La scomparsa di Franco Marini comporta senza dubbi il venir meno di una figura assai rilevante nella storia politica italiana, letta ovviamente in senso lato, se si considera anche il lunghissimo impegno all'interno del sindacato (fino all'incarico più rilevante di segretario nazionale della Cisl).
I cultori delle vicende politico-partitiche non potranno non ricordare il suo arrivo alla guida della corrente democristiana Forze nuove nel 1991, il suo ministero del lavoro nell'ultimo governo Andreotti, il suo biennio da segretario nazionale del Partito popolare italiano - tra il 1997 e il 1999 - e la presidenza del Senato nell'ultima "legislatura breve" (la seconda più breve della storia repubblicana), quella che si dipanò dal 2006 al 2008 e terminò con un mandato esplorativo conferito allo stesso Marini alla fine di gennaio del 2008, per verificare gli spazi per un nuovo esecutivo di scopo (che si occupasse di ritoccare la legge elettorale allora vigente e di altre vicende ritenute urgenti): quell'incarico - com'è noto - ebbe poi esito negativo. Gli spigolatori delle cronache parlamentari e i #drogatidipolitica certamente non dimenticheranno altre pagine; l'insoddisfazione per il mancato consenso intorno a Rosa Jervolino Russo come candidata per la Presidenza della Repubblica nel 1999; la decisamente travagliata elezione allo scranno più alto di Palazzo Madama (tra la sfida di Giulio Andreotti e i "franceschi tiratori"); l'ordine indignato ai commessi "Togliete quella bottiglia là, non stiamo mica all'osteria!" (di fronte all'orrido pasto di Domenico Gramazio e Nino Strano di fronte all'annuncio della seconda caduta parlamentare di Prodi); l'affossamento - anche su impulso di Matteo Renzi - della sua candidatura al Quirinale nel 2013 alla prima votazione, a dispetto della proposta di Pier Luigi Bersani e della scelta convergente di Silvio Berlusconi (erano tanti i voti ricevuti, più della maggioranza assoluta, ma lo erano anche i cecchini: "Mi chiamo Franco / e faccio il tiratore").
Sul piano della militanza, lo si diceva, Marini ha avuto un percorso sostanzialmente lineare, dalla Dc al Partito popolare italiano (che poi era la stessa cosa, trattandosi di semplice cambio di nome), fino alla confluenza nella Margherita nel 2002 e al sorgere del Pd nel 2007. Sul piano simbolico si compì sotto di lui l'ultima trasformazione del simbolo del Ppi, quello con il gonfalone disegnato nel 1995 da Giuliano Bianucci: poco prima delle elezioni europee del 1999, sparì il tricolore (già ombra dello scudo), lo scudo apparve "luminoso" sul gonfalone (anch'esso privato dell'ombra) e si spostò il nome del partito nella parte alta, per renderlo più leggibile rispetto al passato. Non si tratta certamente della vicenda simbolica più rilevante del partito, specialmente se messa a confronto con quelle che dovettero affrontare i segretari del Ppi che lo precedettero (Gerardo Bianco, nella lotta con Rocco Buttiglione) e Pierluigi Castagnetti (per aver dovuto gestire tutti i risvolti dell'incessante proliferazione delle Dc anche dopo che, nel 2002, il Ppi aveva deciso di sospendere la propria attività politica, pur senza potersi sciogliere).
Nonostante questo, nel 1998 - cioè nel bel mezzo della segreteria popolare di Marini - si colloca un evento che può essere considerato un serio antipasto della successiva abbuffata ridemocristiana, se si vuole definire così il sorgere continuo e incessante di gruppi che ritenevano di poter rappresentare la Democrazia cristiana in virtù delle errate procedure di trasformazione seguite nel 1994. Il casus belli venne fornito dalle elezioni regionali in Friuli - Venezia Giulia, previste per il 14 giugno 1998. A quella tornata elettorale il Ppi era il nerbo di un progetto elettorale denominato Centro popolare riformatore, nel quale erano confluiti anche il Pri, Rinnovamento italiano, l'Unione slovena - Slovenska Skupnost e soprattutto Cdu e Cdr (sì, i Cristiano democratici per la Repubblica di Clemente Mastella, fuoriusciti dal Ccd), che in quel periodo stavano lavorando insieme per far nascere l'Unione democratica per la Repubblica con Francesco Cossiga e altri (un simbolo non c'era ancora, sarebbe arrivato pochi giorni prima delle elezioni regionali ma al momento del deposito delle candidature mancava).
