sabato 31 gennaio 2015

Senza più stelle: le grafiche degli ex M5S

In questi giorni, con l'attenzione monopolizzata dal voto per il Quirinale, si è spenta piuttosto in fretta la notizia del nuovo esodo di massa di parlamentari dal MoVimento 5 Stelle (ma ne hanno ben tenuto conto i pallottolieristi che si sono lambiccati su numeri e maggioranze), Eppure il numero ormai è consistente: ormai tra Camera e Senato si è toccato il numero di 36 passaggi ad altri gruppi (considerando anche l'addio, da ufficializzare, di Francesco Molinari). A Palazzo Madama, volendo, ce ne sarebbero abbastanza per creare un gruppo autonomo, ma le condizioni a quanto pare non ci sono.
Nei mesi scorsi, in effetti, c'è stato più di qualche tentativo di rimettere insieme i pezzi degli ex M5S; a volte si è anche vista qualche prova di identità grafica. Questo blog si era già occupato, per esempio, di Libertà di Movimento, partita dal tentativo di candidatura alle regionali sarde, oppure delle formazioni che hanno visto impegnati Federica Salsi e Giovanni Favia; ora è tempo di guardare agli ambienti parlamentari.
Sembra ancora presto per capire se gli ultimi fuoriusciti, autoetichettatisi come Alternativa libera, si daranno un segno distintivo comune. Lo hanno fatto, invece, due gruppi che sono oggi configurati come componenti del gruppo misto al Senato. La compagine più numerosa, a ben guardare, era stata quella di Italia lavori in corso, legata soprattutto al senatore Francesco Campanella: alla nascita, il 5 maggio 2014, la componente aveva addirittura 9 membri, salvo poi perdere pezzi fino ai due oggi rimasti (lo stesso Campanella e Fabrizio Bocchino). 
Dall'inizio, il nome si era configurato come una sorta di hashtag, aperto dal "cancelletto" e con la parola Italia inevitabilmente tricolore, su fondino giallo-arancione. Se la grafica degli esordi era molto semplice, con il tempo si è cercato di tradurla comunque in un segno "elettorabile": l'etichetta è rimasta, un po' di traverso e ombreggiata all'interno di un cerchio bianco a contorno giallo-arancio, sul cui interno basso si adagia l'indirizzo del sito, come nella vecchia casa stellata. La parte grafica preponderante, però, diventa il cancelletto, piegato alla logica tricolore tanto da farlo spezzare in due metà, una verde e una rossa, decisamente in rilievo e "metallizzate". Così però sembrano due segni di "diverso" uno accanto all'altro (e forse è proprio la differenza rispetto ad altre compagini politiche che il gruppo voleva marcare), anche se qualcuno su Facebook è certo di vedere nel segno un "richiamo alla croce di Lorena".
Al momento, invece, è più numerosa un'altra componente del misto, Movimento X, cui oggi si richiamano Maria Mussini, Maurizio Romani, Bartolomeo Pepe (gà Italia lavori in corso) e Laura Bignami. Già il nome, a modo suo, è un enigma: il nome che emerge dall'indirizzo del gruppo Facebook è "Movimento ics", come se fosse la lettera appunto; la descrizione del gruppo, tuttavia, suggerisce anche altre piste ("per", "ics", "ecs", "10", etc etc: così si legge) e quindi l'interprete può avere quasi briglia sciolta.
Graficamente l'idea ha qualche spunto interessante: la parola "Movimento", scritta in un semplicissimo Times New Roman, appare in viola come su una superficie a specchio, ma la V (un po' stiracchiata) è in realtà la metà superiore di una X grande più del doppio, le cui gambe inferiori sono tinte - guarda caso - di verde e di rosso (ma il riflesso è viola come tutto il resto).
Quella forma della X, tra l'altro, consente di evitare problemi di ricevibilità elettorale, visto che almeno in un caso - la lista Noi Meridionali, alle comunali di Torino del 2006 - un simbolo che conteneva un "crocesegno" era stato bocciato, perché poteva confondere elettori e scrutatori; alle comunali di Roma del 2008, in compenso, era passato senza problemi a sostegno di Alemanno l'emblema di Cittadini X Roma, la cui croce era molto più "manualmente realistica" di quella torinese di due anni prima. Certo, la grafica di Bignami e altri non si presta ancora molto a essere inserita in un cerchio, ma chissà se in futuro tutto resterà così o cambierà qualcosa. Nel disegno o, magari, nel nome e nel progetto.

martedì 27 gennaio 2015

Il "Noi" di Della Valle (che alle elezioni rischierebbe lo stop)

