lunedì 7 settembre 2020

Toscana, il no del Consiglio di Stato: escluso Roberto Salvini

Il simbolo originario
Il numero delle persone candidate alla presidenza della Toscana è ora definitivamente fissato in sette. La terza sezione del Consiglio di Stato questa sera ha respinto il ricorso di Roberto Salvini e di alcuni tra delegati e candidati della lista Patto per la Toscana (sent. n. 5404/2020), confermando la loro esclusione dalle elezioni regionali previste per il 20 e 21 settembre, come già deciso nei giorni scorso dall'Ufficio centrale regionale e dal Tribunale amministrativo regionale della Toscana. 
Nell'atto con cui aveva impugnato la sentenza del Tar Firenze, la difesa di Roberto Salvini e degli altri appellanti aveva certamente ribattuto vari argomenti già svolti in primo grado, mettendone peraltro alcuni in maggior luce e approfondendo di più. Dopo aver premesso che la lista Patto per la Toscana nasceva "dall'unione di varie anime autonomiste, fortemente regionaliste e antagoniste ai partiti tradizionali nazionali, cui hanno aderito vari candidati con una forte esperienza politica e un consolidato radicamento nel territorio" (soprattutto in soggetti politici come Civismo Autonomista, Costituente Libera Toscana, Libera Firenze - Comitato Libertà Toscana, Area sindacale e vari gruppi autonomisti toscani) e che tanto il progetto elettorale quanto il suo leader Roberto Salvini avevano sufficiente notorietà da escludere ogni mossa di "agganciamento" o la possibilità di qualificare la lista come "di disturbo", la difesa ribadiva l'impossibilità di confondere il contrassegno del Patto con quello della Lega "per l'uso dei colori" (verde in luogo del blu, nonché un diverso tono di giallo), per la presenza del nome del candidato assente nell'altro emblema e per scelte nominali e grafiche diverse (inclusi i caratteri utilizzati). L'Ufficio centrale regionale, per gli appellanti, sarebbe incorso in un errore perché "un elettore medio non può confondere la Regione Toscana e antica bandiera del territorio con Alberto da Giussano; i colori verdi con quelli blu; Roberto Salvini (Presidente) con Salvini (Premier); Patto per la Toscana, scritto a semicerchio sul simbolo e assolutamente ben visibile, con Lega".
In un errore analogo, per Roberto Salvini e gli altri, sarebbe caduto il Tar Firenze. Innanzitutto i due fregi elettorali non dovevano essere ritenuti confondibili: si citavano, anche in questo caso, varie sentenze dei giudici amministrativi in materia - a partire da quelle con cui era stata riammessa la Lega Toscana - Più Toscana nel 2015 - che attribuivano maggior peso agli elementi di distinzione delle grafiche (che invece per l'Ucr erano "suvvalenti" rispetto al cognome) ed erano meno pessimiste sulla diligenza dell'elettore medio. In secondo luogo, per gli appellanti, se si ritiene che basti la presenza in entrambi i contrassegni della scritta "Salvini" (pur in presenza del nome in uno dei due) per non poter escludere la confondibilità, "si finisce per trasformare il cognome dei candidati in una sorta di marchio commerciale utilizzabile, nel caso di specie, soltanto da Matteo Salvini e da nessun altro che abbia la malasorte di chiamarsi anch'egli Salvini", rivendicando il suo diritto all'identità personale e al nome. Tanto più che il Salvini in questione - Roberto, in questo caso - non era un soggetto sconosciuto, ma addirittura un consigliere regionale uscente, eletto con oltre 5500 preferenze e con una certa notorietà in Toscana (oltre che effettivamente candidato, a differenza di Matteo Salvini, cosa che peraltro si dovrebbe dire anche di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, anche se qui il problema non si pone). 
I ricorrenti non mancavano poi di sottolineare - come già avvenuto in primo grado - l'impossibilità di confondere il simbolo del Patto per la Toscana con quello della Lega (e viceversa), sia perché il secondo sarebbe stato ricompreso in una coalizione, a differenza del primo, sia perché le nuove schede introdotte dalla modifica alla legge elettorale danno ancora maggiore rilievo visivo al nome della persona candidata alla presidenza, quindi sarebbe impossibile confondere il Patto per la Toscana a sostegno di Roberto Salvuni e la Lega in appoggio a Susanna Ceccardi.
