domenica 7 marzo 2021

"Comunisti d'Italia", persone che si fanno simbolo (di un partito e del Paese)

Il 2021, come si è già ricordato nelle scorse settimane, è l'anno del centenario della nascita del Partito comunista d'Italia, poi Partito comunista italiano, per molti semplicemente "il Pci". L'anniversario arriva, come chiunque sa, quando il partito nato a Livorno nel 1921 di fatto non esiste più, dopo il cambio di nome ufficializzato nel 1991, la scomparsa anche del simulacro del vecchio simbolo dall'emblema del Partito democratico della sinistra (nel nuovo soggetto denominato Democratici di sinistra) nel 1998 e, come ultimo passo, la nascita del Pd. A quella forza politica - che peraltro non sembra godere di ottima salute - vi hanno partecipato (e continuano a farne parte) non poche persone che hanno vissuto quella storia, ma quella nuova non può in alcun modo essere accostata alla storia che si è chiusa nel 1991, così come non può essere messo realmente sullo stesso piano alcun partito che abbia deciso di condividere e portare avanti gli ideali che furono del Pci.
Chi studia la politica italiana, a costo a volte di usare la lente d'ingrandimento se non il microscopio, sa che di simboli con falce e martello ne circolano vari; almeno uno - quello del Pci rifondato nel 2016 - riprende quasi per intero il simbolo che per oltre trent'anni ha quasi sempre aperto le schede elettorali ("in alto a sinistra"). Eppure, senza nulla voler togliere a chi ancora oggi si impegna per mantenere vive e presenti quelle idee, solo quella del Partito comunista d'Italia, poi Partito comunista italiano è stata una vera storia di storie, quelle cioè delle tante persone che hanno scelto di credere in quel partito al punto da votarlo, farlo votare, iscriversi, militare, dedicare tempo, energie, sostanze perché potesse avvicinarsi la Rivoluzione in cui credevano. E in fondo non importava nemmeno quale forma avesse quella Rivoluzione nelle singole menti: poteva essere anche solo "una forza, un volo, un sogno [...] uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita" come dicevano Giorgio Gaber e Sandro Luporini in Qualcuno era comunista. Che poi in realtà ci si vergogna a scrivere "solo": come se davvero noi potessimo permetterci di relegare quella forza, quel volo, quel sogno o quel desiderio tra le cose di seconda scelta, come se davvero avessimo titolo per dire che erano di poco valore. Quelle persone, che ci hanno creduto davvero, sono diventate loro stesse simboli del Pci, come e forse ancora di più di quel fregio con falce, martello e stella su cui hanno messo la croce tante volte nel corso della loro vita.
Occorre essere grati, dunque, a chi cerca di riunire in poco più di duecento pagine un centinaio di ritratti di questi simboli, concreti e tangibili, anche ora che purtroppo hanno quasi sempre concluso la loro vita. L'ha fatto Matteo Pucciarelli, livornese come il Pcd'I, classe 1984 da tempo approdato a Milano, giornalista della Repubblica particolarmente attento alle vicende politiche (di ogni colore), nel suo ultimo libro uscito alla fine del 2020 con Typimedia editore, Comunisti d'Italia. Era inevitabile cogliere il centenario della storia comunista in Italia - anche se, come ricorda l'autore, quella storia aveva messo radici molto prima, almeno a metà dell'Ottocento, con le società di mutuo soccorso e del socialismo che guardava alla rivoluzione francese - per cercare di scrivere qualcosa: si trattava di capire come farlo. Pucciarelli, insieme alla narratrice storica Sara Fabrizi, ha scelto di offrire una galleria di persone e delle loro vite, unite da alcune fondamentali parole chiave, declinate in vari modi: uguaglianza, diritti sociali, libertà democrazia. Concetti forti, sentiti e vissuti sulla pelle, non di rado accostati a vocaboli e situazioni di maggiore durezza, fino al conflitto di chi lotta perché è convinto di ciò in cui crede (pur senza mancare di capire, anche con amarezza, quando si sbaglia o si incontrano i propri limiti).
Una galleria di vite, dunque, una per ogni anno della storia che si voleva raccontare (attraverso quelle storie vissute). 100 storie per 100 anni, dunque, anzi 103 storie, perché in qualche caso non era proprio possibile separarne una dall'altra. Vale per una coppia ben nota come Dario Fo e Franca Rame, che ha portato arte e spettacolo dove si lottava e si resisteva (e ha pagato di persona le proprie scelte, con la censura e il drammatico episodio di violenza subito dalla donna), come pure per nomi meno noti che si ha il diritto di conoscere sfogliando queste pagine e scoprendo nuovi frutti della violenza e del crimine: i sindacalisti contadini di Partinico Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono, uccisi la sera del 22 giugno 1947 da una bomba lanciata contro la sede del Pci dagli uomini di Salvatore Giuliano, e Fausto Tinelli e "Iaio" Iannucci, uccisi nella periferia milanese nel 1978 perché da giovani militanti di sinistra avevano creduto che combattere contro la droga fosse un modo per fare del bene alla società ma qualcuno era di diverso avviso.
