lunedì 1 dicembre 2025

Elezioni comunali, voto disgiunto e simboli: intervista a Salvatore Curreri

In questo periodo, in cui formalmente mancano meno di due anni alla fine della legislatura e - a voler prendere sul serio il Codice di buona condotta in materia elettorale della Commissione di Venezia - resterebbe meno di un anno per poter mettere mano alle regole per eleggere il Parlamento in modo che gli elettori e tutte le forze politiche possano valutarne i possibili effetti, si riparla inevitabilmente di possibili modifiche alla legge elettorale politica: lo fa soprattutto chi - anche tentando di proiettare su scala nazionale i dati usciti dalle elezioni regionali "spacchettate" del 2025 - teme un risultato di potenziale pareggio nel 2027 e propone di modificare le regole del gioco (ovviamentetenendo conto della situazione della propria forza politica di riferimento, per cercare di massimizzare i risultati o ridurre i disagi). Questo, al di là di ogni giudizio personale sulle varie soluzioni proposte, non può che essere accolto con favore da chiunque appartenga alla categoria dei #drogatidipolitica, per i quali - com'è noto - un dibattito o anche una semplice discussione sulla elettorale può iniziare a qualsiasi ora, senza alcuna certezza su quando possa terminare.
Gli stessi #drogatidipolitica, però, non possono distogliere lo sguardo dalle altre leggi elettorali, a partire da quella per eleggere il sindaco e i consigli comunali, che già nei mesi scorsi è stata oggetto di polemiche e confronti accesi, anche quando in effetti fino a poco prima si stava discutendo di altro. Ci si riferisce, in particolare, al disegno di legge "Modifiche agli articoli 72 e 73 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, in materia di elezione del sindaco al primo turno nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti" (atto Senato n. 1451), firmato dai quattro capigruppo di maggioranza, cioè Lucio Malan (Fratelli d'Italia), Massimiliano Romeo (Lega), Maurizio Gasparri (Forza Italia) e Michaela Biancofiore (Civici d'Italia-Udc-Noi Moderati-Maie-Centro Popolare): si tratta del progetto di legge presentato - come chi legge questo sito ricorderà - l'8 aprile scorso, dopo la decisione della maggioranza di ritirare l'emendamento al "decreto elezioni 2025" con cui si era tentato - per la terza volta, dopo il ritiro in occasione della conversione del "decreto elezioni 2024" e della discussione in Senato del "ddl Augussori-Pirovano" relativo alle elezioni nei piccoli comuni - di introdurre l'elezione del sindaco nei comuni superiori con il 40% dei voti già al primo turno. Quel disegno di legge è ancora in discussione in Commissione - se n'è trattato in sede referente per l'ultima volta alla fine di ottobre - ed è nota la volontà della maggioranza di ottenere l'approvazione finale entro la legislatura.
 
 
Il 29 ottobre il quotidiano Avvenire ha ospitato a pagina 16 una lettera/intervento di Salvatore Curreri, professore ordinario di diritto costituzionale e pubblio all'Università degli Studi di Enna "Kore", presso la quale coordina il corso di laurea in Giurisprudenza. In quella lettera, Curreri fa riferimento al citato disegno di legge n. 1451 del centrodestra. per il quale è stato informalmente ascoltato il 29 maggio scorso dalla commissione Affari costituzionali del Senato (nella seconda giornata del ciclo di audizioni di costituzionalisti disposto dalla Commissione: il testo dell'audizione si può leggere qui). Nel suo intervento pubblicato dal quotidiano, peraltro, il costituzionalista si concentra su un punto preciso, ovvero la disposizione relativa al "voto disgiunto": in origine non trattata dal disegno di legge presentato dal centrodestra, dal 30 luglio ne fa parte dopo l'approvazione di due emendamenti identici (dopo la riformulazione richiesta dal governo attraverso la sottosegretaria Wanda Ferro), uno proposto dal presidente della Commissione, Baldoni, e uno proposto dalla Lega con l'aggiunta di altre firme (proprio quest'emendamento aveva proposto il superamento del "voto disgiunto"). Il testo approvato rende nulla una scheda nella quale si voti per un candidato sindaco e contestualmente per una lista a questi non collegata; si prevede pure che, in presenza di un unico segno a favore di un aspirante sindaco, il voto si trasmetta automaticamente anche all'unica lista collegata o alle liste coalizzate (in quest'ultimo caso, in proporzione ai voti raccolti da ciascuna lista).
