giovedì 4 novembre 2021

I democristiani dopo la Dc (con o senza scudo) narrati da Rotondi

Per chi frequenta poco, molto o troppo questo sito non è di certo un segreto: la Democrazia cristiana è tra gli argomenti più frequentati su queste pagine, specie quando emergono un nuovo tentativo di riportarla in vita, l'ennesima scaramuccia giuridico-politica tra gruppi di nostalgici che predicano vie diverse per tornare alla Dc o la penultima decisione di un giudice su una vicenda infinita. Si troverà allora del tutto normale dedicare notevole spazio a chi ha scelto di raccontare la storia della fine della Dc come la si era conosciuta, ma non delle sue idee e, ovviamente, non dei diccì che hanno continuato ad agire sulla scena o ai suoi margini, a volte con simboli simili, a volte no, ma sempre sentendosi intimamente democristiani, a dispetto di tutto. Ancor più naturale, volendo, è che questo spazio sia dedicato a un libro atteso, vista la storia dell'autore: Solferino libri, infatti, pochi giorni fa ha messo in vendita La variante Dc, volume - sfiora le 250 pagine e costa 17 euro nella versione cartacea - di Gianfranco Rotondi, forse il politico che più negli ultimi anni si è visto e sentito definire "democristiano mai pentito", ma lui preferirebbe essere chiamato semplicemente "democristiano", anche se è entrato per la prima volta in Parlamento nel 1994, quando il nome della Democrazia cristiana era appena scomparso dalla vita politica (fu eletto alla Camera nel collegio di Avellino, con le insegne del Patto per l'Italia - e fu uno dei pochissimi a farcela con quel simbolo - rappresentando il Partito popolare italiano). 
Negli anni, però, Rotondi non ha mai smesso - a modo suo, certo, questo lo concede anche lui - di incarnare il partito che ha governato più a lungo l'Italia, nelle sue dichiarazioni, nelle sue posizioni e anche nei suoi tentativi di riportare sulla scena politica il nome della Dc (o di evitarne usi da lui ritenuti indebiti) o, almeno, di far vivere soggetti politici che le somigliassero (quasi sempre gravitando molto vicino a - o poco lontano da - Silvio Berlusconi). Il libro onora un'antica promessa fatta a Paolo Genovese (già portavoce di Rocco Buttiglione, co-fondatore del Cdu con Rotondi, morto a 36 anni alla fine di novembre del 2001): nel raccontare la "storia di un partito che non c'è più e di uno che non c'è ancora", come recita il sottotitolo, il libro si pone come un viaggio - di parte, ma è dichiaratissimo - nel lunghissimo epilogo del maggior partito italiano, con gli occhi di un protagonista di quella fase non ancora chiusa, dipanatasi tra aule parlamentari, sedi di convegni, congressi e assemblee, toccando pure varie aule giudiziarie. Bastano questi elementi per dire che il libro va letto, anche solo per capire cosa si sa già e cosa non si sapeva, valutando probabili omissioni ed eventuali errori. 

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Alle radici della storia (e della fine)

 
Il simbolo della Dc nel 1976
Si concede un unico strappo, Rotondi, al proposito di raccontare solo la fine politica della Dc e la vita dei democristiani nel quarto di secolo abbondante successivo: riguarda il momento della "scelta di campo" che avrebbe segnato la sua vita politica (persino più della vicinanza a Berlusconi). Perché, se Gianfranco Rotondi è arrivato in Parlamento quando il nome della Dc era stato accantonato, quella candidatura era frutto della scelta, nel 1976, a 16 anni non compiuti, di stare coi democristiani, poco dopo l'appello di Indro Montanelli ("
Turatevi il naso ma votate Dc") e il suo invito a sostenere chi avrebbe potuto rinnovare il partito in chiave anticomunista e liberaldemocratica, incluso Gerardo Bianco, preferito a Ciriaco De Mita nell'avellinese. In quel primo capitolo chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica non può non lasciarsi colpire dalle scene di Rotondi e di Francesco (Franco) De Luca, suo coetaneo, che prima portano ovunque i fac-simile della scheda elettorale della Camera con la preferenza per Bianco vicino allo scudo crociato, persino nell'appartamento di Margherita, "anziana e rispettata meretrice della città" (che aveva già ricevuto le finte schede e, per la prima volta, si era risolta a votare Dc) e poi vanno a Milano, accompagnati da una zia di De Luca e da 77 uova come provviste, sperando di ricevere indicazioni politiche per il futuro da Indro Montanelli (lui li ricevette al Giornale nuovo, dopo tre giorni di anticamera, ma capito che non erano aspiranti giornalisti li liquidò in fretta, dicendo solo di iscriversi alla Dc e seguire Bianco, cui telefonò per chiedergli "se fossimo un po' matti"). Rotondi avrebbe seguito Bianco, ma non nel 1995; prima di quei giorni da "scudo incrociato", però, ci sono vari passaggi da rievocare.
Il simbolo della Dc nel 1992
Già, perché intanto il nome "Democrazia cristiana" era sparito dalla politica italiana, ma in realtà già prima di fatto era finita la Dc. Questa cadde sotto i colpi di "Tangentopoli" e della nuova legge elettorale, intervenuti però su un soggetto politico sopravvissuto a se stesso tra il 1978 (dopo la morte di Moro) 
e il 1992, destabilizzato - per colpa, secondo Rotondi, della sinistra democristiana, che vedeva l'aggettivo "conservatore" come una parolaccia e non come il ritratto del Ppe e, sempre secondo l'autore, dello stesso Moro, che "dialogava con il Pci per indebolirlo" e progettava una possibile alternanza Dc-Pci, "ma a data da destinarsi" - dalla sua incapacità di evolvere in un partito cristiano-liberale (alla tedesca). Ciò avrebbe conservato alla Dc un senso anche dopo il crollo del comunismo; era invece rimasta - parole di Rotondi - un partito con "parole d'ordine genericamente anticomunistiche" e "pratiche di potere appoggiate sul patto sociale che assicurava al Nord l'evasione fiscale e al Sud un'economia assistenziale". Questo avrebbe danneggiato tutto il paese: per Rotondi "è ingeneroso sostenere che l'Italia sia cresciuta nonostante la Dc", ma si può dire che "è declinata senza la Dc", a sua volta declinata per non essere stata capace "di declinare un'identità, una missione, un programma" venuto meno il suo nemico storico dell'Est.