Per tutte le persone - non personaggi, perché non c'è fiction in queste pagine, nemmeno per chi ha esercitato la sua professione scrivendo, su un palco, dietro o davanti una macchina da presa - il format è lo stesso: due pagine e un paio di foto ad accompagnare il testo. Impossibile racchiudere una storia in così poco spazio, ma il libro non ha nemmeno quest'intenzione. Il libro, se si vuole continuare con Gaber e Luporini, è lo slancio per ricordare, conoscere, scoprire, approfondire: per chi vuole proseguire, ci sono altre strade, altre fonti e il piacere di cercare e trovarle.
Matteo Pucciarelli non ha nemmeno la pretesa di fornire, con le sue cento storie, un elenco esaustivo: è lui stesso, nel suo testo iniziale, a snocciolare varie assenze di rilievo o meno percettibili ("da Luigi Longo ad Adalgisa Breviglieri, da Sergio Garavini a Cesare Pavese e moltissimi altri"). Le presenze, però, son tutte di gran pregio: quelle note e quelle semisconosciute (e ci si rende conto che era un peccato che fossero tali), quelle che ci si attendeva di trovare e quelle che lasciano un pizzico di sorpresa, perché magari quel lato non si conosceva e, dopo aver letto, il quadro è più completo.
Come si accennava prima, tutte le persone che si avvicendano pagina dopo pagina - tranne Luciana Romoli, classe 1930, "antifascista a 8 anni, staffetta a 14" e ancora lucida testimone di coerenza - sono scomparse. Alcune davvero da poco, come Carla Nespolo (prima donna a presiedere, dal 2017 fino alla sua scomparsa lo scorso anno, l'Anpi senza essere stata partigiana, insistendo sulle battaglie civili dell'associazione) o Andrea Camilleri ("Molte cose del comunismo, nella sua attuazione pratica, sono state sbagliate e si sono trasformate in errori tragici proprio nel conteggio di vite umane. Ma - diceva, prima di morire nel 2019 - continuo a ritenere che l'aspirazione all'uguaglianza, al diritto uguale per tutti sia il dettame più cristiano che io abbia mai sentito. Cristiano, non cattolico"). Ci hanno lasciato nel 2020 anche Germano Nicolini (il "comandante Diavolo", al Dièvel, partigiano, sindaco di Correggio e accusato ingiustamente dell'omicidio di don Umberto Pessina, per il quale scontò dieci anni di carcere da innocente) e Vittorio Cantelmi: lui, morto nel 2020 in piena pandemia, il 15 febbraio del 1944 aveva contribuito a salvare tanti partigiani da un rastrellamento nazifascista nella Marsica, pedalando a perdifiato per chilometri e avvertendo chiunque trovasse (continuando il suo impegno politico e sociale dopo la guerra).
Altre persone invece sono scomparse da molti anni. Addirittura risale al 1921, cioè all'anno in cui si fa iniziare la storia che si racconta, la morte di Spartaco Lavagnini, ferroviere e sindacalista aretino, che a gennaio era tra i fondatori del Partito comunista d'Italia a Livorno e trucidato il 27 febbraio dalle camicie nere. Avevano visto terminare la loro vita prima della fine della guerra Tina Modotti (artista della pellicola fotografica usata come strumento di denuncia, morta nel 1942 a 45 anni in Messico), Irma Bandiera (giovane bolognese che, dopo la scomparsa in guerra del fidanzato, si unì alla Resistenza e agì con fierezza, fino a quando fu catturata, torturata e trucidata) e tre delle persone uccise alle Fosse Ardeatine: Ferdinando Agnini (di Montesacro, antifascista e tra i fondatori dell'Associazione rivoluzionaria studentesca italiana), Nicola Ugo Stame (tenore senza mai la tessera del partito fascista e partigiano) e Sisinnio Mocci, morto dopo aver girato il mondo per la libertà. Non arrivò a vedere la Liberazione nemmeno Giulio Sacripanti, pittore e partigiano, più volte imprigionato e deportato a Mauthausen, dove morì.
Sono profondamente diverse tra loro le storie dei "comunisti d'Italia" scelte e raccontate da Pucciarelli, ma le accomuna il riferirsi tutte a "patrioti che hanno costruito la democrazia", come si legge in copertina. E a nessuna persona sembrino esagerate queste parole: queste persone e molte altre che hanno creduto e praticato il comunismo "hanno lottato per il Paese libero e democratico in cui oggi viviamo, l'hanno difeso e molti di loro sono morti per questo", come ha scritto nella sua prefazione il direttore di collana Luigi Carletti, che pure non dimentica le "pagine scritte con il sangue" da varie generazioni di "compagni che sbagliano", senza che queste possano per alcuna ragione macchiare le altre, anche nei loro lati più ruvidi. 