Su queste pagine è già stato scritto più volte: compulsare la banca dati dell'Ufficio italiano brevetti e marchi con una certa regolarità può portare a scoperte interessanti. Deve averlo fatto anche Paolo Fantuzzi dell'Espresso, che oggi nel sito del settimanale ha sparato la sua esclusiva: è sua infatti la firma sull'articolo che parla di un marchio depositato il 16 gennaio a nome di Diego Della Valle.
La grafica, tanto per cambiare, è minimalista e senza il minimo spunto figurativo, sebbene la descrizione dell'emblema parli di "parte figurativa" per poi rimandare alla riproduzione grafica. Gli ingredienti? "Fondo giallo, scritta blu, immancabile bordino tricolore": così li descrive correttamente Fantuzzi nel suo pezzo.
Al giornalista interessa soprattutto dire - e coglie nel segno - che il claim utilizzato nel logo ritorna come un leitmotiv inesauribile negli interventi di Mr. Tod's: nelle dichiarazioni scelte a corredo della notizia, l'espressione "Noi italiani" è puntuale come un mantra, ricordando il "Noi dell'Italia dei Valori" ripetuto a suo tempo da Antonio Di Pietro e da altri del gabbiano iridato. 
La richiesta di registrazione del marchio per le classi 41 e 45, tra le più vicine all'ambito politico, sarebbero l'ulteriore riprova che qualcosa, per il patron della Fiorentina, sarebbe all'orizzonte in politica. Tant'è che lui stesso, a novembre, avrebbe detto che "bisogna votare il prima possibile". Tutto chiaro e tutto scontato? Non proprio. Perché sulla sua strada verso le elezioni il simbolo di Della valle potrebbe trovare un ostacolo con cui non aveva fatto i conti. Specialmente dalle parti del Viminale.
Il primo problema - il meno grave - può sorgere in sede di registrazione del marchio. Da tempo, come gli addetti ai lavori hanno potuto appurare, chi intende depositare un emblema politico come marchio (o, per lo meno, che appaia chiaramente "pronto all'uso" politico) finisce per litigare con l’art. 10, comma 2 del codice della proprietà industriale. C'è scritto che se il potenziale marchio contiene "parole, figure o segni con significazione politica", l’Ufficio italiano brevetti e marchi deve mandare il marchio alle amministrazioni pubbliche interessate o competenti: se sono contrarie alla registrazione del marchio, la domanda viene respinta. 
Il Ministero dello sviluppo economico non considera più come "segni con significazione politica" i simboli dei partiti, ma spesso il parere sulla registrazione degli emblemi è stato chiesto al Viminale e puntualmente ai richiedenti è stato risposto picche, per i dubbi circa l'uso che i titolari del "marchio politico" potrebbero fare sotto elezioni. Il Ministero teme che la registrazione come marchio permetta di aggirare le regole e i termini per il deposito dei contrassegni elettorali: visto che l'Ufficio brevetti e marchi non valuta la confondibilità, qualcuno potrebbe far circolare marchi simili ai simboli che finiranno sulla scheda. Ancora di più, però, c'è il timore che registrare i simboli come marchi permetta di aggirare le norme sulla propaganda elettorale: magari, dicendo che un certo emblema è utilizzato come marchio e non come contrassegno elettorale, si potrebbe fare pubblicità in tempi e modi non concessi per la propaganda. E visto che per il Viminale a identificare il contrassegno elettorale è "la caratteristica forma di cerchio", in una nota al Ministero dello sviluppo economico si precisa che il logo da registrare "dovrebbe comunque non presentare alcuna forma circolare".
Certo, Della Valle potrebbe fare a meno della registrazione come marchio, accontentandosi di usare il suo simbolo alle elezioni. Eppure il Viminale potrebbe mettersi di nuovo di traverso per tutelare chi è arrivato prima. Cioè Matteo Salvini. Perché non può sfuggire all'occhio come il "NOI" di Della Valle venga dopo il "NOI" fatto depositare da Salvini a dicembre. Graficamente l'impatto salviniano è decisamente maggiore, la scelta dei colori, delle proporzioni e degli spazi consente al messaggio testuale di emergere sicuramente meglio. Eppure quel "NOI" è il vero elemento in comune. Cambiano i colori, ma è innegabile che la parola abbia "la posizione centrale e di massima evidenza prospettica" (espressione presa dalla "sentenza Rizzo" del 2006, una delle tante pronunciate nel corso delle liti sullo scudo crociato) e, a ben guardare, anche lo stesso carattere (la font usata per Salvini è un Gill Sans, se quella di Della Valle non è identica è praticamente un clone).
Non si potrebbe impedire a Diego Della Valle - come a ogni altro - di utilizzare quel pronome nella denominazione di un suo movimento o, più semplicemente, nell'emblema. Ma, proprio per la posizione dominante della parola in entrambi i segni, qualcuno - specie se non segue la politica - potrebbe confondere i due simboli o anche semplicemente pensare che siano legati tra loro. Questo il Viminale non lo ha mai concesso: probabilmente vorrebbe evitare anche questa volta che una persona, entrata in cabina elettorale, davanti a cerchietti di tre centimetri di diametro rischi di crocettare il "Noi" sbagliato. E a evitare la confusione potrebbero non bastare i colori differenti e le dimensioni poco diverse. Ammesso naturalmente che, dopo lo scoop dell'Espresso, Della Valle voglia ancora usare davvero quella grafica.

giovedì 22 gennaio 2015

Senza statuto, niente simboli? Serve, ma fino a mezzogiorno

Capita anche questo. Può capitare che, nel bel mezzo della seduta di oggi a Palazzo Madama in cui si discute dell'Italicum e non si sono ancora spenti i fuochi delle polemiche (e dei bruciori di stomaco) legati all'emendamento Esposito, scattante come un supercanguro, all'improvviso si apra un dibattito sui simboli elettorali, grazie a un altro emendamento che - paradossalmente - non contiene nemmeno la parola "contrassegni".
Si tratta, per i maniaci dell'ordine e della precisione, dell'emendamento 1.12165: il numero dice poco, il presentatore - Ugo Sposetti, tesoriere e legale rappresentante dei Democratici di sinistra anche nella lunga fase seguente alla loro inattività politica - può dire moltissimo. Se non altro perché lo stesso Sposetti si è interessato a lungo di regolazione dei partiti (era sua una delle proposte di legge più attente della passata legislatura, la n. 3809 della Camera), pur non avendo gradito appieno la soluzione adottata circa un anno fa, tra dicembre e febbraio (infatti non la votò).
In ogni caso, l'emendamento citato si va a innestare sull'art. 1, comma 7 del disegno di legge n. 1385, che a sua volta modificherebbe il primo comma dell'art. 14 del testo unico per l'elezione della Camera (e che si applica per relationem anche al Senato, ovviamente finché il Senato esiste). Dopo la modifica proposta da Sposetti, l'articolo sarebbe diventato così (l'aggiunta è quella sottolineata, in corsivo sono le parti aggiunte o modificate dal resto dell'art. 1 comma 7):
I partiti o i gruppi politici organizzati, che intendono presentare liste di candidati nei collegi plurinominali, debbono depositare presso il Ministero dell'interno il proprio statuto di cui all'art. 3, del decreto legge 28 dicembre 2013, n. 149 il contrassegno col quale dichiarano di voler distinguere le liste medesime nei singoli collegi plurinominali. All'atto del deposito del contrassegno deve essere indicata la denominazione del partito o del gruppo politico organizzato.
Ora, a parte una piccola incongruenza formale (manca una "e" alla fine dell'emendamento o, per lo meno, una virgola che renda la frase masticabile, ma il problema non si pone), la questione sul tavolo è: vuoi partecipare alle elezioni? Allora non depositare solo il simbolo (e il programma), ma anche lo statuto. E non uno statuto qualunque, ma quello richiesto dalla legge che ha (gradualmente) sostituito i rimborsi elettorali con finanziamenti diretti e indiretti ai partiti. Che ne possono godere a patto di avere - appunto - uno statuto che contenga quanto previsto da quell'art. 3 e che abbia (particolare di peso) la forma dell'atto pubblico.

