Era prevedibile che, una volta portato agli occhi dei media (in particolare, da un articolo di Paolo Berizzi per la Repubblica), il caso della lista Fasci italiani del lavoro nel piccolo comune mantovano di Sermide e Felonica facesse notizia e, potenzialmente, scatenasse un'orda di polemiche. Il vespaio è stato alimentato dall'elezione in consiglio della stessa candidata sindaca, Fiamma Negrini e da una lettera che la presidente della Camera Laura Boldrini ha inviato al titolare del Viminale Marco Minniti.
Sono iscritto da anni con orgoglio all'Anpi, della lotta partigiana condivido il fine (anche se, nel passato, ha conosciuto forme dolorose e, a volte, inutilmente insanguinate, specie nella mia terra) e sono certo che non sia venuto meno il bisogno di lottare contro nuove forme, più o meno subdole, di attacco alla democrazia (si tratti delle mafie, della corruzione o di altri mali) e sia importante sostenere le nuove resistenze: per questo, l'idea di vedere sulle schede elettorali un fascio, che alla mia mente richiama idee e periodi che vorrei fossero completamente alle spalle mi rattrista e mi preoccupa.
La natura del cittadino resistente, però, convive in me con quella dello studioso, che deve necessariamente guardare al fatto con occhi diversi, da tecnico, che mal si accordano con quelli del cuore e dell'istinto. Così, lo studioso non si stupisce più di tanto, visto che da anni si pone lo stesso problema con un altro soggetto giuridico-politico, vale a dire il Movimento Fascismo e libertà (Mfl), fondato all'inizio degli anni '90 da Giorgio Pisanò. E' vero, come ricordato a più riprese da Berizzi, Boldrini e altri, che esiste la XII disposizione finale della Costituzione ("È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista"), così come esiste la cosiddetta "legge Scelba" (legge 20 giugno 1952, n. 645) che punisce tanto la ricostituzione del "disciolto" (attenzione alla parola) partito fascista, quanto l'apologia di fascismo e le manifestazioni fasciste. Prima di invocare l'applicazione delle norme, però, bisognerebbe avere l'abitudine - poco praticata in Italia - di leggere i testi, conoscerne la genesi e l'interpretazione data fino a quel momento. Si dovrebbe dunque sapere che, dall'inizio, della XII disposizione finale si è data una lettura restrittiva, che vietava non la ricostituzione di un qualunque partito fascista, ma del "disciolto" partito fascista, cioè che si richiamasse interamente a quella precisa esperienza, nelle stesse forme e con gli stessi metodi di allora. L'inserimento di quella parola, in un primo tempo non prevista, obbligò a dare questa lettura restrittiva (dovuta, specie per le disposizioni costituzionali che limitano le libertà, in questo caso di associarsi in partiti politici, il cui unico limite è - non a caso - quello del concorso alla politica nazionale "con metodo democratico", come stabilito dall'articolo 49).
A dare una lettura "materiale" della riorganizzazione del partito fascista provvede l'articolo 1 della legge Scelba: la condotta criminosa si ha "quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista". L'ultima frase sembra meno concreta di quelle precedenti, ma anche questa dev'essere letta tanto alla luce delle parole che precedono e quanto del fatto che, con il tempo, si è cercato di ridurre sempre di più lo spazio dei reati di mera opinione: non si ritiene più giusto punire per un'idea, dunque, ma solo se quell'idea è realmente minacciosa nei confronti degli altri e dei loro diritti. Per questo, da un quarto di secolo, nessuno dei procedimenti penali iniziati nei confronti di Fascismo e libertà si è concluso con una condanna: nel suo statuto scrive, tra l'altro, che "Il Movimento fa propria tutta l'ideologia Fascista Mussoliniana escludendo dal contesto politico, sociale e civile ogni qualsiasi forma di violenza fisica, morale e/o psicologica rivolta nei confronti dei cittadini appartenenti a qualsiasi nazione, razza, ceto e religione che non si riconoscono ideologicamente nel pensiero politico" del partito stesso.