Vale la pena sottolineare che, se nel dibattito in Commissione del 30 luglio la Lega - attraverso il senatore Paolo Tosato - si era espressa a favore dell'abolizione del "voto disgiunto" (per evitare di creare "gravi problemi nell'amministrazione dei comuni, a seguito della disomogeneità di orientamento politico tra il sindaco e la maggioranza consiliare" e, a monte, di disorientare gli elettori circa il voto esprimibile, col rischio di produrre varie schede nulle), una netta contrarietà è stata espressa dal MoVimento 5 Stelle (tramite il senatore Roberto Cataldi) e dal Partito democratico (attraverso il senatore Dario Parrini), che hanno visto in quella scelta una compressione degli spazi di libertà per gli elettori, anche per il venir meno della possibilità di votare solo per il candidato sindaco (cosa che non ha convinto nemmeno Dafne Musolino di Italia viva, favorevole invece al "voto congiunto"); ulteriori emendamenti presentati dalle opposizioni in senso contrario sono stati comunque respinti. Durante le audizioni (in sede di replica), in controtendenza rispetto ad altri costituzionalisti auditi, Curreri ha espresso un giudizio molto negativo sulla possibilità che il "voto disgiunto" fosse conservato e nel suo intervento su Avvenire ha accolto con favore l'approvazione dell'emendamento che prevede la nullità della scheda in caso di voto per un aspirante sindaco e per una lista che non lo sostiene (conservando, peraltro, un giudizio non favorevole all'elezione al primo turno con il 40%). 
Dal momento che il "voto disgiunto" è tra i fenomeni su cui i #drogatidipolitica si concentrano di più prima e dopo i vari appuntamenti elettorali, ma finora si è parlato poco di questa modifica potenzialmente in arrivo per le elezioni amministrative nei comuni "superiori", I simboli della discordia ha ritenuto opportuno approfondire il tema proprio con il professor Curreri, che ha accettato di fare una chiacchierata sul punto (e, più in generale, sulla modifica alle norme che regolano le elezioni amministrative).
 
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Salvatore, nella tua lettera ad Avvenire hai esposto tre ragioni per il tuo favore verso il superamento della possibilità di "voto disgiunto" alle elezioni amministrative nei comuni sopra i 15000 abitanti. Come primo argomento hai segnalato come il voto disgiunto non sia "una scelta costituzionalmente obbligata": si può però dire che si tratta di una soluzione costituzionalmente legittima?
Siamo in una materia in cui, secondo me, tanto l'opzione che non consente il voto disgiunto quanto quella che lo permette sono visti come conformi a Costituzione. In tutta franchezza, ti dico che la questione appare almeno in parte controversa: l'argomento forte che si invoca contro il divieto di "voto disgiunto" è la libertà di voto, che verrebbe coartata perché l'elettore in quel modo non potrebbe fare scelte "di campo" diverse per la carica monocratica, che in questo caso è il sindaco (ma lo stesso discorso vale per il presidente della regione, visto che ci sono Regioni che hanno mantenuto il voto "disgiunto" e altre che lo hanno escluso) e per l'organo assembleare, cioè il consiglio. Questo argomento, però, sinceramente mi sembra eccessivo: il problema è capire se il "voto disgiunto" è conforme alla ratio che ispira il voto per il rinnovo dell'amministrazione comunale. Per me è facile individuare questo fine nella necessità che la persona eletta come vertice della giunta abbia una maggioranza in consiglio: se così è, il "voto disgiunto" non mi pare conforme alla ratio di questo tipo di elezione.
In questo senso parlavi del "voto disgiunto" come "espressione di schizofrenia politica"?
Quella in realtà per me è una considerazione più generale, che è il secondo argomento a favore del superamento del "voto disgiunto". Per me votare un candidato di una parte politica e votare diversamente per la lista ha qualcosa di "schizofrenico": non  voglio essere in alcun modo offensivo verso chi sceglie di agire così, ma per me si tratta di scelte politiche sostanzialmente diverse tra loro e inconciliabili. Dire che se si sceglie il sindaco (o il presidente della giunta regionale) si sta votando per la persona e non è contraddittorio rispetto a una scelta di lista di altro tipo non mi convince particolarmente, soprattutto per una valutazione di altro genere, che è poi il terzo argomento che mi porta a preferire l'esclusione del "voto disgiunto".
Di che si tratta?
Se si dice "Io voto per la persona" e non si vota per l'idea, per il partito, per il soggetto politico, significa che alla fine la decisione è ispirata a ragioni personali, non politiche: questo per me è un ulteriore motivo di criticità, perché evidentemente, soprattutto a livello locale, le persone si sentono - e in un certo senso sono - legittimate sulla base di un consenso personale, potendo scegliere di orientare i propri voti e le proprie decisioni in base a valutazioni altrettanto, se non esclusivamente personali. Ritengo che questo sia uno dei motivi per cui la dialettica politica, a livello locale come a livello regionale, è notevolmente degraata: le persone decidono indipendentemente dai contenitori politici nei quali si candidano e questo si connette anche al fenomeno di "desertificazione" dei partiti politici a livello locale. Come vedi ho esposto tre argomenti distinti, che però appaiono collegati tra loro.