Il sole nascente di Nicolazzi

Le agenzie hanno battuto da poche ore la notizia della morte di Franco Nicolazzi, già ministro e segretario del Partito socialista democratico italiano. Di anni ne aveva 90 e per larga parte di questi aveva masticato politica. 
Agenzie e media sono pronti a ricordare la partecipazione al Psdi fin dalla sua nascita (quando si chiamava ancora Partito socialista dei lavoratori italiani), i due anni e mezzo passati alla segreteria del partito, le sue sette legislature a Montecitorio e quasi un decennio trascorso da ministro. In diversi hanno citato l'uscita di scena del politico piemontese alla fine degli anni '80 (e gli anni di poco successivi) dopo lo scandalo delle "carceri d'oro", che - pur senza avergli lasciato addosso un soldo - gli procurò una condanna per concussione e, prima, la citazione da parte di Elio e le Storie Tese sul palco del Primo Maggio 1991, all'interno di un'energica (e censuratissima) Ti amo che accomunava Andreotti, Gaspari e Ciarrapico.
Se però si parla qui di Nicolazzi, è per un motivo specifico "simbolico". Bisogna tornare agli anni in cui, mentre il Psdi continuava ad esistere (e tra il 2003 e il 2004 era passato di mano, quasi senza che i precedenti titolari se ne rendessero conto, da Carmine Simeone - successore de facto di Gian Franco Schietroma dopo la sua elezione al Csm - a Giorgio Carta), un gruppo di sostenitori del sole nascente che nel 1996 si era raccolto attorno a Luigi Preti e nel 2001 aveva scelto di ripartire politicamente con il nome molto evocativo di Partito socialdemocratico (e con un simbolo ben difficile da distinguere da quello del vecchio Psdi, specie se riprodotto in bianco e nero).
Nel 2005 era partita una causa da Carta verso Preti, accusato di avere adottato (indebitamente, ovvio) un nome e un emblema destinati a creare confusione tra gli elettori e nei media. Ci fu qualche schermaglia in tribunale (in cui ebbe ragione Carta), ma nel 2007 si risolse tutto con una transazione, così che il gruppo di Preti si impegnò ad abbandonare nome e simbolo, tornando quasi alle origini: ripresero l'emblema del 1996, quello di Rinascita socialdemocratica, salvo togliere ogni riferimento al mare da cui nasce il sole, per evitare nuove grane. 
In compenso, però, nell'anno del Signore 2006 Preti aveva chiesto al suo collaboratore ferrarese VIttorino Navarra di aiutarlo a riorganizzare anche l'area più vicina a Nicolazzi, fino a quel momento rimasto fuori dalla partita. Fu così che, per semplificare le cose e le idee, nacque il Partito dei socialdemocratici, con i raggi del sole rossi che stavolta partivano da un libro aperto, con la scritta "Socialdemocratici" sopra a tutto. Per il Viminale l'emblema era troppo simile a quello del sole nascente originale e lo si dovette cambiare, ma dopo un annetto o poco più fu il progetto Preti-Nicolazzi a bloccarsi. Arrivarono puntuali - come in politica ciclicamente accade - le divergenze tra i due gruppi, ma risolverle fu semplice: Preti e Navarra mantennero la loro Rinascita socialdemocratica, mentre il Partito dei socialdemocratici rimase a Nicolazzi e alle persone a lui vicine. L'emblema nel tempo si è conservato, più o meno, anche se pochi lo hanno visto in giro. Eppure c'era e dimenticarlo sarebbe un peccato.

mercoledì 21 gennaio 2015

Fratelli d'Italia, il futuro della fiamma a breve termine?

Formalmente, a voler essere precisi e pignoli al millimetro, il tempo sarebbe scaduto. Perché la delibera con cui il consiglio di amministrazione della Fondazione Alleanza nazionale aveva concesso a Fratelli d'Italia (anzi, al soggetto politico che ne costituiva l'evoluzione) l'uso del simbolo di An era stata chiara: la concessione non è per sempre, ma solo per il tempo limitato che era stato già individuato dalla mozione votata (con annesse polemiche) in assemblea il 14 dicembre 2013.
Quel documento, in particolare, precisava due cose. Innanzitutto "il simbolo e la denominazione di An restano, in ogni caso, di esclusiva pertinenza della Fondazione"; in più il testo della decisione continuava prevedendo la possibilità di revocare l'uso dell'emblema a Fdi "ove se ne ravvisi un impiego oltre i limiti di tempo stabiliti nella presente delibera". Facendo due più due, la fiammella dovrebbe essere rimossa - anche solo per gentilezza - dal contrassegno del partito guidato da Giorgia Meloni.
Naturalmente non è detto che l'uso non possa essere prolungato: come il consiglio di amministrazione ha preso la prima decisione sull'uso del simbolo, toccherebbe di nuovo al cda esprimersi su eventuali nuove richieste, di Fratelli d'Italia o di altri soggetti politici. E' vero che alla base della prima delibera c'era il voto dell'assemblea, ma quell'organo si dovrebbe riunire a cadenza biennale, quindi si andrebbe troppo in là: il prossimo consiglio di amministrazione, invece, è fissato per il 28 gennaio, dunque è molto più vicino.
Nell'organo, accanto al presidente Franco Mugnai, siedono Francesco Biava, Pierfrancesco Gamba, Gianni Alemanno, Italo Bocchino, Antonino Caruso, Egidio Digilio, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Maurizio Leo, Marco Martinelli, Altero Matteoli, Giorgia Meloni, Roberto Petri e Giuseppe Valentino (i nomi sono pubblicati sul sito della fondazione). Di certo Fdi non partirebbe svantaggiato: come si è visto, nel consiglio sono rappresentati i vertici del partito (Meloni, La Russa), ma ci sono anche Biava (dell'esecutivo nazionale e vicepresidente del cda), Alemanno, Gamba e Petri (membri dell'assemblea nazionale di Fdi). 
Certo, al loro fianco ci sono soggetti con una storia recente diversa, come gli ex Pdl Maurizio Gasparri e Altero Matteoli (ora in Forza Italia) o persone già legate a Futuro e libertà come Digilio e Italo Bocchino (braccio destro di Fini in Fli, ma ora direttore editoriale del Secolo d'Italia proprio su designazione della fondazione). Al momento al cda non sono pervenute richieste ufficiali di uso del simbolo, né da Fdi, né da altri; allo stesso tempo, la causa iniziata da alcuni aderenti alla fondazione per impugnare le delibere di concessione dell'emblema è ferma davanti al tribunale di Roma, in attesa di arrivare a una prima sentenza. 
Di certo, però, una decisione sul simbolo il consiglio la dovrà prendere. Anche perché, nel frattempo, a qualcuno l'idea di cercare di riunire le destre non è passata. A Francesco Storace per esempio: sul Giornale d'Italia, giusto ieri, ha ridato nuova linfa a un progetto unitario che restituisca reale rappresentanza a chi si sente di destra:

