domenica 4 settembre 2022

Alle radici del simbolo, leggendo Maggiani (e contraleggendo Serra)

Chi si occupa di simboli dei partiti e di contrassegni elettorali spesso plana da un nuovo emblema (presentato di solito con una solennità inversamente proporzionale alle emozioni suscitate) al ricordo di uno passato, da un possibile contenzioso all'ennesima puntata di scontri sulla titolarità di un fregio o sulla sua confondibilità, facendo leva sulla lettura delle disposizioni in vigore. Parlare di simboli, dunque, significa parlare di parole, che siano pronunciate, ricordate, scritte o interpretate, dando a queste significati ora a portata di mano, ora più arditi, se non del tutto azzardati e lontani da ciò che il testo suggerirebbe. 
L'ultima considerazione può generare dubbi e preoccupazioni, se è vero che "quando le parole divengono vaghe, quando smarriscono il legame con i propri significati, viene meno la possibilità di controllare chi comanda" (Gianrico Carofiglio, Con parole precise). Una materia in cui i conflitti si decidono sull'interpretazione delle 'parole della legge', per decidere cosa sia o non sia legittimo, è di per sé delicata; se poi si pensa che si dibatte spesso sul significato di concetti quali 'confondibilità', 'uso tradizionale', 'elementi di qualificazione degli orientamenti e finalità politiche' o 'presenza in Parlamento' e che la pratica non nasconde un certo margine di discrezionalità e variabilità nelle decisioni, può sorgere un senso di disorientamento, legato proprio alle parole da maneggiare (e alla loro "manomissione", di solito nel significato distruttivo che sempre Carofiglio ha dato al concetto, non in quello ricreativo-liberatorio).   
Sembra allora utile prendersi il tempo per riflettere proprio sulle parole, sul patrimonio di senso e significato che portano con sé, magari sfruttando le occasioni che si presentano. Sembra davvero preziosa quella offerta da Maurizio Maggiani, che nella rubrica "Alfabeto Forse" sul numero di Robinson (inserto culturale della Repubblica) uscito ieri affronta proprio il concetto di "simbolo", la parola per eccellenza per chi frequenta questo spazio. Vale la pena lasciare - è il caso di dirlo - la parola allo scrittore, dedicandogli piena attenzione.
 

Simbolo. Un patto eterno di pensieri e parole

Il simbolo è una cosa, un oggetto, una vita, il simbolo è materia. Materia che parla, materia fatta memoria, dal latino symbolum, ereditato dal greco symbolon, dal verbo symballo, mettere assieme, congiungere. Lo si capisce bene cos'era il symbolum perché così chiamavano i latini l’anello che si spezzava in due parti perché fosse conservato da due famiglie che avevano stabilito un patto, eterno, di amicizia e reciproca ospitalità, o tra due contraenti un affare perché servisse da impegno, da caparra; e il symbolon era la tessera che ad Atene consentiva ai giudici di essere riconosciuti all’ingresso del tribunale, avendo con quel pezzo di argilla stabilito un patto con la città e la città con loro, avevano bisogno di quella tessera anche per riscuotere il compenso dovuto per il loro giudizio. Da qui ha origine l'anello nuziale, che alla psicoanalisi da diporto fa piacere pensare come il simbolo molto esplicito della promessa e di consenso alla penetrazione, mentre non è che il symbolum, la memoria materiale di un accordo che si vuole eterno, il fatto che non si spezzi più in due ma lo si moltiplichi per due è per una questione di taccagneria e vanità, per non sprecare del materiale prezioso in un oggetto inservibile e assai difficile da indossare. Ma anche Giuseppe Garibaldi e Martin Luther King sono un simbolo; sì, perché la loro intera vita è lì a stabilire un patto eterno con il loro pensiero, le loro parole. Poi ci sono i simboli elettorali, e metterci sopra una croce vale a spezzare in due l'anello, anche se ora come ora metterci una croce sopra forse dice dell'altro.