A proposito di collegamenti, ho rivisto la relazione alla futura legge n. 81/1993, redatta alla Camera da Adriano Ciaffi (Dc) e presentata il 20 novembre 1992: allora, tra l'altro, si prevedeva ancora - come "soluzione faticosa" di compromesso tra tesi "estreme e contrapposte" - che il collegamento tra aspiranti sindaci e liste fosse facoltativo, "potendosi prevedere una candidatura a sindaco priva di lista collegata". Bene, per la relazione "spetta all'elettore giudicare e scegliere, anche bocciando i 'collegamenti' proposti", disgiungendo il voto doppio, esercitato però su un'unica scheda, per evitare il moltiplicarsi di queste. Il "voto disgiunto", dunque, era stato esplicitamente visto, per le elezioni nei comuni "superiori", come ulteriore possibilità di articolazione del voto, con un giudizio che in qualche modo avrebbe coinvolto anche le singole persone candidate. Quest'impostazione non ti convince dall'inizio o ha finito per non convincerti per le sue applicazioni pratiche?
Non mi convince dall'inizio. Per formazione scientifica sono sempre stato convinto del ruolo fondamentale dei partiti politici, come perno, sintesi politica e canale di mediazione tra elettori ed eletti: secondo me il "voto disgiunto" è un modo per incrinare questo rapporto, perché con la dissociazione del voto è evidente che non vale più l'elemento politico-partitico, ma quello personale. Io, insomma, ti voto non perché sei espressione di un partito o di un movimento o ti candidi in una lista o sostenuto da quella lista, ma perché sei tu: questo si traduce, in pratica, in una delega "in bianco". Quando dicevo che, sostanzialmente, il "voto disgiunto" può essere una delle cause di quel fenomeno che a livello nazionale definiamo come "transfughismo", cioè l'abbandono di un partito o di un gruppo da parte di un eletto per aderire ad altri soggetti...
... fenomeno di cui tu ti sei particolarmente occupato in varie pubblicazioni e anche sul sito laCostituzione.info (con la tua Banca dati sulla mobilità parlamentare)...
... già! [sorride] ... stavo dicendo che il "voto disgiunto" tutto sommato legittima i passaggi degli eletti, anche dei consiglieri comunali o regionali, che possono dire: "Signori miei, ho ottenuto voti e sono stato eletto perché ho ricevuto preferenze individuali, dirette a me, non grazie alla mia candidatura in quel partito o in quella lista, quindi la mia legittimazione è personale e decido io come 'spenderla'".
Eppure per i consiglieri non vale mai il "voto disgiunto": anche nei comuni "superiori" o nelle Regioni che lo prevedono ancora, nessuno può votare una lista e un consigliere candidato sotto un altro simbolo...
Questo è vero, ma è chiaro che in questa maniera abbiamo una differenza tra i voti ricevuti dalla persona eletta come sindaco o presidente e quelli raccolti dalle liste che l'hanno sostenuta: i consensi per queste ultime possono essere superiori o inferiori a quelli del candidato appoggiato e questo per me ha un peso inevitabile nei rapporti tra carica monocratica e consiglio. A mio parere, se si volesse perseguire in maniera coerente il principio ritenuto alla base del "voto disgiunto", cioè la libertà di voto, all'elettore si dovrebbero dare due schede, una per votare il sindaco o il presidente, l'altra per il voto di lista.
Perdonami, solo per chiarezza: secondo te si dovrebbero distribuire due schede diverse o basterebbe individuare due sezioni ben distinte - più di quanto non avvenga oggi - sulla stessa scheda, con i candidati alla carica monocratica tutti da una parte e le liste tutte dall'altra? Nel diritto elettorale, soprattutto per i #drogatidipolitica, anche il disegno delle schede conta, e parecchio...
No, no, assolutamente si dovrebbero distribuire due schede distinte, che per me sarebbe un modo per rimarcare che si è di fronte a due organi che hanno legittimazioni diverse e rispondono a logiche istituzionali diverse. Già il fatto di unire il voto per il sindaco/presidente e per le liste concorrenti per il consiglio nella stessa scheda, non voglio dire che coarti la volontà di chi vota, ma secondo me fa intendere che le due elezioni vanno e devono andare "a braccetto", essere in "sintonia". Anche per questo ritengo che permettere il "voto disgiunto", con una scheda così composta, sia in contraddizione con la ratio della legge elettorale comunale o regionale, evidentemente identificabile con la volontà di evitare le cosiddette "anatre zoppe", quelle situazioni cioè in cui un sindaco o un presidente eletto non ha all'interno dell'assemblea una maggioranza a proprio favore. Si può contestare quest'impostazione, la si può rivedere, ma per me è incontestabile che il "voto disgiunto" sia contrario al fine che ho appena indicato, perché è proprio permettendo di dare il voto a un aspirante sindaco/presidente e a una lista che non lo sostiene che si pongono le basi per creare una maggioranza consiliare non armonica. 
