martedì 22 settembre 2020

Elezioni a Bologna senza simbolo Pd? Una proposta subito stroncata

Fissati i risultati delle elezioni regionali e a scrutinio ancora in corso per quelle amministrative, è tempo dei classici bilanci post-voto; non mancano però le occasioni per guardare più in là, alle elezioni comunali che si collocano nel prossimo anno, ma di fatto sono lontane pochi mesi da questo turno tardo-estivo, causa rinvio dovuto al Covid-19. E se la massima attenzione sarà concentrata su Roma, di certo si guarderà molto anche a Bologna: nel 2021 scadrà il secondo mandato di Virginio Merola e non potrà ricandidarsi come sindaco, mentre la scelta del candidato del centrosinistra sembra ancora distante (e, anzi, appare caratterizzata da una certa impasse).
Non è così passato inosservato un post pubblicato sabato su Facebook dal primo cittadino, intitolato Civismo, una riflessione. Ritenendo "inadeguata e già vista" un'alleanza di centrosinistra tra partiti e liste civiche, Merola ha chiesto di "prendere sul serio e con rispetto la parola civismo, e lasciare da parte le vecchie idee del secolo scorso", inclusi i partiti, "inadeguati anche se necessari". Per lui l'unica prospettiva nuova che potrebbe partire dal "laboratorio democratico" di Bologna sarebbe "una coalizione civica [...] formata da partiti e associazioni, che si presenta alle elezioni insieme, non separata per liste di partito e liste civiche, con un nome comune, lista di candidati insieme e unica per il Comune". A proporre il programma unitario, deciso dalle forze pronte a sostenere il candidato individuato, non dovrebbe dunque più essere una coalizione - dunque più liste legate tra loro - bensì una lista unica, composta da candidati scelti "verificando sul campo chi propone le idee o rappresenta meglio pezzi di città o tematiche importanti". 
L'idea può perfino apparire coraggiosa (e un po' folle) e "controcorrente", specie se si pensa al numero di liste schierate alle regionali in Campania e Puglia (anche se ad altre latitudini cambia il modo di concepire e organizzare le sfide elettorali); essa, però, comporterebbe la totale invisibilità del Partito democratico. Difatti, come a rimarcare il concetto per chi non lo avesse afferrato, Merola ha precisato: "Per il Pd è un modo per mettere alla prova l'idea di campo democratico. E, quindi, di mettere in conto di rinunciare al simbolo e a liste tutte di partito. Per chi vuole essere civico di rinunciare a proprie liste e simbolo. E condividere un programma e una lista comune". Ciò sarebbe necessario per "rifondare la politica attraverso un'estensione radicale del potere democratico" e "creare una leva di cittadinanza attiva, che rafforza la democrazia elettiva e insieme rafforza la partecipazione delle persone", sostituendo all'egemonia "la cooperazione tra diversi": il Pd locale, rinunciando alle sue "rendite di posizione", manifesterebbe "un grande segnale di generosità", potendo avere in cambio la "fresca rivitalizzazione del proprio modo di essere e di praticare l’impegno politico", senza vedere in campo "la solita lista di persone di centro senza più un partito".
Dell'idea di Merola forse si discuterà prossimamente; intanto, però, questa è già stata nettamente bocciata da Gianluca Passarelli, professore associato di Scienza politica all'Università di Roma "La Sapienza", nonché ricercatore dell'istituto Cattaneo di Bologna. Proprio oggi, infatti, sul Corriere di Bologna è apparso un commento a sua firma con un titolo decisamente rilevante per chi segue questo sito: Non si rinuncia ai simboli. Per Passarelli, l'idea di Merola "appare sbagliata nel merito, nel metodo e rischia di far sbandare il Pd": un pensiero netto, riferito soprattutto alla realtà bolognese. Non è certo nuovo - anzi, è sempre più frequente - l'impiego delle liste civiche alle elezioni amministrative per "nascondere" i partiti (sul presupposto che gli elettori sarebbero scoraggiati dal votarli) o comunque per "sbiadire appartenenze politiche pensando di attrarre elettori fuori dallo schema destra-sinistra": una tattica simile, tuttavia, per Passarelli appare "lunare", in un contesto in cui categorie quali "destra" e "sinistra" sembrano avere ancora un certo radicamento e valore. Si dovrebbe in sostanza evitare di dare corpo a un'operazione di facciata, un semplice maquillage elettorale (in cui "l’etichetta civica richiama alla distanza e alla vaghezza nei confronti del politico"), senza avere alle spalle un vero rinnovamento identitario seguente a una profonda discussione. 
Il primo simbolo
della lista Due Torri (1951)