Per parlare della fine occorre però analizzarne le radici: in poche pagine si ripercorrono l'era di Ciriaco De Mita, coincisa in gran parte con gli anni '80 (ed è soprattutto lì che, tra la contrapposizione con la figura e lo stile di Bettino Craxi e il tentativo di identificare partito e leader, Rotondi identifica l'occasione mancata di avere una Dc moderna e liberaldemocratica) e poi quella di Arnaldo Forlani, sotto la cui segreteria l'autore del libro centrò la prima elezione rilevante, alle regionali campane del 1990. Alla fine dell'anno la Dc per Rotondi era ancora "allegra e sicura di sé, nemmeno vagamente presaga di quello che di lì a poco sarebbe avvenuto". Il 1992, infatti, era già lì, con l'arresto di Mario Chiesa e le dimissioni un po' anticipate di Francesco Cossiga: a queste seguì il primo vero autogol della Dc, con la pessima gestione della successione alla Presidenza della Repubblica (Giulio Andreotti messo da parte per Forlani, a sua volta impallinato dai peones franchi tiratori, e l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro a poche manciate di ore dalla strage di Capaci) e poi la deflagrazione di Tangentopoli e della stessa Dc. Forlani, dimessosi dopo lo smacco del Quirinale, dovette ripensarci dopo le notizie di indagini a carico dei suoi potenziali successori, Silvio Lega e Bruno Tabacci: restò fino all'elezione di Mino Martinazzoli. Fu lui l'ultimo segretario della Dc "storica" con quel nome, un partito che nel 1993 "aveva già chinato il capo di fronte all'aggressione giudiziaria" e che si sarebbe dimostrato del tutto impreparato alla riforma elettorale in senso maggioritario, sospinta all'interno - e poi anche un po' dall'esterno - da Mariotto Segni attraverso il referendum, inizialmente nella speranza che il suo partito maturasse l'evoluzione di cui si è parlato e che invece mancò in pieno.

Dalla Dc al Ppi, fino alla scissione più dolorosa 

Il simbolo del Ppi nel 1994
"Nemmeno un suicidio assistito si sarebbe consumato con tanta precisione" 
commenta con nettezza Rotondi, che ricorda anche - l'aspetto aneddotico è consistente sfogliando La variante Dc, come in effetti ci si attendeva - il rifiuto di accanimento terapeutico da parte di Martinazzoli: a Giovanni Paolo II che a gennaio del 1994 - in una lettera ai vescovi - aveva pregato i cattolici di mantenere l'unità e in un incontro privato aveva incoraggiato lo stesso segretario Dc, questi rispose "Santità, ci lasci andare". Così - dopo "l'autunno della Dc" dei convegni e delle riunioni di corrente, tristemente quasi deserto nel 1993 - si arrivò al 18 gennaio del 1994, con il passaggio al Partito popolare italiano (al quale Rotondi restò iscritto) e la scissione del Centro cristiano democratico di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella. E, come sa chi frequenta questo sito, fu quello il passaggio della discordia: "Per la fretta - scrive Rotondi - Martinazzoli non seguì le ordinarie procedure di scioglimento della Dc e si limitò a cambiare nome in Ppi. Questa scelta aprirà la via a decennali controversie e infinite, surreali pretese sull'eredità del simbolo e dei beni della Democrazia cristiana". La ricostruzione, in effetti, non è precisa: Martinazzoli e altri dirigenti erano consapevoli di avere girato pagina semplicemente cambiando il nome del partito, come aveva fatto il Pci nel 1991 chiamandosi Pds; il fatto era che quel cambio di nome - che comportava una modifica statutaria - non era avvenuto in un congresso, passaggio richiesto dallo statuto. In questo è giusto dire che non si erano seguite le "ordinarie procedure", scatenando "decennali controversie" e le pretese - da più parti - su nome e simbolo (di certo infinite, ciascuno giudichi se surreali o no). 
Palazzo Cenci-Bolognetti in Piazza del Gesù (lic. CC)
Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 provocarono un terremoto, la cui misura è data dal luogo simbolo dell'universo diccì, cioè Palazzo Cenci-Bolognetti che affaccia su Piazza del Gesù a Roma, al civico 46: l'edificio non è mai stato di proprietà della Dc (che era inquilina, dal 1964, dell'Istituto Pasteur Italia - Fondazione Cenci-Bolognetti), ma nessun luogo l'ha rappresentata di più nell'immaginario collettivo. Ebbene, nei giorni della sconfitta (quattro deputati - incluso Rotondi - eletti nei collegi uninominali col Patto per l'Italia, altri 29 eletti dal Ppi nella quota proporzionale), il palazzo era deserto: "Martinazzoli si era dimesso via fax, la reggente Jervolino non vi era neppure comparsa, gli impiegati non ricevevano lo stipendio, non si sapeva chi comandava e su chi". Tempo un anno e quel palazzo avrebbe visto scene di guerriglia, tra porte sfondate, corrente tagliata e bestemmie sotto i crocifissi (così scrisse Massimo Gramellini, allora solo notista-colorista politico della Stampa) e, subito dopo, scene da separati in casa destinate a durare anni, ma allora era difficile crederci.
Prima però bisogna dire dell'elezione a segretario di Rocco Buttiglione, "l'alieno". All'inizio della XII Legislatura - la sua prima da parlamentare - lui non era diventato capogruppo alla Camera (l'avevano votato l'autore del libro e pochi altri), ma al primo congresso del Ppi (27-29 luglio 1994, l'unico unitario del partito) all'Ergife batté Nicola Mancino, riuscendo "a incassare gli errori degli altri" (cioè della sinistra del partito). Racconta Rotondi di aver sentito mesi prima - a Telese, nel giardino di casa Mastella, nel giorno della festa locale diccì - Buttiglione fare quest'analisi: "La Dc è un partito di centro con una dirigenza di sinistra e un elettorato di destra, che vota Dc per paura dei comunisti; la fine del comunismo e il sistema maggioritario costringono la Dc a una scelta", per cui l'unico modo per non farsi rubare i voti dalle forze di centrodestra era andare "più d'accordo col suo elettorato", che detestava la sinistra anche nelle sue nuove forme. Visto che, nel frattempo, alla prima occasione elettorale gran parte di quelle elettrici e di quegli elettori - insieme a vari dirigenti ed eletti di lungo corso - avevano già trasferito i loro consensi a Forza Italia e al Ccd (e qualcuno, come Publio Fiori, si era accasato pure in Alleanza nazionale), era ragionevole pensare che Buttiglione avrebbe guardato a quell'elettorato anche da segretario: partecipò al "ribaltone" con Umberto Bossi e Massimo D'Alema per scardinare quel governo Berlusconi e immaginarne uno più in stile Ppe (ovviamente con Forza Italia), concorse al varo del governo guidato da Lamberto Dini, ma - anche a causa della nuova legge elettorale regionale, che replicava la logica della coalizioni e penalizzava posizioni "terze" - confermò di voler essere nettamente alternativo alla sinistra. Il che significava, nelle condizioni date, legarsi all'altro campo politico, anche grazie alla mutazione del Msi in An dopo il congresso di Fiuggi e ai buoni uffici di Marco Demetrio De Luca, che portò Buttiglione in Via dell'Anima, quartier generale romano di Berlusconi.