"... se sarà confermata l'impostazione che mi aspetto, la manifestazione dell'8 febbraio proposta da Isabella Rauti per l'associazione Prima l'Italia potrebbe ricominciare a farci coltivare quel sogno a cui tentammo di dar vita il 9 novembre 2013 quando proponemmo di far rinascere Alleanza Nazionale. Ci sono stati, da allora, errori collettivi, nessuno ne è stato esente. Stavolta, non si dovrebbe fare a meno di nessuno. Ecco, su questo mi piacerebbe verificare l'opinione della leader più fresca che è rimasta a destra, Giorgia Meloni. Non è più nemmeno il nome il problema di chi ha il dna connotato irriducibilmente dalla destra. Il tema e' la volontà di ricominciare da capo. Anche in un contenitore nuovo o in quel che c'è, ma con tutti. Ci sono decine di milioni di italiani, ormai, senza rappresentanza. Siamo titolari di un'identità fortissima che non merita la dispersione: perché non riprovarci senza stare ad angosciarci sui partners, gli alleati, i componenti della coalizione? Prima noi, poi si discute se ci devono essere alleanze".

Ora, la Rauti (moglie di Alemanno) fa parte anche dell'esecutivo nazionale di Fdi, quindi quella di Storace - che di fatto aveva avvicinato la Destra a Forza Italia - sembra davvero una mano tesa. E, fiamma o non fiamma, potrebbe nascere qualcosa; posto che l'8 febbraio si dovrebbe già sapere se il simbolo di Fratelli d'Italia resterà lo stesso o dovrà essere più leggero.

martedì 20 gennaio 2015

Torna Mastella coi Popolari per il Sud?

Da alcuni giorni i media ne parlano con insistenza, come quando si vuole sottolineare un grande ritorno. Eppure non lo è. Perché Clemente Mastella, in realtà, non se n'è mai andato davvero. Al più è rimasto più silente, nei periodi più difficili in cui il suo nome era legato a inchieste giudiziarie più che a dichiarazioni e gesta politiche. Ora che invece è arrivata un'archiviazione dopo due assoluzioni, si può di nuovo parlare di politica (non che con la candidatura alle ultime europee con Forza Italia si parlasse di altro, ma tant'è).
Morale, i giornali si precipitano a dare notizia dell'inaugurazione della nuova segreteria politica mastelliana a Benevento. Un'inaugurazione anomala, perché al momento il soggetto politico non ha un nome definito e nemmeno un simbolo. Il Fatto Quotidiano, al pari di altre testate, un nome lo fa: quello dei Popolari per il Sud. Che forse è il quinto partito fondato da Clemente da Ceppaloni (dopo Ccd, Cdr, Udc e Udeur), ma non sarebbe nuovo. Perché l'ultima declinazione del Campanile, in realtà, era spuntata già nel 2010, quando Mastella - mettendo per un po' da parte il suo Udeur, comunque presentato alle regionali campane - scelse di sfoggiare un nuovo nome. E se i "Popolari" c'erano già (dopo il passaggio da Alleanza popolare), l'aggiunta della connotazione spaziale voleva caratterizzare a fondo la formazione, indicando allo stesso tempo il radicamento, nonché l'oggetto e il fine dell'impegno.
E' proprio Mastella in persona, però, a sfumare tutti i contorni della sua ripresa politica: battezzandola come "modesta esperienza locale", tiene a precisare che il simbolo e, a monte, il nome non sono ancora definiti. Da cosa dipendono questi dubbi? "Dipende se vengono altri con me", spiega, avendo comunque pronto il piano b in caso di ingressi scarsi: "Altrimenti rimane lo stesso".
Di certo, oltre alla collocazione a fianco di Stefano Caldoro nel centrodestra, ci sarebbe solo la vocazione locale del soggetto politico: "Si avverte l’esigenza - si legge sempre sul Fatto - di un partito territoriale che dialoghi con la gente e che rappresenti un punto di riferimento certo nella crisi dei partiti". E, anche visivamente, quale punto di riferimento migliore di un campanile svettante?

mercoledì 14 gennaio 2015

Fronte verde: "Noi con Salvini? Noi no!"