Ogni pagina ha il suo carico di sogni, di impegno, di costanza. Nessuna lettrice, nessun lettore si stupirà nel trovare nella galleria del centenario i nomi di Antonio Gramsci, Camilla Ravera, Umberto TerraciniPalmiro Togliatti, Pietro SecchiaEnrico Berlinguer, Lucio MagriGiancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, Nilde Iotti, Pietro Ingrao, Armando Cossutta; è interessante ritrovare anche figure più legate ai territori, come Giulio Dolchi (il "partigiano Dudo", poi sindaco di Aosta per dodici anni) e Giuseppe Dozza (per più di vent'anni primo cittadino di Bologna ed esponente storico della "via emiliana al socialismo"), Luigi Petroselli (sindaco di Roma dal 1979 al 1981, amatissimo e colpito da un infarto durante un discorso) o Pio La Torre, ucciso nel 1982 dalla mafia mentre era segretario regionale del Pci perché, disse Berlinguer, era "un uomo che faceva sul serio". Suoneranno familiari le presenze di persone legate soprattutto al sindacato come Giuseppe Di Vittorio, Guido Rossa, Luciano Lama e Bruno Trentin, ma non vanno sottovalutate figure come quella di Aldo Tozzetti, passato dalle lotte partigiane a quelle contro l'emergenza abitativa a Roma, o di Cesare Terranova, prima magistrato antimafia e poi deputato indipendente di sinistra ucciso da Cosa nostra nel 1979.
La galleria di persone, che si apre con Agnini e con Sibilla Aleramo (la scrittrice e poetessa aderì al Pci nel 1946: "Dopo essermi tutta la vita illusa nella creazione d'amore per singoli individui, ecco, la mia fede comunista è la sola cosa concreta"), si chiude con Vera Vassalle, partigiana viareggina di inestimabile coraggio, morta nel 1985. Nel mezzo, ci sono i percorsi più diversi, con curiosi accostamenti dovuti all'ordine alfabetico: capita per esempio che subito dopo Antonio Banfi, figura centrale dello studio della filosofia (che coinvolse nella Resistenza vari suoi studenti della Statale di Milano) e senatore del Pci fino al 1957, compaia Ilio Barontini, già "comandante Dario", deputato nel 1948 quando riuscì a evitare la rivolta nella sua Livorno dopo la notizia dell'attentato a Togliatti.
Non ci si stupisce nemmeno della presenza di nomi di assoluto rilievo ascrivibili al mondo dell'arte (da Renato Guttuso a Giulio Carlo Argan), della letteratura e dell'editoria (oltre ad Aleramo, Italo Calvino, Giangiacomo Feltrinelli, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Gianni RodariEdoardo Sanguineti), del cinema (Mario Monicelli, Elio Petri, Gian Maria Volonté) e del giornalismo (Mario Lenzi, Miriam Mafai, Tina MerlinRossana Rossanda e, a suo modo, Peppino Impastato). Figure note, ma non per questo da dare per scontate: anche nella coppia di pagine dedicata a ciascuna di loro si può trovare qualcosa di prezioso.
Si permetta, in chiusura, di dire che nessuna storia è uguale all'altra e nessuna può valere allo stesso modo: per questo, alcune hanno suscitato in chi scrive sensazioni particolari, a volte anche solo legate all'averle trovate già scorrendo l'indice. Certamente a questo catalogo emozionale, pieno di gratitudine, vanno ascritte - senza far torto a chiunque altro o altra - le vite di Rodari (come ben immagina chi frequenta questo sito) e di Tina Merlin (l'unica vera cronista - e inascoltata monitrice - del Vajont), quelle di Adriano Ossicini (che prima salvò decine di ebrei diagnosticando un inesistente "morbo di K" e poi da cofondatore del Partito della sinistra cristiana diede un altro orizzonte a chi credeva, e pazienza se fu stroncato) e di Margherita Hack (che davvero non ha bisogno di presentazioni, anche se la "signora delle stelle" ci ha lasciato da un po'), quelle di Teresa Noce (che si impegnò in prima persona, anche alla Costituente, e concepì l'esperienza straordinaria dei "treni della felicità") e di Stefano Rodotà (uomo prezioso di riflessioni giuridiche e umane). Ma anche quelle di due straordinari uomini di Dio che il sottoscritto ha avuto il dono di incontrare: Eugenio Melandri (saveriano sospeso a divinis quando nel 1989 fu eletto europarlamentare per Democrazia proletaria, tornato nel clero bolognese poche settimane prima di morire nel 2019, dopo atroci sofferenze fisiche, grazie alla disponibilità del cardinale Matteo Maria Zuppi) e Andrea Gallo (sì, lui, il "prete da marciapiede" di San Benedetto al Porto, con il suo sigaro e l'ammirazione sconfinata per Faber). E poi, per finire, tra le storie che non conoscevo (colpevolmente), quella di Zelina Rossi. Colei che il 21 marzo 1945, con la sua bicicletta, pedalò per undici ore da Milano alla sua Bagnolo in Piano (Pieve Rossa, per l'esattezza) per portare nella sua sacca le disposizioni del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia per "l'insurrezione finale". La Liberazione si conquista anche così, guai a dimenticarlo.

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