giovedì 19 aprile 2018

Quando Pennacchi pensava all'Unità nazionale (fasciocomunista)

Tra i comuni che quest'anno andranno al voto, non ci sarà certamente Latina, che nel 2016 ha eletto sindaco Damiano Coletta, candidato decisamente civico, che al ballottaggio aveva strappato il comune al centrodestra, che lo aveva governato nei precedenti cinque anni. Nella coalizione a sostegno del sindaco di allora, Giovanni Di Giorgi, non c'era però il gruppo di Futuro e libertà, che aveva presentato un proprio aspirante primo cittadino, Filippo Cosignani. Il suo nome, tuttavia, non era presente sul contrassegno della lista, denominata Pennacchi per Latina. E la denominazione, inserita al posto del cognome di Gianfranco Fini (o della sigla di Fli) e scritta in una font chiaramente in stile "ventennio" - la Repubblica parlò di "puro carattere Mostra": non si trattava esattamente di quello, ma l'impronta futuristico-fascista era chiara - era chiaramente ispirata ad Antonio Pennacchi,  testimonial principale - assieme a 
Flavia Perina, Chiara Moroni, Roberto Menia e ad alti dirigenti di Fli, come Fabio Granata e Italo Bocchino - di quell'esperimento che si collocava a metà tra la lista locale e la provocazione futurista.
Giusto oggi, infatti, cade il settimo anniversario della presentazione di quel progetto politico, fatta con una conferenza stampa alla Camera in cui l'ospite d'onore era proprio lui, Pennacchi, nato e cresciuto a Latina, che nel 2003 aveva pubblicato Il fasciocomunista e, in quel giorno d'aprile, era ancora ben noto come vincitore dell'ultimo premio Strega (e non solo di quello) con Canale Mussolini, l'anno prima. Lui, che in gioventù si era iscritto al Msi (finendone poi espulso), poi al Psi e al Pci e che con il tempo aveva fatto conoscere a tutta l'Italia i suoi modi diretti e sulfurei. I cronisti e i fotografi che, passati i controlli d'ingresso, avevano preso posto nella sala della conferenza stampa, non erano lì per ascoltare tanto le parole del candidato sindaco Cosignani o del capolista Fabio Granata ("la mia è una generazione di irregolari che voleva cambiare l'Italia e non ha perso la speranza di poterla cambiare", a dispetto della situazione di un "bipolarismo spento e privo di sogni, di progetti per l'Italia"), ma quelle di Pennacchi, che nemmeno era candidato ma aveva prestato il suo nome. Anche lui avrebbe detto, proprio come Granata, che quella era l'occasione per fondare un "concetto più ampio", quello "della comunità nazionale", ma nessuno avrebbe potuto dirlo come lui, continuamente in bilico tra italiano e vernacolo. 
Le attese non furono tradite: una premessa col botto ("Io faccio lo scrittore, il mio mestiere è scrivere storie non è fare politica: per fa' politica purtroppo non c'ho più il cuore, so' malato de cuore, per fa' politica bisogna litiga' almeno sette otto volte al giorno, se facessi politica morirei de infarto [...] anzi adesso da vecchio so' aumentati tutti i difetti, non sopporto di esse contraddetto, me incazzo") e una constatazione, inconfutabile: "Questa cosa, se non la facevo io, ma chi la poteva fare in Italia, per il percorso mio o per le cose che ho scritto?" 
Dopo un'analisi economica e sociale spietata della situazione italiana ("Il costo del lavoro In Germania in Francia in Inghilterra è enormemente più alto del nostro, i salari si sono ridotti, ma anche i posti di lavoro. In questo paese so' aumentati i poveri e la ricchezza dei ricchi è aumentata ancora de 'ppiù") e un attacco frontale all'allora ministro dell'economia Giulio Tremonti ("quindici anni fa questo diceva 'mo ariva il tempo d'a ricchezza, del Bengodi. il manifatturiero non serve, c'è la new economy', ora invece viene a di' 'ma io l'ho sempre detto che arrivava la crisi'... ma quando l'hai detto?? Dopo che è arrivata! [...] ma che faccia c'ha la gente?? Ma dove se va a lavà la mattina la faccia, dentro al bidet??"), era arrivato finalmente il tempo di presentare il progetto politico, che definire "fasciocomunista" sarebbe stato facile, visto il pedigree letterario di Pennacchi.