Da Il Popolo, 12 marzo 1995
Arrivò così la frattura,
dolorosa ma non inattesa: per Rotondi "la scissione del Ppi avvenne contestualmente all'elezione di Rocco Buttiglione alla segreteria del partito. La sinistra democristiana, anima e cuore del Ppi, non accettò mai Buttiglione come leader. E del Ppi Buttiglione fu uno strano conducente, costretto più che altro a difendersi dai passeggeri". Il libro ripercorre il consiglio nazionale convocato in fretta (sempre all'Ergife) da Giovanni Bianchi per l'11 marzo 1995, quando sull'ordine del giorno della sinistra del partito Buttiglione pose la fiducia e perse per tre voti (non uno, come scritto nel libro), con il giallo dei tre consiglieri nazionali vicini al segretario in carica esclusi dal voto perché indagati: erano determinanti e, per i buttiglioniani, erano stati ingiustamente sospesi. Vinta qualche sua resistenza, Buttiglione rifiutò di dimettersi, sostenuto da Roberto Formigoni, Cossiga (arrivato a casa Buttiglione all'alba del giorno dopo) e pure da Fiorentino Sullo, che a Rotondi ricordò "il ruolo della sinistra democristiana è di competizione, non di alleanza con la sinistra; uno è sinistra Dc quando incalza i comunisti sul loro terreno, quando gli leva gli argomenti, il ruolo, i voti, ma stando dall'altra parte della barricata. Ci siamo riusciti noi con la Dc, ci potete riuscire voi con Berlusconi". 
I buttiglioniani alle regionali del '95
Rotondi 
non cita l'ordinanza del tribunale di Roma (del giudice Luigi Macioce), in base alla quale Buttiglione aveva il diritto di ritirare le sue dimissioni, ma doveva seguire la linea dettata dal consiglio nazionale (opposta alla sua); non sorvola però sugli scambi di delicatezze tra i sostenitori di Buttiglione e quelli che avevano scelto come nuovo leader Gerardo Bianco, raccontando - solo un po' di striscio, senza insistere sulle scene più dure - quel clima teso, che tra l'altro lo costrinse a esercitare il suo nuovo ruolo di direttore politico del Popolo da un'altra stanza di Piazza delle Cinque Lune (raggiunta "con l'aiuto dei carabinieri"), visto che il suo predecessore si era barricato in ufficio. Dopo le elezioni regionali del 1995 (in cui nessuna delle due fazioni usò di fatto il simbolo ufficiale) e l'accordo di Cannes tra Buttiglione e Bianco - sollecitato dalla Chiesa, oltre che dal Ppe - per sancire l'assegnazione dello scudo crociato al primo e del nome del Ppi al secondo per le rispettive formazioni, l'era della diaspora era ormai conclamata.

Ri(s)composizioni e rifondazioni

Simbolo della lista comune del '96
Non solo ci si era divisi da una parte e dall'altra: all'interno della stessa coalizione avevano iniziato a convivere più gruppi di ex-democristiani di una certa consistenza. Questo era molto evidente nel centrodestra, con i Cristiani democratici uniti di Buttiglione, Rotondi e Formigoni che si erano aggiunti al Centro cristiano democratico di Casini, Mastella, Francesco D'Onofrio e Marco Follini. Alle politiche del 1996 i due partiti avevano corso insieme (anche perché c'era da superare lo sbarramento del 4%); Berlusconi insistette perché si fondessero, ma se Casini e Buttiglione avrebbero potuto occupare i due ruoli di vertice, Mastella non avrebbe mai accettato di essere messo da parte, anche solo per poco. E quando capì - anche grazie a una conversazione captata in corridoio, come racconta Rotondi - che questo sarebbe accaduto, piantando un pugno sul tavolo si incaricò di far saltare la fusione.
Mastella rispunta una decina di pagine più in là, in uscita dal Ccd e a capo dei suoi Cristiani democratici per la Repubblica, con l'idea di partecipare al nuovo progetto messo in piedi da Francesco Cossiga insieme al Cdu di Buttiglione (ma senza più Formigoni e Raffaele Fitto) e ad altri gruppi: si tratta ovviamente dell'Unione democratica per la Repubblica, che non sostenne il governo Prodi (lasciandolo cadere per un voto a Montecitorio) e fece invece nascere il governo D'Alema grazie all'appoggio di varie persone elette con il centrodestra (uno scenario degno della "fase dei grandi scherzi" teorizzata dal fenomenale Fausto Bertinotti parodiato da Corrado Guzzanti). 
Il simbolo del Cdu alle europee '99
Per molti esponenti del Cdu l'idea di sostenere un esecutivo guidato da un ex comunista era davvero inconcepibile: non pochi di loro 
- compreso Rotondi - abbandonarono le insegne dell'Udr. In compenso dopo una manciata di mesi avrebbe preso la porta anche Cossiga (che voleva il centro-sinistra, col trattino separatorio che per gli ulivisti era intollerabile), pronto ad attaccare dispute legali con Mastella (che inaugurò l'Udeur) e a inaugurare nuove avventure tetrafeline (sempre con un altro ex democristiano, Angelo Sanza). A Buttiglione non restò che riprendere l'attività con il Cdu - sciogliere i partiti sul piano giuridico in Italia, va ricordato, è qualcosa di maledettamente complesso, per cui spesso li si lascia dormienti - giusto in tempo per le europee del 1999. Lì il Cdu riuscì a prendere poco meno del Ccd e a ottenere due europarlamentari come il gruppo di Casini, semplicemente schierando lo scudo crociato in bella vista: da antologia l'episodio tutto parmense delle attempate sorelle Botteri, raccontato nel libro dall'ultimo segretario amministrativo Dc e primo tesoriere del Ppi Alessandro Duce, in quella che incredibilmente è la sua unica apparizione nel libro, a dispetto del suo ruolo nell'eterna e ricorrente vicenda del "ritorno alla Dc" (e pure in quella del patrimonio).
