sabato 23 marzo 2019

Fasci italiani del lavoro non illegittimi, ma il simbolo non torna sulle schede

Il simbolo del partito
Ha avuto una certa risonanza - e la cosa era inevitabile, visto il rilievo che dal 2017 era stato dato al risvolto elettorale della vicenda - la sentenza di assoluzione pronunciata ieri dal Tribunale di Mantova nei confronti di Claudio Negrini, della figlia Fiamma e di altri fondatori dei Fasci italiani del lavoro, nonché di persone che avevano collaborato alla propaganda in rete del partito. Al momento non è possibile ragionare su un testo, perché della decisione del giudice per l'udienza preliminare Gilberto Casari si conosce soltanto il dispositivo (vale a dire l'assoluzione per i sette imputati che avevano scelto il giudizio abbreviato, mentre per i due che avevano optato per il rito ordinario si è disposto il non luogo a procedere) e le motivazioni verranno depositate entro trenta giorni: certamente quando il testo della decisione sarà reso noto si dedicherà un articolo specifico all'argomento, ma alcune riflessioni è il caso di anticiparle già ora.


La vicenda

Il simbolo finito sulle schede
Innanzitutto, un minimo di ricostruzione della vicenda giuridica. Ben noto è come tutto sia iniziato non (tanto) con l'ammissione della lista dei Fasci italiani del lavoro alle elezioni comunali di Sermide e Felonica nel 2017 - in fondo lo stesso emblema aveva già partecipato alle elezioni del solo comune di Sermide, non ancora fuso, nel 2002, nel 2007 e nel 2012 - quanto piuttosto con l'elezione in consiglio comunale della candidata sindaca Fiamma Negrini: non era certo la prima volta che un simbolo con un fascio riusciva a ottenere eletti, ma era la prima volta in cui ciò succedeva in un comune medio-piccolo, in cui l'elezione non spettava di diritto ai rappresentanti della lista col fascio (di solito il Movimento Fascismo e libertà) perché era l'unica altra presentata oltre alla formazione risultata vincitrice, ma era stata ottenuta grazie al raggiungimento della quota di consenso necessaria a ottenere un consigliere di minoranza. Solo così può spiegarsi il clamore ottenuto dalla notizia a livello nazionale, al punto tale da scatenare la reazione dei media e quelle conseguenti dell'allora presidente della Camera Laura Boldrini e del ministro dell'interno in quel momento in carica, Marco Minniti (cosa che provocò la sostituzione dei componenti della Sottocommissione elettorale circondariale competente, sebbene costoro avessero valutato la situazione con lo stesso metro delle tre tornate amministrative precedenti, nelle quali non c'erano state rimostranze). 
Le proteste e polemiche registrate nel 2017 avevano generato, tra l'altro, l'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'esito delle elezioni di quell'anno (promossa dal deputato M5S Alberto Zolezzi, rieletto in questa legislatura), procedimento che ha visto a gennaio del 2018 la semplice esclusione dell'eletta dei Fasci dal consiglio comunale (in quanto la lista non avrebbe dovuto essere ammessa) da parte del Tar di Brescia, poi (a maggio) la decisione più pesante del Consiglio di Stato che riteneva si dovesse ripetere l'intera consultazione elettorale, viziata da quell'indebita ammissione di una lista il cui simbolo avrebbe violato tanto la XII disposizione finale della Costituzione, quanto la "legge Scelba" del 1952.  
Nel frattempo, però, si era sviluppato anche il filone penale della vicenda: la Procura della Repubblica di Mantova, infatti, a luglio del 2017 aveva iniziato a indagare Claudio e Fiamma Negrini, assieme ad altre sette persone, per il reato di ricostituzione del partito fascista (art. 1, legge n. 645/1952), ritenendo che nello statuto della forza politica fondata nel 2000, così come in altri atti compiuti nel corso del tempo, ci fossero elementi per ritenere integrato il reato. A febbraio dello scorso anno la procura aveva chiesto il rinvio a giudizio dei nove indagati e, dopo che sette di loro avevano ottenuto il rito abbreviato (dunque affidando al giudice per l'udienza preliminare la decisione sulla loro innocenza o colpevolezza), per costoro a dicembre l'accusa aveva richiesto pene per un totale di vent'anni. 