Al Ministero dell'interno questo è ben noto, così come è noto che il piano elettorale si distingue dal piano penale: non tutto ciò che è penalmente non rilevante è ammissibile quando si vota. Il problema si è posto perché, dal 1992, il Mfl ha cercato in più occasioni di far ammettere il proprio contrassegno alle elezioni politiche ed europee, così come ha cercato - alla pari di varie formazioni di destra in cerca di "radicamento" locale - di presentare candidature nei comuni più piccoli, nella speranza che arrivasse qualche eletto. A chiarire almeno in parte la situazione ha provveduto il Consiglio di Stato, in un parere chiesto dallo stesso Viminale nel 1994, proprio sul caso di Fascismo e libertà, cui nel 1992 era stato bocciato il simbolo e che appunto nel 1994 aveva provato a ripresentarlo, dopo che l'anno prima alle comunali di Roma era stato ammesso il suo contrassegno con il fascio, ma con la denominazione "Democrazia corporativa e libertà".
Il Consiglio di Stato, in quell'occasione, ha chiarito che (pur in mancanza di divieti espliciti relativi ai contrassegni elettorali), "non è concepibile che un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione" (anche se un raggruppamento politico non integra gli estremi della ricostituzione del partito fascista). In concreto, però, se è vietato esporre "congiuntamente l’emblema del fascio e una scritta comprendente la parola 'fascismo'", altrettanto non può dirsi se appare il fascio "da solo, o accompagnato da una scritta nella quale la parola 'fascismo' non compare": il fascio, infatti, era un segno romano e prima ancora etrusco, poi ha assunto "il valore di simbolo della forma repubblicana dello Stato" (soprattutto nella Repubblica romana di Giuseppe Mazzini, citata anche nello statuto dei Fasci oggi discussi). L'appropriazione del simbolo fatta dal "partito mussoliniano", pur essendo innegabile, non può permettere di dire "che quel simbolo, in sé e per se, abbia un significato unico ed univoco": in conclusione, per palazzo Spada, "l'emblema del fascio romano, disgiunto dalla parola 'fascismo', si può considerare ammissibile" in ambito elettorale.
Se il Ministero dell'interno ha comunque continuato ad applicare una lettura restrittiva di quello stesso parere, censurando puntualmente il fascio, anche quando l'emblema era solo affiancato dalla sigla del movimento (e l'unica volta in cui ammise l'emblema, alle elezioni politiche del 2006, lo fece dopo che una pecetta grigia aveva coperto le verghe, ma non la scure), a livello locale le commissioni elettorali hanno oscillato tra due soluzioni diverse. In alcuni casi hanno adottato la linea più severa, bocciando ogni emblema contenente il fascio; in altri - di solito dopo la richiesta di sostituire l'emblema - hanno ammesso il simbolo contenente il solo fascio, anche non celato da altre grafiche, purché non vi fosse più alcun accenno al fascismo.
Quanto detto per Fascismo e libertà vale anche per i Fasci italiani del lavoro? Berizzi sulla Repubblica ha ricordato che la stessa lista aveva corso anche alle elezioni nel solo comune di Sermide (non ancora unito) anche nei tre appuntamenti precedenti, anche se non aveva mai ottenuto seggi, a differenza di questa volta. Ora è facile dire che, in questi quattro casi (e probabilmente anche in altri meno noti), le commissioni - non senza perplessità, è da immaginare - abbiano applicato quanto suggerito dal Consiglio di Stato nel 1994, anche in nome della lettura restrittiva data alle disposizioni costituzionali e di legge.
Se si legge lo statuto del partito - cioè il documento che conta per capire come sia un soggetto politico - si trova che il fine ultimo è la "democrazia delle categorie" con "l'individuo al di sopra dalla lotta di classe, nel quadro di istituzioni rappresentative della volontà popolare liberamente elette (Presidente della Repubblica, Paramento), dove il cittadino-produttore [...] possa diventare compartecipe della gestione dello Stato e della Produzione e beneficiario degli utili che dalla Produzione derivano"; certo, questo a prezzo di un giudizio negativo sul "filtro negativo e paralizzante dei partiti politici, diventati ormai egemoni e arbitri incontrollabili della vita del singoli e della collettività nazionale", cosa non bella da leggere, ma è cosa diversa dal chiedere l'abolizione dei partiti (e negare le storture del nostro sistema dei partiti è oggettivamente difficile). Si nega poi che il fascismo sia stato frutto della sola violenza di pochi sul popolo italiano e che non potesse esserci uno sbocco democratico di quell'esperienza. Per i Fasci Italiani del Lavoro l'orizzonte è la democrazia corporativa, la sottrazione del lavoratore alle leggi del mercato, che deve convivere però con "la salvaguardia delle libertà di stampa, di associazione, di espressione e di religione" e il "rifiuto di ogni forma di discriminazione razziale, rivendicando il rispetto di ogni etnia ciascuna con le proprie peculiarità culturali".