La Stampa e il Corriere della Sera, il 22 giugno 1997
Già, perché intanto a pagina 108 del libro 
La variante Dc, è spuntato uno dei filoni che coloro che aderiscono alla schiera dei #drogatidipolitica aspettavano con trepidazione: il primo tentativo, di una certa consistenza, di rifondare la Dc, grazie a Flaminio Piccoli. Non ci si aspetti, però, nessun racconto di diffide, ricorsi, elezioni in bilico e simboli ritoccati: il racconto di Rotondi offre soltanto l'idea del progetto politico, che peraltro non era poca cosa. "Il vecchio Flam - si legge nel libro - aveva superato gli ottant'anni, ma era ancora il frenetico lavoratore descritto dai cronisti della Prima Repubblica: arrivava a piazza del Gesù di buon mattino, e ci restava fino a pomeriggio inoltrato, non si sapeva a far che. Si seppe presto: a rifare la Dc". L'idea era di ritrovare l'elenco dei delegati del congresso del 1989 (l'ultimo), riconvocarli tutti e far decidere a maggioranza di riprendere l'attività della Dc, eleggendo Buttiglione segretario, Rotondi - che, anche da direttore della Discussione, avrebbe dovuto portare avanti il progetto, anche a lungo se fosse stato necessario -  portavoce, mentre Piccoli - convinto che il Cdu in cui militava avesse dato tutto il possibile e che occorresse muoversi in fretta per evitare ulteriori derive a sinistra - si riservò il ruolo di presidente e "padre nobile". Dopo un giro di incontri nobili (e non tutti fortunati, come ricorda l'autore) per avvertire del disegno in corso, Piccoli e Rotondi fecero partire le convocazioni e risposero in parecchi, ritrovandosi all'Ergife, prima per un convegno inizialmente - e goliardicamente - intitolato "XIX congresso della Dc" e fissato per il 21 giugno 1997 (anche se nel libro Rotondi colloca l'illustrazione del progetto di Piccoli nel mese di settembre di quell'anno), poi per un nuovo incontro il 6 dicembre (entrambi si possono ascoltare, come il consiglio nazionale "della discordia" del 1995, grazie a quella miniera di testimonianze che è l'archivio di Radio Radicale). In tutti e due gli incontri gli interventi più attesi, più lunghi e più applauditi furono quelli dell'ex segretario Dc Arnaldo Forlani, insieme a quelli dei padroni di casa, cioè Buttiglione, Rotondi e Piccoli.
Ricorda l'autore del libro - ma 
tocca sfogliare quasi altre 70 pagine perché riappaia la storia del tentativo di far tornare in scena giuridicamente nome e simbolo della Dc insieme - che "il vecchio Flam giammai sarebbe andato in tribunale, avendo onorato per una vita la toga della politica, che sa comporre ogni divergenza senza carta bollata. Piccoli coltivava una idea romantica e al tempo stesso realistica della ricomposizione della Dc". In tribunale, tuttavia, ci dovette andare, attraverso i suoi difensori (in principio, peraltro, l'avvocato era Roberto Gava, fratello di Antonio): tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998 Flaminio Piccoli aveva costituito con atto notarile - con alcuni di coloro che nei mesi precedenti si erano mossi per la Rinascita della Democrazia cristiana, come Andreino Carrara e Angelo La Russa (qui se ne parlò a tempo debito), figure come Gianni Mongiello e Carlo Taormina, ma senza Rotondi - un partito col nome "Democrazia cristiana" e uno scudo crociato nel simbolo ed era deciso a farlo partecipare alle elezioni, partendo dai territori. A quel punto - soprattutto dopo che nel 1998 il Consiglio di Stato aveva (giusto per una manciata di ore, fino alla revoca della prima decisione, in una vicenda spassosa che prima o poi dovrà essere raccontata per intero) riammesso la Dc-Piccoli alle elezioni regionali del Friuli, sia pure con una delle tante varianti del simbolo realizzate da allora in avanti - arrivò il turno della carta bollata: a maggio del 1999 fu proprio il Cdu a citare in giudizio la Dc e il suo presidente Piccoli (anche perché una targa con nome e simbolo era stata affissa proprio all'ingresso di Palazzo Cenci-Bolognetti) e il legale rappresentante del partito di Buttiglione si chiamava Gianfranco Rotondi. La sentenza di primo grado sarebbe arrivata nel 2005, sfavorevole alla Dc-Piccoli; il "vecchio Flam", però, era morto l'11 aprile 2000 e, per giunta, da qualche mese aveva iniziato a operare - per non avere altri guai - con la denominazione Partito democratico cristiano, impiegata in seguito da Alfredo Vito (2001), poi da Clelio Darida (2004) e da Gianni Prandini (2005); nel frattempo, subito dopo la morte di Piccoli, il gallaratese Carlo Senaldi aveva ripreso il nome Rinascita della Democrazia cristiana (dopo i primi movimenti registrati tra il 1996 e il 1997) e l'aveva schierato in alcune elezioni, anche qui dovendo cambiare un paio di simboli per evitare grane legate all'uso dello scudo crociato.
Il primo simbolo ufficiale dell'Udc
Occorre però tornare al libro e a Rotondi, nel 1999 diventato tesoriere (e legale rappresentante, nonché titolare delle decisioni sul simbolo del partito) del riattivato Cdu, su espressa richiesta di Buttiglione che si fidava solo di lui. Da quella posizione Rotondi partecipò a varie vicende. Riportò innanzitutto il Cdu nel centrodestra, irritando un po' quelli del Ccd che non si erano mai mossi da lì: alle regionali corsero con liste separate, nel 2001 si unirono ma non riuscirono a superare lo sbarramento del 4% anche per la presenza, fuori dai poli, di Democrazia europea (progetto di Andreotti, Ortensio Zecchino e Sergio D'Antoni), potendo contare solo sugli eletti nei collegi uninominali. Nel 2002 vide realizzarsi la nascita dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro, per tutti l'Udc: formalmente era un tentativo di ricomporre i cattolici ex Dc del centrodestra, in concreto fu "una fusione fredda, senza passione" e "un allargamento del Ccd". 
Dopo aver cercato per un paio d'anni - e inutilmente - di convincere Casini e Follini a fondere l'Udc con Forza Italia nel nome della comune appartenenza al Ppe, Rotondi si rese conto di essere di troppo e maturò l'idea - svelata innanzitutto a Buttiglione e Bianco - di "rifare la Dc, solo un po' più piccola", in concorrenza con l'Udc ma schierata nettamente con Berlusconi, nell'attesa che questi fondasse "un grande partito popolare unitario, che finalmente ridia ai democristiani la terra promessa". Nacque così, il 25 ottobre 2004, davanti a un notaio di Avellino, la Democrazia cristiana (la fondarono Rotondi, Franco De Luca, Giuseppe Di Giacomo e il portavoce di Rotondi, Alfredo Tarullo), in continuità politica e ideale con Dc, Ppi e Cdu e che, in un primo tempo, pensava di usare lo scudo crociato come simbolo (così si legge nell'atto costitutivo), poi si limitò a schierare il vecchio nome - di cui Rotondi ottenne l'uso espressamente dai legali rappresentanti del Ppi-ex Dc il 21 dicembre 2004 - insieme a una bandiera italiana e a una europea (mutuate dai Cristiano democratici europei di Stefano Pedica). 