La decisione e le conseguenze

Giusto ieri è arrivata la sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste", dunque con formula piena (il giudice non ha ritenuto che il fatto non costituisse reato: per lui non c'era proprio). Nessuna ricostituzione del disciolto partito fascista, dunque: si dovrà attendere di leggere le motivazioni redatte dal gup per capire come ha ragionato (e, sulla base di questo, la Procura della Repubblica deciderà se impugnare o no la sentenza). 
Nel frattempo, Claudio Negrini alla Voce di Mantova ha espresso soddisfazione per una sentenza "che fa crollare un castello accusatorio assurdo e una campagna di odio inaudita nei nostri confronti": dice di volersi rivalere su chi "ha alimentato un campagna di odio nei nostri confronti", valutando eventuali azioni legali contro Boldrini e il giornalista di Repubblica Paolo Berizzi (il primo a sollevare il "caso Fasci" a livello nazionale), anche se resta il rammarico per il seggio conquistato due anni fa "legittimamente [...] e che invece è stato tolto con un’azione che ha condannato Sermide e Felonica a un commissariamento dannoso su tutti i fronti".
Anche per questo, essendo chiamato il comune di Sermide e Felonica a rivotare il 26 maggio, Claudio Negrini ha annunciato che il suo gruppo si ripresenterà alle urne "nella speranza di recuperare, magari con gli interessi, ciò che ci è stato sottratto". Non lo farà però con il simbolo dei Fasci italiani del lavoro, per non rischiare di incorrere di nuovo in grane pre o post-elettorali: questa volta utilizzerà l'emblema di Italia agli italiani, il cartello elettorale inaugurato da Forza Nuova e Fiamma tricolore alle ultime elezioni politiche, al quale hanno aderito anche altri movimenti di area destra (tra cui Movimento Italia sociale, Fiamme nere - Italia libera, Movimento nazionale italiano, Azione sociale e Il Fronte dei Popoli, ma non CasaPound). 
Cambierà anche la candidata sindaca, già identificata in Paola Quaglia, che già nel 2012 si era candidata alla guida del comune di Sermide, alla pari di Negrini: lei aveva ottenuto il 12,32% con la lista Cittadini per Sermide (lui aveva sfiorato il 3% con i Fasci), ma visto il minor numero di consiglieri di opposizione che aveva allora Sermide non era riuscita ad accedere al consiglio (mentre a Fiamma Negrini era bastato il 10,4%, ma allora le liste di opposizione erano solo due, mentre nel 2012 le formazioni di minoranza erano quattro e la lista più votata tra queste si era accaparrata tutti i seggi perché aveva preso quasi i due terzi dei voti non andati alla maggioranza). Anche se le liste non sono ancora state rese note, peraltro, pare che quasi tutti coloro che saranno candidati con Italia agli italiani risulteranno legati al gruppo dei Fasci italiani del lavoro.

Due piani distinti

Sarà legittimo che gli stessi candidati dei Fasci si ripresentino alle elezioni? Ovviamente sì. La decisione presa ieri dal tribunale mantovano, in attesa delle motivazioni da leggere, ricorda che è assolutamente necessario distinguere il piano penalistico da quello elettorale. Il primo esige una lettura tassativa e garantista delle disposizioni penali, per cui perché si sia di fronte al reato di ricostituzione del partito fascista è necessario che un gruppo di almeno cinque persone persegua "finalità antidemocratiche proprie del partito fascista" e non deve farlo in modo teorico o astratto, ma concretamente. Evidentemente il giudice non ha rinvenuto, nei comportamenti degli indagati-imputati, i caratteri dell'idoneità concreta a perseguire quelle finalità antidemocratiche proprie del "disciolto partito fascista". E non deve aver trovato offensivo - in senso penalistico - nemmeno il contenuto dello statuto dei Fasci: pur dando una lettura differente - e, naturalmente, non per forza condivisibile - degli eventi qualificati come fascismo e immaginando che quel regime sarebbe potuto arrivare all'acquisizione "piena e totale della forma democratica, elettiva e pluralista", al suo interno è propugnato comunque un modello di società democratico e partecipativo, pur se differente da quello attuale. Basta questo, evidentemente, a non poter parlare di finalità antidemocratiche e, comunque, non riconducibili al "disciolto partito fascista": il fatto che più persone possano avere un'opinione tutt'altro che negativa sul fascismo, per non condivisibile che sia, non costituisce reato.
Il metro utilizzato in sede penale, tuttavia, non può essere riportato tal quale in ambito elettorale. Il Consiglio di Stato, nel parere reso nel 1994 sulla vicenda di Fascismo e libertà, era stato chiaro nel ritenere inconcepibile "che un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione, con norma tanto più grave e severa, in quanto eccezionalmente derogatoria al principio supremo della pluralità, libertà e parità delle tendenze politiche", senza che però questo potesse in qualunque modo avere rilievo sul piano penale, in un giudizio sulla ricostituzione del partito fascista. 
Ora, è vero che in teoria anche la normativa elettorale dovrebbe essere letta alla luce del favor partecipationis, rendendo tassative e di stretta interpretazione le ipotesi di esclusione delle candidature; evidentemente, però, si è ritenuto che l'ambito elettorale possa essere meno garantista nei confronti di chi intende sottoporsi al voto dei cittadini, giudicando più importante tutelare il meccanismo elettorale stesso da elementi che, anche solo sulla carta, potrebbero turbarlo. Niente fascio sui contrassegni destinati alle schede, dunque, specie se abbinato alla parola "Fascismo" o al concetto dei "fasci", come nel caso di Sermide; quanto alla presenza del solo fascio, le decisioni sono state piuttosto ballerine, con una recente, decisa prevalenza che vuole tenere quel simbolo lontano dalle schede elettorali.
Chi scrive comprende le ragioni di questa posizione, ma non le condivide fino in fondo, se non altro perché passano pur sempre attraverso la deduzione di norme che si allontanano dal tenore delle disposizioni scritte, perdendo in tassatività e anticipando fin troppo la tutela dell'ordinamento rispetto a minacce che di concreto hanno poco. A chi replicasse "allora dobbiamo aspettare che quelle minacce concrete arrivino, per poi scoprire che è troppo tardi per fare qualcosa?", rispondo preventivamente che comprendo quella posizione, ma da giurista non posso dimenticare che sanzionare il sospetto, il pensiero o l'intenzione non è in sintonia con la nostra concezione del diritto: è più che legittimo voler arginare o contrastare certe idee, ma lo si deve fare prima di tutto sul piano dell'educazione. Aver bisogno di vietare d'imperio un'idea più che un'azione, come una sorta di riedizione del chiasmo manzoniano del Conte zio ("sopire, troncare [...] troncare, sopire"), suona come una sconfitta, pure piuttosto dolorosa, della società e dell'intero ordinamento.

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