Le poche righe offerte a lettrici e lettori da Maurizio Maggiani riescono a restituirci il "senso del simbolo" e, insieme, ci ricordano e ci insegnano - non senza amarezza - la nostra "distanza dalle stelle". In politica ai 'simboli-materia' non siamo abituati se non in poche occasioni, ad esempio quando il fregio partitico o elettorale viene stampato su un disco grande o enorme (come quello portato da Giuseppe Cirillo al Viminale per il Partito della Follia creativa), quando è realizzato o riprodotto su un pannello o su un foglio proprio per essere presentato - con l'ausilio delle proprie mani o di un cavalletto da svelare, come in un'ostensione o un'inaugurazione - a chi guarda, riprende e fotografa o, ancora, quando si fa adesivo o spilletta in vista degli appuntamenti elettorali. Non sembra un caso che proprio in queste occasioni il simbolo (e anche il contrassegno elettorale che riproduce uno o più simboli) recuperi più che in altre la sua funzione originaria di 'mettere e tenere insieme': nel suo essere qualcosa che si può toccare e maneggiare, diventa un elemento di unificazione - almeno proposta o auspicata - tra chi mostra o distribuisce la riproduzione del simbolo e chi la guarda o la riceve. Un simbolo mostrato su un manifesto o su una scenografia di un evento o di un congresso, per dire, appare meno tangibile e meno 'materiale' anche quando è di grandi dimensioni: si impone allo sguardo, certo, ma si presta meno a essere toccato e condiviso.
In più, mostrare per la prima volta un simbolo nuovo o consegnare un adesivo o una spilla contiene in sé proprio l'idea originaria dell'accordo, del patto (un termine che non a caso Mariotto Segni - con la collaborazione di Giuliano Bianucci - usò nel 1992 per la prima volta come nome di un progetto politico, per poi declinarlo in seguito in varie esperienze partitico-elettorali). Quelli, in effetti, sono momenti fondativi del patto, che si cerca di stringere con chi guarda il simbolo mostrato o con chi ne riceve la riproduzione da incollare o da indossare, un gesto simile a quello - indicato da Maggiani - dell'anello ricevuto o del ciondolo con una delle due parti del cuore indossato (anche se nel caso dell'adesivo o della spilla la fedeltà dimostrata o sollecitata in effetti è quella di chi riceve: di quella di un partito o di una lista è lecito dubitare, figurarsi della sua eternità...). Gli stessi manifesti servono soprattutto a tentare di mantenere vivo quell'accordo, magari a estenderlo a più persone, più che a fondarlo (anche se, per la persona o per la forza politica che non è conosciuta e mostra il proprio simbolo, magari con uno slogan 'di contatto', non è del tutto assente l'intento fondativo).
Se dunque l'anello (intero o spezzato) rimanda al patto e al suo contenuto, il simbolo - qualunque simbolo, materiale, grafico, tipografico o vivente - evoca qualcosa di diverso e soprattutto di più complesso, da un semplice concetto (e da quelli a questo connessi) a un intero patrimonio ideale, valoriale e culturale. Anche il simbolo di un partito o perfino un contrassegno elettorale creato ad hoc - e che guarda caso dal 1948 deve essere tondo, come un anello, e nessun elemento grafico può uscirne fuori - dovrebbe essere così: "metterci sopra una croce vale a spezzare in due l'anello", scrive Maurizio Maggiani, ma in fondo la croce spezza in quattro (come a sottintendere che in realtà il patto è con più di due parti) e allo stesso tempo, in realtà, tiene insieme quelle parti e le fa combaciare perfettamente. Ha ragione lo stesso autore nel ricordare che "metterci una croce sopra", nel gergo contemporaneo, rimanda più alla cancellazione che alla scelta, al punto da avere generato persino battute rivolte agli elettori dell'altra parte ("Non sopporti il partito Y? Cancella il suo simbolo con una croce!"); nonostante questo, tracciare la croce o il "crocesegno", come si legge tuttora in qualche sentenza o massima - rinviando al gesto, quasi sacrale, con cui le persone analfabete firmavano un documento (e in effetti i contrassegni elettorali sono diventati obbligatori in Italia proprio quando il voto è stato esteso a chi non era in grado di leggere e scrivere) - resta un gesto dal valore fortissimo, molto performativo, anche se naturalmente il peso di ogni singola croce si stempera nel mare di croci tracciate.
Sarebbe altrettanto naturale attendersi che un gesto tanto performativo - più o meno consapevole - fosse compiuto su simboli altrettanto pregiati, in grado di evocare davvero un patrimonio ricco, fatto di ideali, principi e storie personali. Arriva qui il lato più desolante e amaro, più di una volta sottolineato nel tentativo di spiegare l'evoluzione dei simboli: negli ultimi anni (specie nell'ultimo quindicennio) i simboli dei partiti e, soprattutto, i contrassegni realizzati apposta per le elezioni comunicano sempre meno, da vari punti di vista. Si è detto di frequente che molti 'simboli' recenti, basati ormai soprattutto sul lettering e sulle sfumature, sono ormai poveri di immagini evocative, nelle quali ampie comunità di persone possano riconoscersi, e non di rado manchino perfino di cura grafica o estetica. Quest'ultimo punto dispiace all'occhio, ma non sarebbe in sé un problema dirimente: i symbola delle origini - di argilla o di legno - non erano certo sempre belli o preziosi, eppure il valore dell'accordo, del patto non usciva certo ridotto o limitato.
