo regalando i risultati ottenuti da Salvini ai 5 Stelle ed è un errore pazzesco. 
Perché Forza Italia non è in maggioranza? Perché dobbiamo fare opposizione a Matteo Salvini che, non solo fa esattamente quello che a noi piace, ma in virtù del risultato delle politiche, è stato indicato anche da Berlusconi a Mattarella come premier da incaricare per il centro destra? 
Forza Italia dovrà esistere, vivere e crescere anche dopo Berlusconi. 
Oggi non si può prescindere dal riconoscere Salvini come leader del centro destra italiano democraticamente scelto. 
Grandissima riconoscenza e stima al Presidente Berlusconi, che è e resta un grande riferimento per tutto quanto ha fatto per l'Italia e che continuerà a fare, ma il tempo passa e bisogna guardare al presente e al futuro”. 
Non bisogna lasciare Forza Italia, che è casa nostra da sempre. Desideriamo che attivisti e iscritti siano realmente protagonisti con congressi e valorizzazione del merito. 
Il "rinnovamento" ciclicamente presentato da Berlusconi per ora è rimasto lettera morta. Vogliamo un cambiamento radicale del gruppo dirigente e per questo candidiamo le nostre donne e uomini alla guida del partito, sia a livello locale che nazionale. 
Per il ruolo di segretario politico, presenteremo alla nostra base nazionale una persona giovane, capace, preparata, in Forza Italia da anni con ruolo operativo fra gli attivisti e che ha dimostrato le qualità necessarie per guidare il cambiamento. 
Forza Italia deve andare al governo e sostenere il lavoro di Salvini e prepararsi a dare il supporto all'esecutivo quando la sinistra dei 5 Stelle vorrà rompere l'alleanza. 
Il partito deve costituire la parte più moderata, popolare e liberale di una coalizione che, con Lega e Fratelli d'Italia, rappresenta oggi la maggioranza assoluta degli elettori italiani e la coalizione di centro destra, compatta ovunque e con Matteo Salvini candidato premier, deve prepararsi a vincere le prossime elezioni politiche.
La partecipazione all'associazione "Forza Salvini", aperta a tutti i simpatizzanti, iscritti, attivisti ed eletti di Forza Italia nelle amministrazioni locali e in Parlamento, è preclusa a senatori, deputati e consiglieri regionali con più di due mandati.

Scriveva Salvatore Dama su Libero che il promotore dell'iniziativa era Pietro Spizzirri, consigliere comunale (a Spezzano della Sila, in provincia di Cosenza) e vicecoordinatore nazionale dei Club di Forza Italia (che in realtà dovrebbero chiamarsi Forza Silvio): "Siamo i salviniani di Forza Italia, abbiamo una sola bandiera e non vogliamo fondare un altro partito. La nostra casa è Fi e qui intendiamo rimanere. Siamo in una fase embrionale, stiamo raccogliendo adesioni, facendo attenzione alla credibilità delle persone che ci stanno contattando" e si sarebbe trattato di "consiglieri regionali, sindaci, amministratori e militanti".
Lì si annunciava la conferenza stampa nel giro di qualche giorno. La presentazione è arrivata l'11 ottobre nella più classica delle cornici, cioè la sala stampa della Camera dei deputati. Lì Spizzirri ha ribadito che Forza Salvini è "una rete di sindaci, consiglieri e amministratori locali che chiede un cambiamento della classe dirigente di Forza Italia, troppo distante dal base, dal popolo di Forza Italia". Nessun parlamentare ha ancora aderito, in compenso Morena Martini, sindaca forzista di Rossano Veneto, ha ammesso che "il nostro simbolo è volutamente provocatorio"; nel frattempo, qualcuno lo aveva curato meglio sul piano grafico, usando effettivamente un carattere Helvetica adeguato per scrivere la parola "Salvini" (anche se sulle bandiere circolate in quel giorno si era usata una strana forma 3D del logo tricolore). 
Se si pensava che nelle settimane scorse tutto questo fosse avvenuto senza particolari reazioni da Forza Italia, ci si sbaglia, almeno a giudicare dalla nota diffusa sempre l'11 ottobre dal responsabile organizzativo del partito, Gregorio Fontana:
Il signor Pietro Spizzirri è stato sospeso in via immediata, ai sensi dell'articolo 59 dello Statuto, dal movimento politico Forza Italia. Nonostante l'invito a non utilizzare il simbolo di Forza Italia e a non porre in essere comportamenti che violino norme statutarie, il signor Spizzirri ha continuato ad assumere comportamenti inaccettabili. Con tale atto, sempre secondo quanto previsto dallo Statuto, è aperto d'ufficio nei suoi confronti un provvedimento disciplinare davanti al Collegio dei Probiviri.
La questione, dunque, da politica si è trasformata in giuridica, attinendo pienamente al "diritto dei partiti". Nello statuto di Forza Italia non si dice esattamente chi sia titolare dell'uso del simbolo, inteso come segno identitario e di riconoscimento del partito; si dice invece, all'art. 46, comma 9, che "L'amministratore nazionale è il solo autorizzato, in sede nazionale e locale, al deposito delle candidature e all'utilizzo del contrassegno elettorale; svolge tale funzione per mezzo di procuratori speciali all'occorrenza nominati". 
Il contrassegno elettorale, ovviamente è cosa diversa, visto che riguarda solo l'impiego della grafica in occasione del voto, ma si può immaginare che chiunque avesse voluto utilizzare l'emblema avrebbe dovuto ottenere in qualche forma il consenso o dell'amministratore nazionale (che è il legale rappresentante del partito: la carica attualmente è detenuta da Alfredo Messina) o del presidente nazionale (cioè Silvio Berlusconi). E' altrettanto facile immaginare che un uso del simbolo che contempli un riferimento al leader di un altro partito (cui peraltro ora Forza Italia fa opposizione) nel cuore grafico dell'emblema, facendo pensare che Salvini possa essere la figura di riferimento dei forzisti, non sarebbe mai stato considerato accettabile dai dirigenti. Evidentemente questa condotta è stata fatta rientrare tra i "casi di particolare gravità" in cui, a norma dell'art. 59 dello statuto, "il responsabile nazionale organizzazione può decidere in via immediata di sospendere un socio dall'attività del movimento": si è dunque "aperto d'ufficio un procedimento disciplinare, nei confronti dell’interessato innanzi al collegio dei probiviri competente", collegio che dovrà esprimersi "entro 3 mesi dalla sospensione", ma prima la decisione di Fontana dovrà essere convalidata "dal comitato di presidenza nella prima riunione successiva all'emissione del provvedimento".
La vicenda giuridica, dunque, farà il suo corso; nel frattempo resta in piedi quella politica. E, se verosimilmente nessuno conosceva Spizzirri fin qui, più interessante era ed è vedere chi ha registrato il sito www.forzasalvini.it: si può tuttora notare - come del resto ha fatto per primo il sito Dagospia, con un'apposita "Dagonota" - che il nome contenuto nel registro è quello di Diego Volpe Pasini, demiurgo di SOS Italia, Prima il Nord!, nonché dell'Esercito di Silvio e - per quanto se ne sa - anche di Innamorati dell'Italia. Quale sarà la prossima puntata di rilievo?