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Scheda elettorale del Bangladesh |
È sbagliato pensare che l’uso dei
simboli per identificare liste e partiti sia una specialità solo italiana: sono
ancora molti i paesi che, sulle loro schede, utilizzano qualche rappresentazione
grafica legata a liste o magari il ritratto dei vari candidati; in tanti altri
casi, tuttavia, le schede sono piene di parole, linee e spazi per le crocette,
nient’altro.
Basterebbe questo a dimostrare
che, in fondo, simboli e contrassegni non sarebbero indispensabili, ma nemmeno
poi così inutili: c’è chi si è preso la briga di censire, almeno per le
elezioni legislative nazionali, l’uso o il non uso degli emblemi (ad esempio, gli
studiosi del progetto ACE
– Administration and Cost of Elections), mostrando che ogni Stato si
regola a modo suo.
Storicamente, l’uso di un
contrassegno per indicare un soggetto o una forza politica è meno frequente nei
paesi con grado di istruzione superiore (o nei quali vige qualche restrizione,
per cui magari può votare solo chi sa leggere e scrivere), mentre è una strada
quasi obbligata nel momento in cui vengono chiamate a votare anche persone
tendenzialmente analfabete, che dunque potrebbero votare semplicemente
apponendo il segno più semplice – la croce – proprio su un emblema che possono
riconoscere: non sembra un caso che la legge italiana consenta l’introduzione
di un simbolo sulle schede (che allora erano predisposte dai singoli partiti,
ma il discorso vale anche per quelle stampate dallo Stato) nel 1912, subito
dopo un cospicuo allargamento del diritto di voto.
Oggi il livello di istruzione
degli elettori dovrebbe essere sensibilmente superiore rispetto a quello di un
secolo fa, eppure difficilmente i partiti rinuncerebbero all’uso dei simboli. Certo
è che la loro funzione distintiva rischia di essere frustrata non poco, se poi
le differenze tra le forze politiche si fanno decisamente evanescenti, fino a
non notarsi più.
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