Con quel partito Rotondi riuscì a riottenere visibilità alla Camera, ottenendo di poter formare una componente del gruppo misto, sia pure con il nome Ecologisti democratici. Non si trattava tanto di un anticipo della "cosa bianco verde" oggi chiamata Verde è Popolare, quanto piuttosto di un escamotage necessario per ottenere la formazione della componente autonoma, poiché serviva l'appoggio di un soggetto politico che avesse partecipato alle elezioni del 2001 (anche se fino ad allora si era sempre richiesto che i membri della componente fossero anche espressione di quel partito che aveva presentato liste, mentre la Dc di Rotondi era nata durante la legislatura). 
Ora, in quell'anno in Puglia nelle liste "del Biancofiore" Ccd-Cdu si era presentata anche Laura Scalabrini, dei Verdi federalisti: il partito non aveva presentato liste nel 2001, ma lei alle europee del 2004 aveva concorso alla lista comune con i Verdi-Verdi (presentata senza firme grazie alla "pulce" della lista Abolizione scorporo) e questi invece avevano partecipato alle politiche del 2001 in Piemonte. Il contatto si creò forse così, ma il nome da spendere alla Camera dovette essere cambiato: i Verdi del "sole che ride" mai avrebbero accettato altri Verdi a Montecitorio e in passato si erano dimostrati combattivi su questo, così si scelse un'etichetta diversa. Di quell'esperienza resta un simbolo, apparso un'unica volta alle regionali calabresi nel 2005 e che ottenne - con riguardo al "listino" - lo 0,23% (la balena bianca sorridente, salvo errore, era la stessa della testata del Cdu di cui Rotondi è stato direttore politico). 
A quelle regionali, però, Rotondi si candidò alla guida di Piemonte e Campania, mentre Scalabrini corse in Puglia. La Dc-Rotondi - che cresceva anche grazie a Giampiero Catone - andò da sola: l'Udc aveva posto un veto all'ingresso di un partito concorrente in coalizione e Berlusconi dovette accettare, augurando a Rotondi di riuscire a dimostrare di essere un partito (gli sarebbe tornato comodo in futuro), a costo di danneggiare il centrodestra. 
Così avvenne: Italo Bocchino perse male in Campania (lì Rotondi c'entrava poco), ma Enzo Ghigo e Raffaele Fitto vennero sconfitti di misura in Piemonte e Puglia, proprio dove correva la Dc, che dopo le regionali divenne Democrazia cristiana per le autonomie. Fino all'antivigilia di Natale del 2005 Rotondi era convinto che alle elezioni politiche dell'anno dopo avrebbe dovuto schierare il suo partito col centrosinistra (di fregature dall'altra parte ne erano arrivate abbastanza), ma una telefonata di Casini gli fece capire che era caduto il veto dell'Udc (che qualche mese dopo avrebbe visto l'addio di Follini). Rotondi e altri furono candidati ed eletti in Forza Italia, ma la Dca poté contare anche su due deputati ottenuti come lista "miglior perdente" (sotto il 2%), grazie al cartello elettorale costruito con il Nuovo Psi (o meglio, con la parte legata a Gianni De Michelis). 
Archiviato in fretta lo smacco per la sconfitta del 2006, le difficoltà del secondo governo Prodi riavvicinarono d'improvviso la data delle elezioni: se nel centrosinistra si accelerava con il Partito democratico unendo Ds e Margherita (non senza malumori e defezioni), per le forze del centrodestra che facevano riferimento al Ppe poteva essere la volta buona per creare un "partito berlusconiano che sostituirà finalmente la Dc", possibilmente con l'ingresso anche di Alleanza nazionale. Per Rotondi si trattava di scegliere "se fondare il partito gollista o continuare a traccheggiare": Berlusconi volle percorrere la prima via, consentendo solo alla Lega Nord (e al Movimento per l'autonomia) di coalizzarsi e chiedendo a tutte le altre forze interessate di entrare nel nuovo partito, il Popolo della libertà, insieme a Forza Italia e An. Il sì di Rotondi era scontato, il no di Casini fu assordante e l'Udc corse fuori dai poli (e fu l'unica forza non coalizzata a entrare in Parlamento). 
Il 37,38% ottenuto dal Pdl era abbastanza vicino alla soglia del 40%, sotto la quale per l'ex "pontiere" Dc Adolfo Sarti "per un democristiano non c'è gusto a far politica in un partito", ed era una quota che i democristiani - finita la Dc - non vedevano più da molti anni. Eppure, a dispetto del vento in poppa con cui iniziò la legislatura (e della nomina di Rotondi a ministro dell'attuazione del programma nel quarto - e ultimo, almeno per ora - governo Berlusconi) quel partito era problematico, a partire del fatto che all'inizio non se ne occupava nessuno, poi se ne occupò Denis Verdini senza avere davvero intenzione di "governarlo" come un partito (mentre all'interno covavano ed esplodevano rivalità, accanto al rapporto teso Berlusconi-Fini). Quando si provò a trasformare davvero il Pdl in un partito (nel 2011, con la segreteria di Angelino Alfano e i finiani ormai fuori) le cose non andarono meglio e si arrivò all'implosione. Passata la stagione del governo Monti, nel 2013 Berlusconi rischiò di vincere (contro ogni previsione) e infilò il Pdl nel governo guidato da Enrico Letta, ma la condanna definitiva in Cassazione di Berlusconi e la sua decadenza in base alla "legge Severino" chiusero definitivamente quella pagina politica (e anche il sogno di Rotondi). Mentre Alfano creava il Nuovo centrodestra, il Cavaliere rispolverò Forza Italia, al cui gruppo parlamentare aderì lo stesso Rotondi, non senza annunciare iniziative legali per tutelare le aspettative del suo partito di provenienza: "quando Enrico Letta e Angelino Alfano abolirono il finanziamento pubblico dei partiti - si legge nel libro - al Pdl non affluirono più risorse, e di conseguenza nemmeno alla Dc: i creditori escussero le fideiussioni dei garanti, Silvio Berlusconi per il Pdl, il sottoscritto per la Dc. A Silvio la trovata del governo Letta costò cento milioni, a me quasi mezzo milione (in rapporto ai patrimoni, andò peggio a me)". 
Ci volle tempo per riorganizzare l'area "rotondiana", prima nel 2015 con Rivoluzione cristiana, ovviamente 
federata con Fi ("la mia esperienza rock: una Dc molto social, piacevole su Twitter e Facebook, priva di volti della Prima Repubblica, rappresentata in tutte e cento le province solo da donne") e ora con Verde è Popolare; il partito di Berlusconi, però, aveva ormai perso la posizione di guida del centrodestra e il mancato raggiungimento del 3% da parte della lista Noi con l'Italia - Udc portò in Parlamento un solo democristiano di centrodestra, di nome Gianfranco Rotondi. Ormai però si entra nella cronaca, tra le vicende legate a Matteo Renzi (andate ben oltre la XVII Legislatura), a Giuseppe Conte, a Giancarlo Giorgetti e a Mario Draghi, in cui "il primo Parlamento senza la Dc - secondo la versione di Rotondi - è il più doroteo della storia: tutti aderiscono alla linea che conviene per esercitare una quota di potere".