Per Passarelli il rischio di "una rivisitazione tardiva e fuori luogo di una lista civica 'Due Torri' 2.0 che però non trova conferme empiriche quanto a capacità attrattiva" è molto forte. Quando nel 1951 il Pci scelse di non presentarsi con il proprio emblema alle elezioni amministrative, adottò quello che Giuseppe Dozza indicò come "il simbolo più bolognese di tutti" e ottenne il 40,39% dei consensi (guadagnando oltre 20mila voti rispetto a cinque anni prima): "Illo tempore - ricorda Passarelli nel suo commento - era tutto molto diverso, ma oggi, paradossalmente, l'identità rappresenta un potente attrattore di consensi". Il politologo non dimentica che il Pd nel 2016 era risultato il primo partito a Bologna (35,46%, che permise ai dem di conquistare tutti i consiglieri di maggioranza tranne uno) e anche in seguito ha mantenuto il suo primato (anche nelle europee 2019, che in regione aveva visto prevalere la Lega, la lista Pd-Siamo europei aveva raccolto il 40,33%, quasi il doppio dell'ex Carroccio): in Partito democratico, dunque, "oscurando il nome apparirebbe come una forza che si vergognasse della propria storia e quindi celasse quanto ha fatto. Nel bene e nel male".
Lo sguardo, peraltro, non si limita alla sola realtà bolognese, potendosi allargare all'intero paese: "Il Pd - spiega Passarelli - credo abbia bisogno di profonde riforme certamente, ma anche di conferme e di ri-costruire la propria identità, senza cestinare in un solo colpo la (breve) storia iniziata nel 2007 allorché si propose come partito nuovo". E qui l'autore coglie il legame netto tra identità di un partito e il suo simbolo, un aspetto fin troppo sottovalutato, soprattutto con il passaggio all'epoca della "politica marketing". Nel senso che non di rado si è pensato che bastasse cambiare un simbolo per avere più appeal, senza che ad aggiustamenti e rivoluzioni nella grafica corrispondessero effettivi mutamenti nel pensiero (ammesso che ce ne fosse uno). Eppure quel legame esiste e, paradossalmente, lo si può vedere in azione proprio in ambito commerciale, come dimostra l'esempio che Passarelli pone proprio all'inizio dell'articolo: "La Coca Cola investe milioni di euro in pubblicità ogni anno. E, sostanzialmente, non ha mai cambiato brand; la ragione principale è che i consumatori conoscono e si riconoscono nel nome e nel simbolo della bibita per eccellenza. E per questo lo riacquistano, ovvero lo detestano, ma sanno di cosa si tratta". L'uso del termine brand, in particolare, dovrebbe attirare l'attenzione di chi legge: il concetto di "marchio" in inglese si rende con mark o trademark, mentre brand rimanda piuttosto a un concetto affine ma diverso, quello della marca. Che è certamente legato al segno distintivo "fisico", per come lo si vede, ma evoca soprattutto, come nota Gaetano Grizzanti, uno dei massimi esperti di branding in Italia, "un insieme di valori predefiniti, definendo il posizionamento sul mercato". 
Il marchio, dunque, è il segno che si ha davanti agli occhi, mentre la marca suggerisce un mondo di immagini, sensazioni, ricordi: semioticamente parlando, il primo è il significante, la seconda è il significato. Praticamente la stessa differenza concettuale e la stessa relazione che si verifica tra il contrassegno elettorale (utile a distinguere una candidatura dalle altre) e il simbolo di un partito, che di questo dovrebbe appunto richiamare l'identità, i valori, le idee. Il che non significa che l'immagine (significante) che fisicamente dà corpo al simbolo (significato) non possa cambiare, ma con criterio. Ricorda Passarelli che il Partito Socialista Obrero Espanol (Psoe) "non ha rinunciato ai suoi riferimenti 'operai' e al simbolo benché alcuni, come il garofano, il pugno e il termine 'operaio' possano apparire come superati": dagli anni '70, in effetti (da quando fu adottata l'immagine della rosa nel pugno coniata in Francia da Marc Bonnet e fatta propria dai socialisti francesi), il simbolo della rosa, con o senza pugno, è quasi sempre rimasto al suo posto, magari con qualche adattamento ma restando sempre riconoscibile. 
Ovviamente si può cambiare in modo più profondo e mutare quasi tutto, al massimo riducendo a miniatura le testimonianze della propria storia, come avvenne nel 1991 per il Partito comunista italiano (poi Pds) e tra il 1994 e il 1995 per il Movimento sociale italiano (poi An). Però un cambiamento netto, secondo Passarelli, "per essere credibile deve sostanziarsi in una mutazione di contenuto ed identità" (cosa che nei due casi appena ricordati avvenne, altrimenti non si spiegherebbero a dovere le scissioni traumatiche che si verificarono nei due partiti di "falce e fiammella"). 
Non è certo la prima volta che si parla, con maggiore o minore convinzione, di cambiare il nome o il simbolo del Pd: lo aveva chiesto, tra l'altro, Andrea Rauch nel 2013 (per far togliere il "suo" rametto di Ulivo), lo si è detto con insistenza nel 2017 sotto la segreteria Renzi (e l'autore dell'emblema dem, Nicola Storto, disse che il segretario aveva tutto il diritto di cambiarlo); prima delle elezioni europee del 2019, lo stesso Nicola Zingaretti disse che l'uso del simbolo del Pd in occasione di quel voto non sarebbe stato un dogma (anche se ovviamente fu utilizzato, insieme al riferimento al calendiano Siamo Europei e al Pse). In effetti in questo caso si tratterebbe non di cambiare il simbolo, ma di metterlo da parte per fare qualcosa di nuovo e diverso; certo è che farlo a Bologna non sarebbe come presentare una lista unica di area in un comune sotto i 15mila abitanti perché in sostanza lo impone la legge elettorale. "Per cambiare davvero - segnala Passarelli - servono nuove idee, nuove prospettive, nuovi orizzonti e una diversa collocazione geo-politica. Ma allora non basterebbero certo pochi mesi per approntare tale progetto in tempo per il voto". E, ovviamente, non basterebbe farlo solo a Bologna. Ammesso che il risultato del Pd al voto di domenica e lunedì - giudicato da alcuni non insoddisfacente, da altri perfino buono - non suggerisca di mettere del tutto da parte l'idea di cambiare identità o simbolo.

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