La legge elettorale allora vigente per quelle regionali prevedeva il deposito preventivo del contrassegno elettorale con anticipo rispetto alla presentazione delle liste: per l'esattezza c'era tempo tra il terzo e il quarto giorno successivo alla pubblicazione del decreto che indiceva le elezioni, dunque tra il 3 e il 4 maggio. In quell'occasione si scoprì che tra i contrassegni presentati c'era anche quello della Democrazia cristiana, vale a dire il partito rifondato tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998 per opera di Flaminio Piccoli (ma nell'atto costitutivo figuravano tra gli altri pure Andreino Carrara, Giovanni Mongiello, Anna Nenna D'Antonio, Carlo Taormina e Angelo Larussa) e rappresentato in Friuli - Venezia Giulia da Angelo Sandri da Cervignano (un nome più che noto a chi frequenta questo sito). Allora quel gruppo aveva scelto la via del partito nuovo - dopo la costituzione di vari esperimenti di Rinascita della Democrazia cristiana - convinti com'erano i suoi sostenitori che nel 1994 l'essere passati dalla Dc al Ppi senza un congresso fosse stato così grave da privare di valore ogni atto successivo di Ppi e Cdu (che peraltro con i loro accordi del 1995 si erano in sostanza obbligati a non usare il nome della Dc, come se - così sostenevano Piccoli e gli altri - fosse stato abbandonato e reso disponibile per altre persone interessate). Non si pretendeva, insomma, di essere i continuatori giuridici della Dc, ma almeno di poterne usare indisturbati i segni distintivi, visto che il patrimonio di idee era lo stesso. Se fino ad allora Ppi e Cdu avevano guardato senza troppo interesse alle mosse di Piccoli e degli altri che si stavano muovendo in varie parti d'Italia, quell'occasione elettorale era troppo rilevante per essere lasciata correre: già stavano litigando su chi rappresentava correttamente la Dc, ci mancava anche solo che qualcun altro potesse usare lo scudo crociato, per cui valeva la pena combattere uniti.
Tra il 5 e il 6 maggio, dunque, i rappresentanti dei due partiti si opposero all'ammissione di quell'emblema, che in effetti il 6 maggio stesso fu bocciato dall'Ufficio elettorale presso la corte d'appello di Trieste, sia per la somiglianza con lo scudo crociato del Cdu, sia per il richiamo del simbolo della Dc, allora ancora conteso tra gli stessi Ppi e Cdu (una transazione sarebbe arrivata solo nel 1999). A quel punto Sandri e gli altri cercarono di salvare comunque la partecipazione elettorale, producendo un diverso simbolo, con scudo crociato sfumato e stelle (una curiosa crasi dei due emblemi principali di rinascita della Dc: quello di Andreino Carrara e quello di Angelo Larussa). Anch'esso, tuttavia, fu respinto il 7 maggio perché - a dispetto delle modifiche - fu ritenuto comunque confondibile con quello del Cdu che portava lo scudo con la parola "Libertas".
Ovviamente Flaminio Piccoli fece ricorso al Tar per contestare quella decisione e far riammettere almeno in via cautelare la Dc alle elezioni: a difendere il partito, tra l'altro, era Roberto Gava, fratello dell'ex potentissimo ministro Antonio (il Cdu, in quella sede, era invece assistito da Giuseppe Fornaro, in seguito a fianco pure di Mastella nella sua lite per cercare di mantenere la titolarità dell'Udr e di Alessandro Duce nel suo tentativo di riattivare la Dc). Il collegio, tuttavia, il 29 maggio aveva respinto il ricorso: l'Ufficio elettorale non avrebbe dovuto contestare il richiamo nel simbolo di Piccoli e Sandri alla Dc (mancava "l'evidenza della pendenza" della controversia tra Ppi e Cdu), ma aveva correttamente ritenuto confondibili gli emblemi di Dc e Cdu (benché questo fosse contenuto all'interno di un contrassegno piucchecomposito) per la presenza dello scudo crociato.