Il varo di Noi con Salvini nelle scorse settimane aveva reso spontaneo interrogarsi sul destino delle alleanze che determinate forze politiche non radicate nelle regioni settentrionali avevano stretto con la Lega Nord nei mesi scorsi: il discorso valeva in particolare per il Fronte verde guidato da Vincenzo Galizia
E' lo stesso leader del movimento, tuttavia, a escludere categoricamente un percorso comune tra la sua formazione e la nuova creatura politica legata a Matteo Salvini. "Da più parti - spiega in una nota - mi viene domandato se siamo alleati della Lega Nord o se facciamo parte del nuovo soggetto politico lanciato dal segretario leghista Noi con Salvini, e la mia risposta è sempre la stessa per entrambe le domande: No!"
E' lo stesso Galizia a ricordare come alle elezioni europee dell'anno scorso il Fronte verde avesse stretto un accordo con la Lega: "Era stato stipulato sulla base di alcuni punti in comune, due in particolare: l'Europa dei Popoli e la lotta all'euro, ma questa alleanza era valida per la sola tornata elettorale europea". La collaborazione successiva alle europee, invece, non ha mai trovato concretezza. Per varie ragioni. 
I motivi più rilevanti li specifica la guida del Fronte verde: "la totale assenza leghista di una politica seria in ambito ecologista ed ambientalista; la mancata rinuncia da parte della Lega ad ipotesi secessioniste; un progetto nebuloso e non di ampio raggio, reale e credibile per il rilancio dell'Italia; un simbolo da partito personale del nuovo soggetto politico per il centro-sud, senza alcun richiamo all'identità o al territorio". 
Nel "Noi" del nuovo gruppo salviniano, dunque, non sarà incluso il partito che si contraddistingue con un arciere. Che punta il proprio arco altrove: "Prossimamente - conclude Galizia - lanceremo il nostro progetto politico alternativo e la nascita di un'ampia confederazione di soggetti politici che abbiamo a cuore i diritti dei cittadini, la difesa della natura e dello stato sociale". Non al fianco di Salvini, ovviamente.

sabato 10 gennaio 2015

Franco Greco, il primo che ci mise la faccia

Ormai, nell'epoca della comunicazione visiva e dei selfie, non fa quasi più effetto sentir dire da qualcuno "Ci metto la faccia": può anche essere un'intenzione genuina, gli si può pure credere, ma nessuno ci farà troppo caso. All'inizio, invece, qualche impressione la faceva eccome, anche e soprattutto in politica.
Con il senno del poi, l'idea che qualcuno possa fare del proprio volto un emblema politico può persino far sorridere; se si arrossisce, casomai, è solo per colpa della grafica, che oggi appare del tutto improbabile (e poco gradita all'occhio). Chissà però cos'avranno pensato gli occhi che, nel 1994, hanno visto spuntare per la prima volta sulle schede la Lista Franco Greco, con tanto di faccione (si fa per dire, in due centimetri di diametro) del candidato propugnato.
L'avevano visto in pochi, essenzialmente nel collegio di Siracusa, ma in quella terra quel volto in politica era ben noto. Perché Francesco Greco, detto Franco, classe 1942, avvocato per professione conclamata, a Palazzo Madama c'era stato la bellezza di undici anni. Eletto per la prima volta nel 1983, era entrato con il Partito socialista italiano di Craxi; due anni dopo, eccolo fare il suo ingresso nel gruppo del Pci, arrivando addirittura - nel periodo 1987-1992 - a essere membro dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. Nella nuova legislatura fu parte del gruppo del Pds, ma negli ultimi tre mesi passò al gruppo misto. 
Qualcosa doveva essersi incrinato tra l'avvocato - che, nella foto della "Navicella", aveva barba e chioma fluenti - e la Quercia; sta di fatto che al Senato, a Siracusa, i Progressisti candidarono un suo cognonimo, Paolo Greco. Non aveva fatto i conti con Franco, che - appunto - ci mise la faccia e con quella candidò tale Elio Tocco, che comunque raccolse quasi 8200 voti e, con il suo 6,78%, prese quasi cinque punti in più del Psi che correva con il simbolo (graficamente brutto) della rosa.
Il contrassegno cenne depositato altre due volte al Viminale: stesso fondo verde-azzurro (cambiava solo la posizione e il corpo della scritta) e stessa foto in bianco e nero con terrificante giacca pied de poule e camicia aperta sul collo (mutava solo lo "zoom" sul volto). Alle elezioni politiche l'emblema non sopravvisse alla fine dei collegi uninominali (pur presentandosi almeno una volta alle provinciali di Siracusa nel 2003); in compenso fu il primo - almeno nella storia degli emblemi a colori - a scegliere di mettere la propria foto sul contrassegno, arrivando addirittura prima di Mirella Cece, che avrebbe atteso le elezioni europee di quello stesso 1994 per presentare il suo "Sacro Romano Impero Cattolico" (non ancora liberale), mentre alle politiche aveva presentato "solo" il suo Movimento europeo liberal-cristiano "Giustizia e libertà".
Parlando di giustizia (e senza voler fare torto a Mirella), tuttavia, bisognerebbe dire che nel 1992 - il primo anno di elezioni a colori - in realtà qualcuno la sua faccia l'aveva già messa, in qualche modo. Perché - benché l'immagine fosse concepita più come un'opera d'arte che come una foto - era pur sempre il viso di Moana Pozzi quello che appariva nel cuore del Partito dell'Amore messo in campo da Mauro Biuzzi. Dopo di lei (e dopo Franco Greco e la Cece) altri visi sarebbero piombati sull'agone politico, spesso altrettanto sorridenti, ma certamente con meno glam rispetto alla potenza dell'Icona Pozzi.