Tra carte bollate, simboli e voci dal passato

Meglio, allora, tornare almeno per un po' alle questioni giuridiche sulla Dc, che occupano - sia pure molto in breve, rispetto alla mole delle pagine - due capitoli del libro, il primo dei quali si intitola La Dc non è mai morta, la guerra delle sentenze. Ma anche dei ricorsi, delle diffide, delle impugnazioni, delle smentite a mezzo stampa e così via disputando. Alla base di tutto c'è una realtà che Rotondi, nella sostanza (più che nella forma giuridica), mostra di conoscere bene: 
Dal ruscello del vecchio Flam discese un rivolo d'acqua che mai rinunciò alla tesi originaria: bisognava ricostruire la Dc col suo nome e il suo simbolo. Erano i talebani della rifondazione democristiana, con una punta di negazionismo: negavano che dopo Martinazzoli vi fosse stato Buttiglione, che il Ppi si fosse diviso e che i due partiti eredi rappresentassero l'eredità e la continuità della Dc, con tanto di sentenze di tribunale.
La questione, ovviamente è molto più complicata di così, anche se la ricostruzione in poche righe è seducente. L'intenzione dei "talebani della rifondazione democristiana" (o, più semplicemente, dei riattivatori della Dc) è effettivamente da vent'anni quella enunciata da Rotondi, cioè rivedere sulla scena politica un partito che possa usare tanto il nome, quanto il simbolo della "vecchia" Dc, senza essere ostacolato da nessuna delle forze politiche che dal 1994 in avanti si sono proclamate eredi o continuatrici della Democrazia cristiana. Per ottenere questo, quasi tutti partono da un fatto oggettivo, che si è richiamato prima: in quel gennaio del 1994, nella foga di girare pagina, qualcosa è andato storto, non nel senso che ci si è dimenticati di sciogliere la Dc (nessuno aveva voluto farlo, né lo aveva mai dichiarato), ma che si è cambiato il nome al partito - modificando lo statuto - senza passare attraverso un congresso, come sarebbe stato necessario. Queste cose erano state sostenute e passate al vaglio già all'epoca del tentativo di Flaminio Piccoli (e in realtà anche un po' prima, quando le aveva sollevate in un altro giudizio Publio Fiori) e già allora si era iniziato a pensare che aver sbagliato le procedure di cambio del nome potesse comportare di fatto la nascita di un nuovo partito (il Ppi del 1994), diverso dalla Dc. Piccoli si era accontentato di dire che bastava questo per sostenere che gli accordi tra Buttiglione e Bianco per spartirsi nome e simbolo non valevano nulla (men che meno per chi non li aveva firmati) e che in ogni caso essersi accordati sul non uso della denominazione "Democrazia cristiana" equivaleva a perdere ogni diritto su questa; si è visto però che i ricorsi avevano bloccato quel tentativo.  
Dall'inizio degli anni 2000 si provò così a seguire un'altra strada: l'unico modo per usare senza disturbi nome e simbolo della Dc era cercare di "risvegliare" la Dc del 1994, rimasta dormiente dal momento in cui si era sbagliato a cambiarne il nome. Si trattava di un'ipotesi indubbiamente seducente, che sembrava applicare alla Dc una sorta di teoria retributiva della pena ("Hai voluto girare pagina e l'hai fatto male, quindi non è possibile che tutto quello che hai fatto dopo sia comunque valido e giusto, senza che tu paghi pegno"). In questo senso i riattivatori potevano considerarsi "negazionisti", anche se molto sui generis: non negavano l'esistenza di Buttiglione e della scissione del Ppi del 1995, "semplicemente" negavano che quel partito potesse identificarsi giuridicamente con la Dc del 1994 e che aveva conosciuto il suo ultimo tesseramento valido nel 1993 (o, secondo alcuni, addirittura nel 1992), dunque negavano che tutte le vicende successive potessero avere qualche effetto nei confronti dal partito il cui ultimo segretario era stato Martinazzoli e che, a loro dire, era ancora vivo e vegeto, con i suoi ultimi tesserati non ancora passati nel mondo dei più. Già qui, naturalmente, qualche persona potrebbe accusare un certo mal di testa, mentre altre potrebbero vedere già vari problemi sul piano giuridico: come si fa a invalidare dopo molti anni una serie di atti, anche di natura economica, in base ai quali soggetti terzi - quelli che hanno comprato immobili, usato il simbolo, lavorato aspettando uno stipendio... - hanno maturato diritti o aspettative? Come si fa a considerare ancora valida un'iscrizione a un partito che ha durata annuale in base allo statuto, senza che nessuno nel frattempo abbia toccato quelle regole (volendo ammettere che valgano ancora)? E, in ogni caso, chi potrebbe riattivare quel meccanismo inceppatosi nel 1994? 
Le prime domande pongono problemi oggettivi, che potrebbero bastare a dire che l'idea della Dc dormiente è affascinante, ma troppo complessa per essere praticata (ma ci vuole altro, ovviamente, a fermare dei "democristiani non pentiti", che pur credendosi eterni - lo dicono loro e c'è chi crede di averne le prove... - vorrebbero rivedere il loro partito sulla scena politica italiana); sull'ultima domanda - a chi tocca riattivare la Dc? - il gruppo dei riattivatori si è continuamente diviso e, a distanza di anni, non ha ancora smesso (la prima parte di quelle vicende era già stata trattata in un post ad hoc). Tutto era iniziato tra il 2001 e il 2002, quando qualcuno si era seriamente convinto che la soluzione di tutto fosse il citato Alessandro Duce, proprio perché era stato l'ultimissimo segretario amministrativo del partito (eletto il 21 gennaio 1994 dalla Direzione nazionale e confermato il 29 gennaio dal Consiglio nazionale, ultimo organo ufficialmente riunitosi con il nome "Democrazia cristiana") e allora da statuto a quella carica spettava la rappresentanza legale; finì per crederci anche lui, cerco di riattivare il partito cercando di informare tutti i componenti di quell'ultimo Coniglio nazionale avvisando anche i morti, per evitare di sbagliare), ma l'avventura in tribunale finì malissimo. Cercò di ripartire dal punto in cui si era fermato Duce un friulano, Angelo Sandri, tra i primi seguaci attivi di Piccoli (era stato lui a sfiorare la partecipazione alle elezioni in Friuli nel 1998) e fu proprio lui a iniziare una causa contro il Cdu (confluito nell'Udc, ma ancora rappresentato da Rotondi, che aveva iniziato a mandare diffide, precisando che lo scudo crociato non si poteva usare e il nome della Dc neanche) foriera di risultati incredibili, anche solo sul piano della confusione. Anche perché, prima che quella causa arrivasse alla sentenza di primo grado, quella che Rotondi chiama "Dc apocrifa" finì per somigliare "alla vera al punto da praticare lo sport preferito dai democristiani: cacciare il segretario": al posto di Sandri si era insediato Giuseppe Pizza e su quella vicenda e sui congressi successivi (spesso "doppi", celebrati con lo stesso numero da una parte e dall'altra) sono partiti vari processi, alcuni non ancora conclusi (e Sandri continua a qualificarsi come segretario della Dc e a nominare cariche e commissari).