Sempre nello statuto si delinea anche una forma di governo auspicata: una repubblica presidenziale, con un Parlamento bicamerale (eletto con sistema proporzionale e soglia di sbarramento al 5%) diviso tra una Camera ("espressione dei partiti politici", al plurale...) che approvi le leggi e un Senato "rappresentanza di tutte le categorie produttive" che ne verifichi l'applicazione. Certo, si parla anche di "soppressione delle norme costituzionali transitorie e delle legislazioni speciali", di "pacificazione effettiva, con il riconoscimento del servizio militare prestato dai Combattenti della Rsi" e di "verità storiche" da ristabilire, sul fascismo, sul trattato di resa agli Alleati e sul trattato di pace, anche se qualcosa di molto simile negli anni è stato detto a più riprese anche da forze regolarmente presenti in Parlamento.
Basta tutto questo per dire che i Fasci italiani del lavoro rappresentano un tentativo di ricostituire il "disciolto partito fascista"? Probabilmente no. E' sufficiente invece a vietare l'uso del simbolo? Qui la risposta è più difficile: l'emblema dei Fasci somiglia davvero molto a quello che Fascismo e libertà presentò alle europee del 1999 e fu regolarmente bocciato dal Viminale (c'è anche il tricolore in basso, in più c'è la ruota dentata e il testo è diverso). In effetti c'è scritto "Fasci" e non "Fascismo", ma - tocca chiedersi, a costo di sembrare tautologici - i "Fasci" sono "fascisti"? La parola di per sé no, visto che è ben precedente (si pensi ai Fasci siciliani dei lavoratori di fine '800); gli intenti svelati nello statuto sono sì "fascisti", ma non per la parte violenta o nemica della libertà.
Non è dato sapere se i componenti della commissione elettorale abbiano fatto tutte queste valutazioni, se abbiano chiesto lumi a qualche autorità o se siano stati sopraffatti dagli altri adempimenti burocratici (molto più gravosi) in tema di liste. Non è impossibile che, nel dubbio, abbiano scelto di ammettere il simbolo, preferendo allargare il numero di concorrenti piuttosto che restringerlo, tenendo conto anche delle indicazioni dei giudici di Palazzo Spada. Lo stesso emblema discusso nel 1993 (Democrazia corporativa e libertà), in un primo tempo escluso per questioni formali, fu riammesso con riserva da Tar Lazio e Consiglio di Stato; lo stesso poteva accadere qui. Per questo, sapere che in consiglio comunale a Sermide e Felonica siede una rappresentante dei Fasci italiani del lavoro non mi rende felice (non potrebbe essere diversamente), ma non mi fa gridare allo scandalo: le leggi ci sono, ma applicarle qui non avrebbe portato a escludere correttamente il simbolo. Non lo avrei mai votato, beninteso, ma sulle schede ci era arrivato legalmente, non per la svista di qualcuno.
Quanto detto per Fascismo e libertà vale anche per i Fasci italiani del lavoro? Berizzi sulla Repubblica ha ricordato che la stessa lista aveva corso anche alle elezioni nel solo comune di Sermide (non ancora unito) anche nei tre appuntamenti precedenti, anche se non aveva mai ottenuto seggi, a differenza di questa volta. Ora è facile dire che, in questi quattro casi (e probabilmente anche in altri meno noti), le commissioni - non senza perplessità, è da immaginare - abbiano applicato quanto suggerito dal Consiglio di Stato nel 1994, anche in nome della lettura restrittiva data alle disposizioni costituzionali e di legge.