giovedì 8 gennaio 2015

Simboli fantastici (3): "il buco col partito intorno" del listone Balasso

Si era conclusa sotto il segno di un salvagente (quello del finto candidato unico Proloche) la scorsa puntata dei simboli veri di partiti immaginari; si riparte da un altro salvagente per la nuova storia, anche se da un candidato individuale si passa stavolta a un vero partito, anzi, un listone. Il Listone Balasso.
Il contesto è sempre quello dei programmi di satira, anche se si cambia campo: dalla Rai (anzi, la Raitre di Angelo Guglielmi) di Tunnel si fa un salto lungo sette anni fino a Mediaset (anzi, Italia 1) e al suo programma di comicità più longevo, Zelig. Il candidato di punta questa volta aveva il volto - un po' stranito e circospetto - del bravissimo attore Natalino Balasso. Che nella finzione era sempre un attore, sì, ma di un genere decisamente di niiichia, come diceva lui con accento marcatamente rovigotto. Nel senso che faceva film hard, anzi, "porno", come teneva a precisare di fronte all'interlocutore-spalla Claudio Bisio. Film, peraltro, in cui lui assumeva spesso ruoli passivi (dovendosi regolarmente "inchinare alle esigense della produsione", cioè della casa cinematografica Lurido Film) e, per giunta, gli veniva puntualmente cambiata la voce: memorabile la sua campagna contro il doppiaggio, "è un scaaaandalo! E' una vargoooogna!"
Erano i tempi in cui Zelig era ancora un programma quasi di nicchia (anzi, di niiichia), visto che andava in onda in seconda serata e non sulla rete ammiraglia berlusconiana. Fatto sta che - fin dalla prima puntata in cui venne proposto - il tormentone "VotaBalasso! VotaBalasso!" contagiò tutti gli appassionati, quasi quanto il VotAntonio! di Totò. Fu lo stesso attore ad annunciare la sua entrata in politica "veramente falsa" - guarda caso nel periodo che precedeva le elezioni politiche dei 2001, com'era avvenuto con Proloche nel 1994 - e accennando anche a una scelta simbolica rivoluzionaria
Balasso: Abbiam fatto la lista! La Lurido Film ha fatto la lista: Listone Balasso!! VotaBalasso! VotaBalasso! 
Bisio: Ma c'era bisogno di avere un altro cespuglietto, chiedo io... 
Balasso: Ma no, ma questo no è il solito cespugliéto, caro Bisio. Noi sappiamo che nea politica italiana è rimasto come... un grosso VUOTO al centro, no? E allora noi... come lo vogliamo riempire questo vuoto, ah? Con la solita margheritina? Un garofanino? 
Bisio: Noooo! 
Balasso: Eh, coi rametti d'ulivo? 
Bisio: Noooo! 
Balasso: Per riempire questo buco, ci vuole un segnale forte, il tronchéto dela felicità!!!! VotaBalasso! VotaBalasso! 
Bisio: Noooo! Lo sapevo! Il tronchetto della felicità... Non essere volgare eh? 
Balasso: E' il simbolo del nostro partito, ah? Non abiamo trovato di meglio, non è che abiamo tanti fondi... ansi, se ci fosse qualche creativo in ascolto... 

  

Rielaborazione del logo
di Antonio Mercuri (da video)
E qualcuno ci si mise sul serio ad ascoltare l'invito del Balasso nazionale, visto che in una puntata di poco successiva - scartate altre idee come l'obelisco o, restando in ambito sempre fallicovegetale come il Carciofone o il "Carotone Balasso" - tale Antonio Mercuri mandò una "imail" alla redazione di Zelig, mostrata davanti alle telecamere da Balasso: la sua proposta salvava l'idea del tronchetto - che solo per i maniaci del verde è noto come Dracaena fragrans - e del Listone, riconducendo però il tutto a un nuovo nome-slogan decisamente eloquente, "Centro dentro".
L'idea non poteva che fare sorridere, ma non ebbe seguito: venne avanti piuttosto l'idea di Sandro Simone e Silvio Pagliara, artefici del blog satirico Bengodi.org (ancora in opera a un nuovo indirizzo), che lanciarono una vera campagna politica, "Natalino Balasso for President", con un claim convincente: "Vogliamo aiutare Balasso a entrare in politica, prima che la politica entri in lui". 
Da lì nacque di tutto: battute, immagini, fotomontaggi, payoff, banner, idee per manifesti... Soprattutto però nacque il nuovo simbolo del Listone: il salvagente, appunto, con al centro il viso perplesso e un po' preoccupato di Balasso. Un'immagine che il Viminale non avrebbe apprezzato molto (a meno che, beninteso, salvagente e corda fossero del tutto ricomprese in un cerchio), ma che rappresentava in pieno il nuovo motto coniato per l'attore-candidato: "Il buco col partito intorno". Il calco delle caramelle Polo era evidente, ma qui c'era da sbellicarsi dalle risate. E chissà che faccia avrebbero fatto, i creatori, scoprendo che nel 2001, alle elezioni per i rappresentanti studenteschi alla Consulta provinciale, uno studente di un liceo emiliano aveva schifato le altre opzioni, preferendo di gran lunga scrivere "Balasso Natalino" e mettere una croce a fianco...