Il simbolo sostitutivo più distante
L'atto di impugnazione, tuttavia, si soffermava anche sulla mancata ammissione di uno degli emblemi sostitutivi presentati dalla lista dopo il primo provvedimento di esclusione. Gli appellanti ritenevano sbagliato considerare compiuta e non integrabile la legge toscana sul procedimento elettorale (n. 74/2004), che non contemplerebbe alcuna possibilità di sostituire un contrassegno ritenuto confondibile; contestavano poi che la presentazione di tre emblemi alternativi invece che uno solo potesse attribuire "
all'Ufficio centrale regionale un atipico potere di scelta" (essendo i tre emblemi presentati in subordine tra loro) e, naturalmente, negavano che ciascuna delle tre grafiche potesse essere ancora confondibile con il contrassegno della Lega per la persistenza del rilievo dato al cognome "Salvini". Risultato delle censure sollevate dagli appellanti doveva essere la riammissione della lista, con il contrassegno originario o - alla peggio - con uno dei tre presentati in sostituzione, nonché la rimozione della condanna alle spese inflitta in primo grado.
Per i giudici di Palazzo Spada, invece, "la presenza, all'interno del simbolo [contestato], della scritta 'SALVINI' con dimensione e colore analoghi alla scritta 'SALVINI' presente nel simbolo" della Lega era e resta il problema. Si ammette - quasi riconoscendo l'onore delle armi - che è suggestiva l'argomentazione che rifiuta che si possa trattare un cognome come un marchio oggetto di privativa, ma si dice anche che un ragionamento simile "sposta inaccettabilmente l'attenzione dall'effettivo quid disputandum, che non è rappresentato dalla possibilità per il candidato Roberto Salvini di partecipare alle elezioni utilizzando il proprio cognome, ma dalle modalità di riproduzione di quest’ultimo sul contrassegno elettorale". In particolare, per il collegio giudicante, è "del tutto evidente che se il candidato presidente avesse evitato di collocare il termine 'Salvini' nella parte inferiore del contrassegno e se avesse dato eguale risalto al nome 'Roberto', o non avesse impiegato un font confondibile e il colore giallo, la capacità decettiva sarebbe stata elisa o grandemente scemata". I giudici non hanno ritenuto sufficienti nemmeno gli elementi che effettivamente differenziano i due emblemi elettorali, rilevando che il giudizio dell'Ufficio centrale regionale sia incentrato non solo "sulla 'quantità' dei segni grafici somiglianti, ma anche e soprattutto sulla 'confondibilità' e sulla capacità di trarre in errore l'elettore medio alla luce di un giudizio qualitativo e contestualizzato. E nel caso di specie, ad avviso del Collegio, una oggettiva e non minimale capacità decettiva effettivamente sussiste".
Quanto al problema della mancata accettazione di uno dei simboli sostitutivi, va rilevato un passaggio importante, in cui i giudici dicono che "può condividersi la tesi dell’applicabilità dell’art. 10, comma 3, della legge n. 106/1968 in virtù del generale richiamo operato dall'art. 17 della L.R. Toscana n. 74/2004 in funzione integrativa", il che significava - e se ne dovrà tenere conto in futuro - che l'Ufficio centrale regionale avrebbe ben potuto ammettere un simbolo sostitutivo, eventualità non prevista dalla legge regionale, ma dalla disciplina statale cedevole. Questo, all'evidenza, restituisce al procedimento elettorale toscano una garanzia verso i presentatori di liste almeno analoga a quella riscontrabile nelle altre regioni: non era infatti concepibile un procedimento che non conceda almeno una "prova d'appello" a chi presenta un contrassegno, specie se si considera che il giudizio di confondibilità conserva pur sempre un grado di soggettività. Nulla dice il Consiglio di Stato sulla questione dei tre contrassegni sostitutivi presentati, non prendendo posizione sulla tesi dell'Ucr (e del Tar) e su quella opposta degli appellanti; il punto, in compenso, risulta irrilevante perché, per i giudici, "nessuna delle tre opzioni alternative proposte in sede di opposizione è idonea a elidere la potenzialità decettiva del simbolo trattandosi di lievi modifiche della tonalità del giallo della scritta “SALVINI” o del font del nome ROBERTO, del tutto irrilevanti alla stregua dei canoni del giudizio di confondibilità sopra tracciati". Nulla da fare, dunque, per la lista Patto per la Toscana e per la candidatura di Roberto Salvini, che restano fuori dalla competizione elettorale: il problema non sarebbe stato dunque l'esclusiva sul cognome e il diritto a utilizzare il proprio anche in caso di omonimia, ma nel non averlo fatto differenziandosi abbastanza e in modo tangibile. 
Sarebbe stato sufficiente?