Nel 2006, una manciata di mesi dopo una sentenza del tribunale di Roma favorevole all'Udc contro la Dc (nel frattempo guidata da Pizza), da un altro giudice dello stesso tribunale arrivò un'altra decisione che invece chiedeva al Cdu di cessare ogni molestia verso la Dc. In poche righe si poteva leggere che la mancata celebrazione di un congresso per cambiare nome alla Democrazia cristiana faceva dire che il Ppi fosse un soggetto diverso dalla Dc, che non poteva disporre del patrimonio di questa, nemmeno del nome e del simbolo, attribuendo il secondo al Cdu: la Dc (nel frattempo guidata da Pizza) non era dunque vincolata da accordi che non aveva sottoscritto e che comunque avevano vizi all'origine. "All'uscita della sentenza - scrive Rotondi - incontrai l'estensore e gli domandai educatamente: 'Si rende conto, giudice, di avere scritto che Pizza è il successore di Martinazzoli?'. Il magistrato, sorridendo, mi disse che il giudizio di appello serviva appunto a correggere eventuali errori". In effetti la sentenza si era limitata a dire che il Cdu, in quanto non "proprietario", non poteva impedire a Pizza di usare lo scudo, non aveva certo detto che la Dc-Pizza era la "vecchia" Dc o che Pizza era il solo titolato a usare lo scudo crociato; in tanti però credettero che nella sentenza ci fosse scritto questo. Pizza non fece nulla per smentirli, anzi: se nel 2006 aveva partecipato (in una lista composita) alle elezioni nel centrosinistra, alle politiche del 2008 preferì schierarsi nel centrodestra, si vide bocciare simbolo e liste, fece ricorsi e a un certo punto - come Sandri nel 1998 - si vide riammesso in via provvisoria dal Consiglio di Stato. Per un attimo rischiò di saltare tutta la macchina elettorale, qualche giorno dopo la Cassazione avrebbe privato di valore la decisione di Palazzo Spada, ma intanto Pizza aveva già accolto l'invito del Cavaliere a rinunciare a ogni rinvio delle elezioni; qualche settimana dopo sarebbe diventato sottosegretario all'istruzione nell'ultimo governo Berlusconi.
Come ben sa chi frequenta questo sito, la vicenda di quelle due sentenze di segno opposto si sarebbe risolta solo nel 2010: una sentenza della Cassazione a sezioni unite, dichiarando inammissibili o infondati tutti i ricorsi, confermò una decisione dell'anno prima della Corte d'appello di Roma (è questa la decisione che conta dunque, non quella del Supremo collegio). In 39 pagine i giudici cercarono di mettere un po' di ordine nella vicenda, anche se non sembrano esserci riusciti in pieno: dissero che in effetti il cambio di nome da Dc a Ppi era stato deciso da organi che non avevano assolutamente titolo per farlo, quindi quegli atti erano così viziati da essere "inesistenti" e gli atti successivi (inclusi gli accordi di Cannes) non erano in grado di trasferire alcun diritto. Questo bastava a dire che Cdu e Udc non potevano rivendicare l'esclusiva sullo scudo crociato, ma era altrettanto vero che la Dc-Pizza non aveva assolutamente dimostrato di essere lo stesso soggetto giuridico che aveva operato fino al 1994, quindi a sua volta non le spettava alcuna esclusiva sul nome e sul simbolo storici della Dc. In più, le considerazioni sul cambio di nome fatto male servivano solo per decidere il contenzioso tra Dc-Pizza e Cdu, ma non potevano essere usate in quel processo per dichiarare nulli gli atti della Dc-Ppi del 1994, semplicemente perché il Ppi-ex Dc non aveva partecipato al processo e non era nemmeno obbligatorio che partecipasse.
Di fronte a un quadro simile, sarebbe stata cosa buona, giusta e sana capire che non era più tempo di battaglie in tribunale: l'unico modo per "rifare" la Dc era portarne avanti tutti gli ideali in un altro partito, nuovo o già esistente, senza infilarsi in un ginepraio complesso anche per non pochi tecnici. Inutile sperare però che un simile atteggiamento arrivi dai "democristiani non pentiti": non pochi di loro hanno letto la sentenza citata in modo parziale (in buona fede, si spera), vedendo solo le parti favorevoli, dunque quelle che denunciavano i vizi del passaggio del 1994 e che, a loro dire, consegnavano il destino della Dc agli iscritti di allora (dove lo abbiano letto, francamente, non è dato sapere). Fu così che ripartirono altri tentativi di riattivare il partito, secondo le teorie più diverse (perché alcuni riattivatori erano molto convinti delle loro posizioni; altri, pur di rivedere la Dc operante, le hanno sostenute tutte, sperando che almeno una andasse a segno): in questo sito si è dato ampiamente conto dei tentativi di far nominare un commissario straordinario dal tribunale (non andato a buon fine), di riconvocare il consiglio nazionale di allora (ma serviva una convocazione con avviso personale) per poi ricelebrare il congresso (ma occorreva il rispetto integrale dello statuto, praticamente impossibile per un partito ridotto ai minimi termini), fino ai tentativi più recenti, seguendo le norme previste dal codice civile per l'autoconvocazione dell'assemblea degli iscritti di allora (occorre la richiesta del 10% dei soci, per cui si è cercato di far valere come elenco quello di coloro che avevano confermato la propria adesione al partito e - per la cronaca - si è passati di nuovo dall'Ergife...) e altri ancora. Sta di fatto che Rotondi ha contato 65 cause sul simbolo democristiano (il numero non sembri esagerato) e addirittura Giuseppe Gargani ha individuato 75 sigle che si richiamano alla Dc (nel nome, nel simbolo, nelle idee o in tutto questo): in entrambi i casi il conto rischia di essere sbagliato per difetto e, soprattutto, di invecchiare in fretta, mentre si sgrana un rosario continuo di cognomi delle persone coinvolte (Cerenza - Luciani - De Simoni - Grassi - Leo - Cugliari - Fontana - Lisi - Bonalberti - Alessi - Gubert - Pazienza... e chissà quanti altri).