Il problema serio è che sempre più spesso è sempre più vago e generico il contenuto del patto che con il simbolo si vorrebbe comunicare e suggellare (l'idea stessa del sigillo, tra l'altro, è contenuta in certi usi dell'anello-symbolum): un patto talmente generico e vago da essere sovrapponibile in molto o in parte ad altri e, in qualche caso, persino difficile da controllare. Sembra normale dunque - e non da professionali laudatores temporis acti - provare nostalgia e desiderio di simboli davvero in grado di mettere e tenere insieme in un patto tante persone, le loro storie e le loro idee, anche se queste magari sono opposte alle proprie; troppo spesso, invece, tocca assistere alla continua consunzione - si avrebbe la tentazione di parlare di biodegradabilità, se non si temesse di fare torto alla storia radicale, già non semplice da afferrare - di nomi e fregi che reggono assai meno di una legislatura, quasi sempre perché a essere fragile e poco consistente era il patto sottostante.  
Tra i simboli destinati a durare poco, anzi, pochissimo, ci sono quelli "di disturbo", presentati per cercare di intercettare qualche voto o anche semplicemente di danneggiare uno dei concorrenti. A pensarci, torna all'improvviso in mente - per restare sulle pagine della Repubblica, stavolta proprio del quotidiano - una coppia di "Amache" di Michele Serra del 2013 e del 2016, scritte rispettivamente all'indomani della bocciatura dei simboli che imitavano quelli presentati per conto di Beppe Grillo, Antonio Ingroia e Mario Monti in vista delle prime elezioni politiche cui il MoVimento 5 Stelle ha partecipato e dopo la presentazione della Lista del Grillo parlante a Torino (poi esclusa) alle elezioni amministrative vinte da Chiara Appendino. Nel primo articolo Serra definiva i "simboli taroccati" come, "dal punto di vista dell'etica democratica, una totale porcheria", precisando che alcuni rasentavano "il reato di truffa, o di circonvenzione di incapace": li avevano schierati "i furbastri e i goliardi di ogni risma [...], [...] gli italianuzzi astuti e profittatori che cercano di arrangiarsi come sanno e come possono, sperando che dalle urne cada qualche briciola anche per loro". Nel secondo pezzo l'autore, parlando (a sproposito) di "liste civetta" per definire quelle "che cercano di abbindolare elettori molto anziani, o molto tonti, con simboli che ne imitano altri", diceva di non riuscire a capirne il movente: "Goliardia? Dadaismo? Truffa? Esibizionismo? Che cosa può spingere uno o più esseri umani a qualificarsi da soli, inequivocabilmente, come pubblici estorsori di consensi, per giunta ai danni dei più sprovveduti? [...] Se uno detesta le elezioni, o le considera un esercizio per fessi, perché non se ne rimane a casa e si dedica ad altro? Perché iscriversi a un torneo solo per disturbare, con il proposito, già in partenza, di soffiarsi il naso con il regolamento e farsi cacciare dall'arbitro già sul nastro di partenza?"
Coglieva nel segno Serra nel definire "stravagante [...] il rapporto tra gli italiani e la polis"; assai meno, invece, nel dire che "ci sono dei momenti in cui la polis dovrebbe chiamare i vigili". Nei casi di somiglianza eccessiva o di un nome usato in maniera chiaramente indebita può starci l'esclusione del simbolo (e della relativa lista, se presentata insieme) dalla competizione o l'invito a sostituirlo, ma invocare reazioni più dure non ha senso e, anzi, è controproducente. Innanzitutto perché, come si è già scritto, ciascuno dei simboli presentati per le elezioni, più o meno legato a una lista, rappresenta una tessera di un mosaico politico e umano che finisce per somigliarci: questo vale anche quando la singola tessera ci sembra diversa da noi o non ci piace, perché ci ricorda che esistono "i furbastri e i goliardi di ogni risma" e "gli italianuzzi astuti e profittatori" di cui scrisse Serra nel 2013. Anche se c'è chi "si costerna, s'indigna, s'impegna", queste persone continueranno a esistere e a trovare nuove forme per esercitare la loro attività, alle quali è giusto non fare mai l'abitudine: piuttosto che gridare allo scandalo o alla truffa, meglio cogliere l'occasione per conoscere meglio e una volta di più il nostro modo di essere, prendendo al limite le misure necessarie e minime per affrontarlo. 