Se si legge lo statuto del partito - cioè il documento che conta per capire come sia un soggetto politico - si trova che il fine ultimo è la "democrazia delle categorie" con "l'individuo al di sopra dalla lotta di classe, nel quadro di istituzioni rappresentative della volontà popolare liberamente elette (Presidente della Repubblica, Paramento), dove il cittadino-produttore [...] possa diventare compartecipe della gestione dello Stato e della Produzione e beneficiario degli utili che dalla Produzione derivano"; certo, questo a prezzo di un giudizio negativo sul "filtro negativo e paralizzante dei partiti politici, diventati ormai egemoni e arbitri incontrollabili della vita del singoli e della collettività nazionale", cosa non bella da leggere, ma è cosa diversa dal chiedere l'abolizione dei partiti (e negare le storture del nostro sistema dei partiti è oggettivamente difficile). Si nega poi che il fascismo sia stato frutto della sola violenza di pochi sul popolo italiano e che non potesse esserci uno sbocco democratico di quell'esperienza. Per i Fasci Italiani del Lavoro l'orizzonte è la democrazia corporativa, la sottrazione del lavoratore alle leggi del mercato, che deve convivere però con "la salvaguardia delle libertà di stampa, di associazione, di espressione e di religione" e il "rifiuto di ogni forma di discriminazione razziale, rivendicando il rispetto di ogni etnia ciascuna con le proprie peculiarità culturali".
Sempre nello statuto si delinea anche una forma di governo auspicata: una repubblica presidenziale, con un Parlamento bicamerale (eletto con sistema proporzionale e soglia di sbarramento al 5%) diviso tra una Camera ("espressione dei partiti politici", al plurale...) che approvi le leggi e un Senato "rappresentanza di tutte le categorie produttive" che ne verifichi l'applicazione. Certo, si parla anche di "soppressione delle norme costituzionali transitorie e delle legislazioni speciali", di "pacificazione effettiva, con il riconoscimento del servizio militare prestato dai Combattenti della Rsi" e di "verità storiche" da ristabilire, sul fascismo, sul trattato di resa agli Alleati e sul trattato di pace, anche se qualcosa di molto simile negli anni è stato detto a più riprese anche da forze regolarmente presenti in Parlamento.
Basta tutto questo per dire che i Fasci italiani del lavoro rappresentano un tentativo di ricostituire il "disciolto partito fascista"? Probabilmente no. E' sufficiente invece a vietare l'uso del simbolo? Qui la risposta è più difficile: l'emblema dei Fasci somiglia davvero molto a quello che Fascismo e libertà presentò alle europee del 1999 e fu regolarmente bocciato dal Viminale (c'è anche il tricolore in basso, in più c'è la ruota dentata e il testo è diverso). In effetti c'è scritto "Fasci" e non "Fascismo", ma - tocca chiedersi, a costo di sembrare tautologici - i "Fasci" sono "fascisti"? La parola di per sé no, visto che è ben precedente (si pensi ai Fasci siciliani dei lavoratori di fine '800); gli intenti svelati nello statuto sono sì "fascisti", ma non per la parte violenta o nemica della libertà.
Non è dato sapere se i componenti della commissione elettorale abbiano fatto tutte queste valutazioni, se abbiano chiesto lumi a qualche autorità o se siano stati sopraffatti dagli altri adempimenti burocratici (molto più gravosi) in tema di liste. Non è impossibile che, nel dubbio, abbiano scelto di ammettere il simbolo, preferendo allargare il numero di concorrenti piuttosto che restringerlo, tenendo conto anche delle indicazioni dei giudici di Palazzo Spada. Lo stesso emblema discusso nel 1993 (Democrazia corporativa e libertà), in un primo tempo escluso per questioni formali, fu riammesso con riserva da Tar Lazio e Consiglio di Stato; lo stesso poteva accadere qui. Per questo, sapere che in consiglio comunale a Sermide e Felonica siede una rappresentante dei Fasci italiani del lavoro non mi rende felice (non potrebbe essere diversamente), ma non mi fa gridare allo scandalo: le leggi ci sono, ma applicarle qui non avrebbe portato a escludere correttamente il simbolo. Non lo avrei mai votato, beninteso, ma sulle schede ci era arrivato legalmente, non per la svista di qualcuno.
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