Rileva Rotondi che dietro alcune dispute giudiziarie sui soggetti che possono ritenersi continuatori della Democrazia cristiana sembra celarsi l'intenzione di avere voce in capitolo sulla destinazione del patrimonio, o almeno di quello che fu il patrimonio nel 1994: tanti immobili all'epoca riconducibili al partito (attraverso alcune società), spesso usati come sedi e frutto di sacrifici, collette e rinunce di generazioni di iscritti locali. "La scissione del Partito popolare - scrive l'autore del libro - si abbatté come un ciclone sulle società immobiliari della Dc. Non si capiva più chi comandasse nel partito, il che era un problema nella politica e addirittura un disastro nella gestione di un impero immobiliare". Soprattutto perché il partito che nel 1995 si spezzò in due aveva anche non pochi debiti, da onorare anche alienando parte del patrimonio. Rotondi ricorda un'altra ordinanza del Tribunale civile di Roma, emessa il 24 luglio 1995 e - ironia della sorte - scritta anch'essa (ma all'interno di un collegio) dallo stesso giudice Luigi Macioce che mesi prima aveva dovuto dirimere il contrasto sul consiglio nazionale contestato dell'11 marzo. In una situazione singolare come quella, di due fazioni ancora sotto lo stesso tetto ma che stavano per staccarsi, il tribunale propose lo strumento della co-gestione obbligatoria da parte dei tesorieri indicati da ciascuna delle due parti (i primi furono Pierluigi Castellani per il Ppi-Bianco e Duce per i buttiglioniani). Era una soluzione di buon senso, però pensata - il giudice lo scrisse chiaramente - per durare poco, o comunque fino a nuovi accordi da raggiungere in tempi che si pensavano ragionevolmente brevi: durò invece fino al 5 luglio 2002, dopo che il tesoriere del Ppi aveva detto a Rotondi che era arrivato il momento di vendere tutto per evitare di restare schiacciati dai debiti. "Ne parlai con Buttiglione, che mi pregò di trattare un singolare accordo: noi lasciavamo ai popolari tutto il patrimonio, in cambio della manleva da qualsiasi responsabilità patrimoniale futura del Cdu, di Buttiglione e mia; a noi sarebbe rimasto lo scudo crociato". 
I giornali e le aule giudiziarie si sono occupati a più riprese delle vicende degli immobili (comprese quelle che hanno portato a "piste croate"), dunque vale la pena lasciarle a quelle sedi. Meglio, molto meglio ricordare che Rotondi affidò le carte della "liquidazione" del patrimonio (insieme a molte altre, in base a quanto scrisse allora Daniele Di Mario sul Tempo) al suo portavoce Alfredo Tarullo, che le custodì nella sede di un giornale da lui diretto ad Avellino; chiuso il giornale, in quell'appartamento finì "una vecchietta che per anni tirò su il ragù domenicale con un occhio ai segreti democristiani"; ora, scomparso Tarullo e anche la signora, quelle carte - la cui esistenza è stata appunto divulgata dal Tempo - sono state affidate alla Fondazione Fiorentino Sullo, ribattezzata Fondazione Democrazia cristiana. C'è un altro episodio con cui vale la pena chiudere il viaggio all'interno della "fine della Dc" e della "storia del partito che non c'è più": Rotondi l'ha raccontata almeno un'altra volta, durante una puntata di Report (curata da Sabrina Giannini) intitolata A pensar male... e dedicata proprio alle vicende del patrimonio della Dc. Si riferisce probabilmente all'ex sede di Bevagna, decisamente particolare, per gli affreschi, per una torretta annessa e - oltre che per vicende che l'hanno riguardata in seguito - anche per alcune presenze "impreviste":
Ricordo con un brivido un pomeriggio invernale in Umbria. Ero andato con un funzionario a visionare un appartamento che doveva essere venduto. Attraversai rapidamente la fuga di saloni affrescati, diedi un'occhiata ai manifesti elettorali ancora affissi alle pareti, e d'un tratto mi accorsi di non essere più solo, mi aveva raggiunto un anziano signore che domandava se udissi delle voci. "Quali voci?" chiedi allo sconosciuto. E lui, pronto: "Sono le voci dei vecchi democristiani del paese che si riunivano qui, e che hanno comprato questa sede coi risparmi personali; hanno combattuto dieci sindaci comunisti e questo era il loro rifugio. Ora sono tutti morti, ma non gli far piacere sapere che tra qualche mese qui ci sarà uno studio notarile". Ridiscesi in silenzio lo scalone di marmo del condominio e comunicai al funzionario che la vendita era sospesa. Non avrei venduto quella sede, almeno non quel giorno, non io.

Questo episodio merita di chiudere il viaggio cartaceo sotto la guida di Gianfranco Rotondi: una guida presente e non troppo invadente, ma capace di materializzarsi proprio con la sua voce in ogni frase del libro. Come si è visto, qua e là emerge qualche imprecisione nel racconto: non è dato sapere se sia frutto delle necessarie semplificazioni dei fatti, di qualche ricordo non perfetto, di qualche espediente narrativo per rendere più avvincente il racconto o non rischiare di renderlo pesante (tutto lecito e comprensibile, ovviamente). Nel complesso il volume è certamente interessante e offre un punto di vista informato, con lo sguardo del protagonista o del testimone privilegiato; lo stile è diretto (a volte più di quanto sarebbe lecito aspettarsi in un libro decisamente "democristiano") e coerente con l'autore, anche quando esprime posizioni e ricostruzioni che chi legge resta libero - qua o là - di non condividere.
Chi fosse alla ricerca di dettagli, precisazioni, ricostruzioni puntuali o nomi potrebbe non restare del tutto soddisfatto; chi invece ama le storie, le narrazioni, i retroscena con juicio (sapere qualcosa in più, senza pretendere nomi o particolari che non è opportuno divulgare in quella sede) ha molti motivi per apprezzare La variante Dc. E, naturalmente, anche per rileggere uno qualunque dei capitoli appena scorsi per andare alla ricerca di quel ricordo, quell'episodio, quell'aneddoto che non può non colpire. Da buon affabulatore, nella sua prosa Rotondi offre varie scene impagabili: oltre a quelle che sono state citate via via, vanno richiamate almeno l'accoglienza di Remo Gaspari a Rotondi al suo primo giorno da deputato nel 1994 ("Bella cravatta, hai buon gusto... ascolta un amico: metti da parte tutto quello che guadagnerai da deputato e apri un negozio di cravatte perché per i democristiani non c'è futuro!"), un insegnamento inossidabile di Pierferdinando Casini, da tenere a mente ("A cena ci si vede per piacere e con gli amici, a pranzo si parla di lavoro guardando l'orologio") e la rappacificazione nel 2004 tra Bianco e Buttiglione - davanti a Rotondi, ovviamente - in una birreria tedesca al centro di Roma in cui non c'era "un solo avventore in pace col barbiere e di età superiore ai venti anni". Chissà come sarebbe stato, quell'incontro, davanti al ragù della signora degli archivi di Avellino...

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