In secondo luogo, ci piaccia o no, quei simboli sono molto più chiari e "materiali" di altri che sono passati davanti ai nostri occhi nel corso degli anni. Perché, checché ne scriva Michele Serra, il movente è piuttosto limpido. Per seguire il ragionamento etimologico di Maurizio Maggiani, si tratta di una congiunzione dei moventi citati da Serra (goliardia, dadaismo, truffa - che parolona! - ed esibizionismo), con in più alcune altre intenzioni, dichiarate o almeno fatte balenare: ostacolare uno o più avversari (ritenuti a loro volta dannosi o scorretti) e allo stesso tempo offrire un'alternativa a questi (che ovviamente coincide innanzitutto con chi presenta il simbolo o la lista) e far emergere punti deboli e defaillances del sistema. 
Per quanto possa esserci un marcato sentore di furbesco, protagonistico e perfino di zolfo, si deve riconoscere che questi elementi finiscono addirittura per rendere concreto un accordo, un patto tra chi si presenta con quei simboli e quelle proposte e chi effettivamente ci mette "una croce sopra" (ammesso che il simbolo non venga bocciato prima): è come se chi cerca di candidarsi con certi simboli dicesse "Non sono quello che voglio sembrare, ma quello che imito è più farabutto di me e ti prenderà in giro più di me, se non l'ha già fatto, quindi perché non mi fai provare?". Ridurre tutto alla fattispecie di "circonvenzione di incapace", al turlupinamento di elettori "molto anziani, o molto tonti", come faceva Serra, finisce ingenerosamente per svalutare il corpo elettorale cui si appartiene (come se il voto di protesta, per esempio, fosse roba da anziani o da tonti). Certo, si potrebbero seguire altre strade per denunciare i 'bachi' del sistema e cercare di farsi strada, senza dare l'immagine serriana di chi si soffia il naso con il regolamento del torneo cui partecipa; non si dimentichi però che la tentazione di farsi granellino per inceppare un ingranaggio è fortissima, quasi irresistibile per gran parte delle italiane e degl'italiani (senza contare che proprio nel 2013 Oscar Giannino autodefinì pubblicamente la compagine di Fare per Fermare il declino come una "piccola pattuglia di rompicoglioni di professione": il simbolo era sobrio, il progetto di lista era serio, ma non finì proprio benissimo). 
Eppoi, per chiudere, bisogna ammettere che certe liste sbrigativamente definite "patacca" da chi se ne sentiva danneggiato o da certi commentatori sono durate molto di più di alcuni partiti o di alcune liste elettorali che, nelle intenzioni dichiarate dei fondatori, dovevano essere solidissime. Si pensi ai Verdi-Verdi, alla Lega alpina lumbarda (e alla sua prosecuzione, la Lega per l'Autonomia - Alleanza lombarda) e proprio alla Lista del Grillo parlante (o dei Grilli parlanti): ciascuna di queste ha operato per ben più di un lustro, a volte anche per più di un decennio, riuscendo anche a eleggere consiglieri regionali o persino parlamentari, grazie ai voti ricevuti. Troppi, francamente, per poterli bollare come dati per sbaglio o come frutto di un 'inganno elettorale': sembra più onesto ammettere che più di una persona si è ritrovata - per caso, per i pensieri di quel momento, per la stanchezza verso altre forze politiche - in linea con quella proposta e con l'immagine che la rappresentava. Così, facendo "un segno su quel segno" (per parafrasare Giorgio Gaber e Sandro Luporini), hanno stretto a loro modo un patto, per riprendere il ragionamento di Maggiani. un accordo senza la pretesa di renderlo eterno, ma soltanto di rispondere, con due tratti di matita, all'invito di chi si è presentato con quel fregio elettorale: "D'accordo, non so come ma mi avete convinto, piuttosto che non votare o dare il voto agli altri che conosco già: per stavolta, per quanto mi riguarda, potete provarci". I simboli, se si ha la pazienza di guardarli bene e di interrogarli, raccontano anche queste storie, come pure quelle di chi ha pensato "non siete gli originali, vi ho beccati e non mi faccio fregare da voi" e non li ha votati. Ecco perché i simboli sono, come scrive Maurizio Maggiani, "materia che parla, materia fatta memoria". Facciamoci un favore e, quando tutto ci sembra assurdo, ricordiamocene.

Per l'immagine che illustra questo articolo, non volendo impiegare nella rappresentazione alcun simbolo o contrassegno reale, si è scelto di affidarsi ad altre immagini di certo valore simbolico: alcuni arcani maggiori dei Tarocchi. I tarosimboli collocati sulla scheda, in particolare, sono tratti dalle immagini realizzate da Paola Fedeli per arricchire il volume Tarotelling autobiografico di Barbara Malaisi (che ringrazio di cuore per averne concesso l'uso, oltre che per avere segnalato il testo di Maurizio Maggiani).   

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