L'ordinanza fu inevitabilmente impugnata davanti al Consiglio di Stato, mentre i giorni passavano e quasi tutti davano per scontato che le elezioni il 14 giugno si sarebbero svolte regolarmente. Eppure, il 9 giugno, nelle sedi dei partiti e soprattutto nelle redazioni dei media, arrivò la notizia bomba: per i giudici di Palazzo Spada il contrassegno presentato dalla Dc-Piccoli in sostituzione del primo bocciato si caratterizzava per una "sostanziale diversità" da quello del Cdu e di ogni altra lista, quindi il nuovo contrassegno della Dc poteva essere riammesso alle elezioni (almeno fino a sentenza di merito).
A quel punto al voto mancavano solo cinque giorni e la decisione avrebbe avuto effetti dirompenti: prendendola sul serio, la Dc avrebbe avuto il diritto di raccogliere le firme, dunque doveva ottenere il tempo necessario per farlo e, se ci fosse riuscita, avrebbe avuto diritto a un mese di campagna elettorale. Si trattava di rinviare il voto alla fine dell'estate e ovviamente si sarebbero dovute ristampare le schede. Una grana enorme, ma soprattutto un'inattesa spina nel fianco per Rocco Buttiglione e - appunto - per Franco Marini, il quale inorridì di fronte alla proposta di Flaminio Piccoli, che nel frattempo aveva ricevuto numerosi inviti a rinunciare alla partecipazione, permettendo di svolgere tranquillamente le elezioni: Piccoli infatti, si era detto disposto a non insistere nel ricorso, purché Ppi e Cdu avessero riconosciuto alla "sua" Dc pieno diritto all'uso del simbolo in ogni altra sede politica ed elettorale. Di fronte all'idea di concedere nome e scudo (sia pure modificato), Marini non ebbe dubbi: "Per quanto ci riguarda, la Dc non esiste, chi è la Dc? Io mi guardo intorno e non la vedo".
Nel frattempo gli avvocati di Ppi e Cdu, dopo lo scoramento iniziale, si erano mossi: una solerte collaboratrice del secondo e il difensore del primo - Giulio Prosperetti, attualmente giudice costituzionale - avevano scoperto che la camera di consiglio del Consiglio di Stato in cui si discusse il ricorso Dc era stata fissata senza che le altre parti fossero state informate, dunque non erano state messe in grado di difendersi. Dietro debita richiesta - e con scene epiche in cancelleria che meriterebbero un racconto a parte - fu dunque fissata una nuova udienza dello stesso collegio: i giudici, in quel caso, senza esprimersi di nuovo sulla confondibilità, si limitarono a prendere atto che la disponibilità a non insistere con il ricorso equivaleva a dire che non c'erano le condizioni per ritenere che il danno lamentato dalla Dc per la propria mancata partecipazione al voto fosse grave e irreparabile al punto da portare a un rinvio delle elezioni. Così, revocando la propria ordinanza precedente, il Consiglio di Stato il 12 giugno respinse il ricorso e fece tirare un sospiro di sollievo a Marini, Buttiglione e a tutti coloro che temevano che la macchina elettorale regionale dovesse ripartire daccapo.
L'attività della Dc-Piccoli sarebbe continuata e il contenzioso pure: Marini dovette tollerare che il 29 novembre 1998 una lista di quel partito corresse alle elezioni comunali di Pescara (un ricorso al Tar dello stesso Marini fu respinto l'anno successivo), in compenso in sede civile sempre Marini concorse - con Buttiglione - alla causa con cui il Tribunale di Roma, nel 1999, ordinò alla Dc-Piccoli di non usare più il nome e il simbolo - per non violare più i diritti, rispettivamente, del Ppi ex Dc e del Cdu - e di rimuovere dall'ingresso del Palazzo Cenci-Bolognetti di Piazza del Gesù la targa con nome e simbolo del partito. Quando l'ordinanza fu resa - il 10 novembre 1999 - il segretario del Ppi era però da poco più di un mese Pierluigi Castagnetti. Da lì in avanti, della storia infinita (e allora non si immaginava quanto) della "Dc mai morta" e di tutti i suoi riattivatori Marini non si sarebbe più dovuto occupare.
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