Un progetto che per molti, Pennacchi ne era certo, era assurdo: "Qualcuno dice: fascisti e comunisti non possono sta' inzieme, fascisti e comunisti se devono solo mena' o spara'. Tant'è vero che quando l'altro giorno s'è diffusa la notizia che avevano sparato a Roma a uno de CasaPound, il pensiero mio è stato immediato: questi so' i servizi, perché era la risposta de Berlusconi o del Governo proprio a questa cosa i fascisti e comunisti se stavano a mette inzieme a Latina". Che i servizi pensassero a Latina o meno, l'idea per lo scrittore doveva camminare, perché era necessario andare oltre: se l'attuazione pratica delle ideologie fasciste e comuniste era andata male, "questo non può significa' che perché quelle sono fallite allora invece quello che è rimasto, il liberalcapitalismo, è la panacea e la gioia pe' tutti". 
Doveva ammettere Pennacchi che era fallito il disegno fascista che, per lui, voleva assolutamente dire "leva' la roba ai ricchi per dalla ai poveri" (così da poter dire che invece "Mettese co' Berlusconi significa leva' la roba ai poveri per dalla ai ricchi. Chi è il traditore qua? Traditore del fascismo è chi sta con Berlusconi, oggi non si discute: a quei tempi, ma da mo' che Berlusconi stava al confino, ma secondo te je davano tre televisioni? Ma sai le bastonate nei denti che je dava quello là??"). Andata male l'attuazione pratica di quelle idee e anche dell'egualitarismo totale del comunismo, era tempo di voltare pagina e di rimescolare le carte: "Se il Novecento è finito è finito, non capisco perché poi non si possano fare ragionamenti nuovi, bisogna superare quegli steccati. Perché dobbiamo continuare a fermarci nei vecchi recinti, nel vecchio cortile condominiale, in cui ognuno gioca a palla contro il muretto suo". 
Per lo scrittore era necessario recuperare lo spirito unitario che lui riconosceva tanto in Togliatti quanto in Guareschi, benché apparissero e appaiano tuttora opposti: "in Togliatti c'era l'ansia unitaria, prima il Paese poi il partito, unità nella diversità; in Guareschi c'era la dinamica, ma poi sulle sulle cose essenziali c'era l'unità". Quell'unità di popolo, a suo dire, sarebbe stata da ricostruire prima con esperimenti come quello cui lui aveva dato il nome, ma in un secondo tempo creando una nuova forza politica: "Io so' ancora iscritto al Pd, mo' me cacceranno co' 'sto giro ... il mio sogno sarebbe no che ce cacciano a noi, ma che se sciogliessero quei partiti e ne facessimo uno nuovo, 'Unità nazionale', 'Unità popolare', 'na cosa del genere, perché se continuiamo a ragiona' coi vecchi schemi, coi vecchi recinti, chi ce frega so' sempre i padroni".
Come finì quella provocazione futurista, è facile da scoprire: Pennacchi per Latina fu una delle 26 liste in corsa nel 2011, ma ottenne solo lo 0,7% (andò leggermente meglio al candidato sindaco Cosignani, che superò di un soffio l'1%). Furono in pochi a cogliere quell'esempio e dell'Unità nazionale o Unità popolare (che peraltro, come nome era stata utilizzata più volte a sinistra, fin dagli anni '50) proposta da Antonio Pennacchi non si parlò mai. Chissà se lui, in nome della sua storia personale, politica e letteraria, apprezzerebbe un simbolo che unisse i due segni delle ideologie di cui ha riconosciuto il fallimento, in un nuovo disegno di "pacificazione nazionale", andando oltre schemi e recinti? 

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