Si deve riconoscere che un ragionamento simile, pur non privo di buon senso, obbliga chi ne è oggetto a un compito più oneroso di altri, senza che questi ne abbia colpa: un omonimo di un politico di livello nazionale deve evitare di candidarsi per non essere accusato di "agganciamento parassitario"? E se si candida in un partito diverso da quello dell'omonimo, deve per forza rinunciare al suo cognome nel simbolo o, almeno, al rilievo che lo stesso ha in altri simboli solo a causa dell'omonimia? Un osservatore terzo difficilmente negherebbe che proprio quell'omonimia possa portare qualche vantaggio a chi si candida, ma dovrebbe riconoscere pure che chi è stato eletto ha pienamente diritto a ricandidarsi, anche lontano dal partito precedente (non c'è vincolo di mandato) e di utilizzare il proprio cognome senza sacrificarlo troppo. Difficile dire se, analizzando quanto scritto nella sentenza di oggi, sarebbe stato ammesso senza intoppi un simbolo con il cognome sempre in evidenza, ma con il nome non troppo più piccolo (del resto, essendo più lungo il prenome rispetto al patronimico, ci sarebbe stata anche una buona spiegazione per una dimensione diversa), entrambi colorati di verde su fondo giallo e posti nella parte superiore del simbolo; certamente - se la lista avesse accettato di presentarlo, senza temere di rinunciare a qualche prerogativa - una proposta grafica simile avrebbe reso molto più difficile la sua bocciatura.
Se non altro, questo grado di giudizio ha previsto la compensazione delle spese "in considerazione della natura e peculiarità delle questioni trattate e tenuto conto del tenore delle difese in atti"; resta però l'amarezza della soccombenza, con relativa condanna alle spede in primo grado, quando in realtà i fatti oggetto di causa e gli argomenti sollevati appaiono assai simili a quelli che hanno condotto a una valutazione diversa in seconde cure (peraltro nulla ha detto il collegio sulla richiesta degli appellanti di riformare la decisione di primo grado sul punto).

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Questa sera il Consiglio di Stato ha anche dichiarato inammissibile un altro ricorso, presentato in proprio - al solito senza assistenza legale - da
Loris Palmerini, già incontrato come candidato alla presidenza della regione Veneto per la lista Venetie per l'autogoverno, ma questa volta diretto innanzitutto a far riammettere la lista Indipendenza Noi Veneto e la candidatura a presidente di Ivano Spano. La tesi, seguendo quanto già sostenuto nel contenzioso attivato da Palmerini dopo la ricusazione della propria candidatura, è che avere consentito ad alcune liste e non ad altre - inclusa Indipendenza Noi Veneto, che un consigliere lo aveva eletto ma poi ha rappresentato ed esentato un'altra forza politica - di presentarsi senza necessità di raccogliere le firme violi il principio della "parità di accesso" citato dalla "legge cornice" n. 165/2004 e valido anche nell'ordinamento regionale: l'esenzione concessa a seguito di "reali deviazioni del ruolo da parte dei consiglieri già cessati dalle funzioni" creerebbe un vulnus non rimediabile alla competizione elettorale. 
Il Tar del Veneto aveva già respinto il primo ricorso di Palmerini (come aveva fatto con quello con cui si chiedeva di riammettere Venetie per l'autogoverno), così questi ha pensato di impugnare la decisione. Nel ricorso ha contestato in particolare l'idea che le norme approvate di recente sull'esenzione dalle firme consentano al singolo consigliere che formi una componente nel gruppo misto di sollevare dall'onere della raccolta firme una lista del tutto diversa nel nome e nel simbolo: "In pratica - si legge - il sistema veneto permette a liste nuove mai candidate in precedenza e nate sulla spinta degli ultimi sondaggi, ma prive di radicamento, di candidarsi grazie alla esenzione concessa da uno dei 'baroni' che la legge prevede in abbondanza": coloro che in consiglio rappresentano un gruppo o una componente sarebbero "letteralmente corteggiati da liste, listarelle e singoli candidati, e al consigliere non resta che 'donarsi' al miglior offerente, anche alla concorrenza se viene garantita la candidatura in buona posizione in una lista quotata dai sondaggi". Con buona pace, tra l'altro, del criterio della radicata rappresentanza.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha dichiarato l'appello inammissibile, come nell'altro contenzioso iniziato da Palmerini, perché questi non è assistito, come la legge richiede, da un avvocato abilitato al patrocinio davanti a una giurisdizione superiore, né lui lo è: l'inviolabilità del diritto di difesa, per i giudici, "si caratterizza in primo luogo come diritto alla difesa tecnica, che si realizza mediante la presenza di un difensore dotato dei necessari requisiti di preparazione tecnico-giuridica, in grado di interloquire con le controparti e con il giudice". Non c'è nemmeno spazio per entrare nel merito della questione e - probabilmente trattandosi del secondo verdetto di inammissibilità nei confronti di Palmerini nel giro di pochi giorni - si è deciso che le spese del grado di giudizio "seguono la soccombenza".

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