venerdì 2 gennaio 2015

Green Arrow e Robin Hood: l'evoluzione del Fronte verde

In Italia il punto sembra abbastanza chiaro da vari anni: pensare che gli ambientalisti stiano solo a sinistra nello schieramento politico è un errore, che non tiene conto di sensibilità affini, presenti (o per lo meno rivendicate) in altre aree. E se all'inizio della storia politica delle Liste verdi - era il 1985 - uno dei promotori, Alexander Langer, aveva sottolineato che "gli ecologisti non sono né di destra né di sinistra", il tentativo spinto di bipolarizzazione della politica italiana (e non solo) ha portato i Verdi a schierarsi con convinzione a sinistra, altri non hanno condiviso quella scelta. 
Si è già visto tempo fa come questo abbia portato alla nascita, tra gli altri, dei Verdi Verdi dell'orsetto, dei Verdi liberaldemocratici dell'anemone e ad avventure grafico-elettorali rocambolesche (come alle europee del 2004 e alle regionali dell'anno dopo). Tra le formazioni che non si riconoscono nel solco tracciato dai Verdi, va considerato anche il Fronte verde, nato alla fine del 2006 (ma l'assemblea costitutiva è datata 20 gennaio 2007) per iniziativa del romano Vincenzo Galizia
La formazione si proclama assolutamente esterna ai poli, anche se qualcuno non è d'accordo: Roberto De Santis, da anni impegnato in progetti politici ecologisti non a sinistra (dai Verdi liberaldemocratici agli Ecologisti), bolla quel raggruppamento come "un piccolo raggruppamento ideologico di estrema destra", frutto di "un’operazione trasformista", visto che Galizia è stato presidente della Gioventù nazionale della Fiamma tricolore. 
«Molti di noi provengono dalla destra sociale, dal Fronte della gioventù, – ammette lo stesso Galizia – ma nel nostro movimento, essendo indipendenti e autonomi, c’è di tutto: ex missini, ex comunisti, ex socialisti, ex Forza Italia, ex Margherita, ex Verdi… Nasciamo a destra ma ora siamo indipendenti al 100%."
All’inizio il Fronte verde si distingue con una freccia verde a forma di V, con un piccolo tricolore. Alle elezioni del 2008 la striscetta migra da una parte all’altra del cerchio, ma l’anno dopo l’emblema è stravolto: lo sfondo si fa verde e, in mezzo, spunta la corolla di un girasole, in Europa simbolo dei Grüne. 
Il nuovo simbolo, però, alla Federazione dei Verdi non piace nemmeno un po': la scritta "Verde" su fondo verde e il girasole giallo (che in piccolo può sembrare un sole) per il partito di Grazia Francescato confondono gli elettori. In più stavolta i Verdi si presentano in Sinistra e Libertà e il sole ridente quasi sparisce nel contrassegno, per cui la confondibilità sarebbe quasi assicurata. 
Il Viminale in prima battuta ammette l’emblema, mentre la Cassazione - dopo l'immediato ricorso dei Verdi - lo stronca: troppo rischiosi il fiore giallo su fondo verde e la parola "Verde" in evidenza, il rischio di confusione c'è tutto. Galizia allora riprende il simbolo del 2008 e nessuno, a quel punto, si lamenta più.
Nessuno naturalmente protesta nemmeno quando, nel 2011, l’emblema viene rivoluzionato di nuovo: nel cerchio bordato di verde appare il disegno di un arciere di gusto piuttosto risalente, un po’ Robin Hood e un po’ Freccia Verde (il Green Arrow dei fumetti), sopra a una banda tricolore ondulata, con il nome ben visibile, stretto tra essa e il segmento inferiore verde. 
"Il logo – mi aveva spiegato Galizia – unisce il fatto di vivere a contatto con la natura, come Robin nella foresta di Sherwood, con la difesa dei più deboli: per noi è il simbolo ideale, nel nostro programma i punti principali sono l’ecologia e la difesa dello stato sociale e dei cittadini". 
L’ultimo ritocco grafico pesante è arrivato dopo le elezioni del 2013: l’arciere ora guarda a sinistra, ha barba e capelli biondi e il disegno si semplifica; dalla grafica dettagliata da fumetto si passa a quella moderna, a colori piatti e nitidi. Alle elezioni a Fiumicino, tra l’altro, il gruppo sostiene Esterino Montino del centrosinistra. "Noi – precisa Galizia – guardiamo ai programmi e alle persone: appoggiamo chi è vicino a noi al di là di destra e sinistra."
La peregrinazione simbolica, tuttavia, non è finita: pare quasi che l'emblema sia stato sottoposto a un continuo labor limae, quasi a voler ottenere il miglior risultato per gradi, togliendo o aggiungendo per sperimentare la resa grafica.
Così, nel contrassegno depositato al ministero dell'interno all'inizio di aprile del 2014 in vista delle elezioni europee, viene tolto il segmento verde in basso, per fare più spazio al nome, visibilmente ingrandito. Tempo una decina di giorni e viene sfornato quello che, a detta dello stesso Galizia, dovrebbe essere il logo "finalmente definitivo": a occhio le modifiche sembrano minime, ma la parola "Verde" guadagna non poco in visibilità, l'arciere occupa quasi metà del simbolo e al legno dell'arco spuntano le foglie. 
"L'intenzione è dare un richiamo in più alla natura, alla foresta", spiega Galizia, che nelle settimane successive ha stabilito un accordo con la Lega Nord e con Matteo Salvini, sui seguenti punti di programma: "la battaglia contro la Banca Centrale Europea e l’Euro, per un’Europa delle Patrie e dei Popoli, libera dalla schiavitù della BCE, che sostenga e sviluppi la green economy e le fonti rinnovabili, che lotti contro gli OGM e difenda il made in Europa". Chissà come andrà ora, dopo l'inizio dell'espansione del progetto salviniano al centrosud: anche il Fronte verde giocherà la partita?

giovedì 1 gennaio 2015

Se nel Mugello Di Pietro avesse affrontato il Gabibbo...

Nel 1997 erano già note e quasi rodate. Le avevano chiamate "elezioni suppletive" perché servivano a eleggere un nuovo deputato o senatore di un collegio uninominale, quando il titolare originario del seggio si dimetteva (magari per passaggio ad altro incarico) o - Dio avendolo in gloria - passava a miglior vita. 
Nella lunga stagione precedente delle preferenze (e in quella successiva - e ingloriosa - delle liste bloccate) non c'era bisogno di quell'istituto: bastava pescare il primo o la prima dei non eletti nella lista; vigente il Mattarellum, invece, non c'erano liste da far scorrere, bisognava per forza rivotare solo in quel collegio.
Nell'anno di grazia 1997 c'era appunto bisogno di richiamare alle urne gli elettori del Mugello, dopo che il pidiessino Pino Arlacchi aveva lasciato il seggio del Senato per diventare vicesegretario generale dell'Onu. Verrebbe fin troppo facile ricordare che il 9 novembre 1997 si consumò l'epico scontro tra Antonio Di Pietro, candidato dall'Ulivo e uscito vincitore dalle urne, e la coppia molto giornalistica di avversari Sandro Curzi e Giuliano Ferrara, che quasi aveva oscurato il quarto candidato, il leghista Franco Checcacci (peraltro l'unico toscano della banda). 
I riflettori erano puntati su di loro, ma simbolicamente c'era poco di rilevante, visto che Di Pietro, Ferrara e Ceccacci erano candidati con i loghi ben noti dell'Ulivo, del Polo per le libertà e della Lega Nord; più interessante, allora, il contrassegno di Curzi, con l'Unità a sinistra simboleggiata da falce e martello rossi sotto un arcobaleno leggermente asimmetrico. Gli elementi più stimolanti, in realtà, sono comparsi essenzialmente tra simboli che poi non sono finiti sulla scheda, per le vicende più diverse.
E se le candidature di Di Pietro, Curzi e Ferrara venivano da lontano (l'ultima, quella del direttore del Foglio - e dimissionario da Panorama - era stata resa nota il 15 settembre 1997), nessuno dei tre protagonisti poteva immaginare che sarebbe spuntato un altro concorrente davvero ingombrante: ignoravano del tutto che il 18 settembre sarebbe nato nientemeno che il Partito del Gabibbo. Proprio lui, il pupazzone di Striscia la Notizia, che il 27 settembre se ne sarebbe uscito con un claim irridente, non a caso firmato da mastro Antonio Ricci: "Più populista di Di Pietro, più Calvo di Curzi e certamente più rosso di Ferrara: se proprio dovete votare un gabibbo, votate quello vero!"
Non sapevano, i tre protagonisti (e il leghista Checcacci), che in quel giorno di metà settembre inoltrata si erano trovati in un luogo imprecisato dodici curiosi figuri, a partire da mastro Ricci (il primo che risulta dall'atto costitutivo): al suo fianco, tra gli altri, il disegnatore livornese David Lubrano, l'autore Max Greggio, Dario Ballantini (impagabile clonatore di Valentino e, in seguito, di Gianni Morandi), il comico Gianni Fantoni, la voce del Gabibbo Lorenzo Beccati (non a caso eletto portavoce del partito) e, naturalmente Gero Caldarelli
Da lui non si poteva né voleva prescindere, trattandosi della persona che dall'inizio veste letteralmente i panni del Gabibbo: non potendo certo essere candidato un pupazzo, il nome del candidato sarebbe stato il suo (anzi, quello originale secondo anagrafe, cioè Giorgio). Il primo compito del partito? "Promuovere e sviluppare attività politiche finalizzate alla propagazione dei principi libertari, contro ogni forma di autoritarismo e di inquinamento ideologico ed ecologico, in difesa dei ceti sociali più deboli, delle minoranze e in affermazione della fratellanza tra i popoli". 
Fu così che, per rappresentare il partito e per tentare di raccogliere le mille firme necessarie per giocare seriamente la partita, Caldarelli il 28 dicembre apparve a Scarperia indossando il suo inconfondibile costume, probabilmente non accennando l'ormai vecchietta Fu Fu Dance (pietra miliare firmata nel 1995 dalla banda di Striscia, tormentone nato dal gesto più parodiato di Massimo D'Alema), ma senza lasciare a bocca asciutta i presenti. Accompagnato dalle Veline, raccolse solo 39 firme, ma concesse centinaia di autografi, soprattutto a chi era troppo piccolo per poterlo sostenere e votare. 
Era meno entusiasta (con ragione) Gian Franco Schietroma, segretario del Psdi, perché l'emblema del partito del Gabibbo era assai debitore del sole nascente socialdemocratico: "I tentativi di scippo ai danni dei socialdemocratici ormai sono di moda - si affrettò a dichiarare - Dopo il Pds che cerca di soffiarci l'idea, ora ci si mette pure il Gabibbo Passi per D'Alema, perché saremo davvero lieti se diventasse sul serio socialdemocratico, ma del Gabibbo sinceramente preferiamo le sue divertenti sortite a Striscia la notizia". 
Aveva reagito decisamente peggio Franco Corbelli, leader del Movimento diritti civili e candidato dall'appena ricostituito Partito liberale di Stefano De Luca. Quella battuta del pupazzone ("se proprio dovete votare un gabibbo, votate quello vero!) lo aveva irritato al punto da presentare una querela: "Mi ritengo offeso dalla volgare battuta di Ricci. Gabibbo vuol dire sciocco, ma sciocco sarà lui e chi lo circonda, lo blandisce e lo venera come una divinità, non certo il sottoscritto", prima di sciorinare il suo curriculum di battaglie per i diritti civili. 
Si incaricò il porta-voce del Gabibbo, cioè Beccati in persona, di spiegare la vera origine del nome del pupazzo, come storpiatura dei nomi dei portuali arabi che arrivarono a Genova tra '400 e '500 ("Sciocco in genovese si dice besugo, non Gabibbo"); Corbelli rilanciò, rivolgendosi al Garante per l'editoria e addirittura a Silvio Berlusconi, per ottenere che il pupazzo interpretato dal suo concorrente sparisse dal video ("Striscia sta ridicolizzando con la trovata del 'candidato-pupazzo', tutti gli altri candidati e la stessa consultazione elettorale. Visto che la sua non è una provocazione ma una candidatura seria, il Gabibbo deve sottostare alle regole del Garante: non può usufruire di una ribalta televisiva nazionale per autopromuovere la sua campagna elettorale e la raccolta delle firme'").
Quella volta la tv non fece miracoli: Caldarelli non completò la raccolta firme e non partecipò alle elezioni (ci provarono, ma furono esclusi dall'inizio per carenza di sottoscrittori, Giangualberto Pepi della Fiamma tricolore, Loris Reggioli di Pensioni e Lavoro e Gregorio Rispoli del Partito dei Liberali democratici); nemmeno Corbelli in compenso finì sulla scheda, preferendo dedicarsi all'incarico di assessore esterno all'antimafia nel comune di Stefanaconi, in Calabria. Se la dovettero vedere tra loro i quattro superstiti, per una storia il cui finale era già stato scritto in partenza (i primi conti spannometrici avevano dato a Di Pietro circa il 70% dei voti e superò il 67%); ma, signori... che scena sarebbe stata veder entrare il Gabibbo a palazzo Madama, con Caldarelli che difficilmente col costume sarebbe entrato in aula (pur avendo un regolare papillon), ma - una volta al microfono - avrebbe potuto chiudere i suoi interventi con un sonoro e genovesissimo "Ti spaaacco la facciaaa!!!", ovviamente registrato...