Già, magari non facendo scattare il prenio di maggioranza per la lista/coalizione legata al vincitore al primo/unico turno se il "voto disgiunto" è stato consistente e la metà più uno dei voti è stata invece ottenuta da una lista o una coalizione non collegata al vincitore. Nella tua impostazione ideale, però, sarebbe comunque possibile votare solo per il sindaco/presidente, senza esprimere consensi per alcuna lista, o il voto dato all'aspirante alla carica monocratica si trasferirebbe automaticamente anche alla lista o - in modo proporzionale ai voti diretti - alle liste della coalizione?
No, secondo me l'elettore dovrebbe assolutamente poter decidere di votare solo per un candidato sindaco/presidente: qui forse potremmo davvero parlare di coercizione se si costringesse a votare anche per forza per una lista. Nella logica che ho esposto prima, sarebbe come se l'elettore prendesse e votasse soltanto la scheda per il candidato sindaco/presidente, senza ritirare l'altra scheda o lasciandola bianca: questo non lo trovo affatto incoerente, mentre trovo per lo meno contraddittorio voler votare, sulla stessa scheda, per un candidato sindaco/presidente e per una lista che non lo sostiene, con tutti gli effetti anti-sistemici che questa scelta può avere.
Posto che ogni scelta sull'ammissibilità del "voto disgiunto" (come ogni altro possibile intervento sulle norme elettorali) è una vera political question, con effetti che non sono indifferenti per questo o per quel partito, la discussione sul punto si inserisce in quella relativa al disegno di legge che mira a modificare le norme per le elezioni nei comuni sopra i 15000 abitanti, prevedendo l'elezione al primo turno del candidato sindaco che superi il 40% dei voti. Posso conoscere la tua posizione su questo?
Intanto ricorderei che la questione del "voto disgiunto", sollevata a proposito della legge elettorale comunale, era sorta come potenziale "correttivo" a situazioni problematiche che io e altri costituzionalisti auditi dalla commissione Affari costituzionali del Senato abbiamo messo in luce. Abbassare al 50% al 40% la soglia da raggiungere per l'elezione al primo turno di un sindaco, evitando così il ballottaggio, avrebbe fatto comunque scattare il premio di maggioranza a favore della lista o coalizione a sostegno del vincitore, senza la previsione di una percentuale minima che questa compagine avrebbe dovuto raggiungere: questo avrebbe creato una situazione simile a quella che la Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza, ha considerato costituzionalmente illegittima.
La Corte ha detto questo nelle sentenze n. 1/2014 e n. 35/2017 relative alle leggi elettorali politiche, non a quelle relative ai comuni o alle Regioni.
Diciamo che la Corte ha speso un argomento forte, parlando di lesione del principio di rappresentanza democratica nel momento in cui il premio di maggioranza viene attribuito senza la previsione di una soglia minima e può crearsi un effetto esageratamente disporporzionale e distorsivo. Io credo che quell'argomento, vista la sua forza, non sia limitato a quelle leggi elettorali, ma sia un argomento "di sistema", tranquillamente riproducibile anche a livello comunale. Ricordo che, di fronte al problema sollevato, il presidente Balboni era parso piuttosto preoccupato. Il centrodestra, a quel punto, ha cercato di ridurre le situazioni in cui, eletto un sindaco al primo turno con poco più del 40%, potrebbe scattare il premio di maggioranza al primo turno a favore di una lista/coalizione rimasta molto al di sotto di quella percentuale e lo ha fatto escludendo la possibilità del "voto disgiunto" (e trasmettendo automaticamente alla lista o alle liste collegate il voto espresso a favore del solo aspirante sindaco). 
Questa scelta contraria al "voto disgiunto", dunque, sembra essere stata fatta soprattutto per eliminare il rischio di effetti che potrebbero essere ritenuti incostituzionali. Ciò detto, io resto contrario all'elezione del sindaco con il 40% al primo turno nei comuni "superiori": ridurre il quorum in quel modo, peraltro in un'epoca di crescente astensionismo, rende realmente possibile l'elezione di un sindaco espressione della "maggiore minoranza". Le percentuali sempre più basse di elettorato che partecipano alle elezioni amministrative sono oggettivamente preoccupanti: permettere al 40% della quota sempre minore di elettori che si reca ai seggi di scegliere il sindaco, in qualche modo, finisce per legittimare l'astensionismo e sicuramente non lo contrasta.
Prima ricordavi come il ruolo e il valore dei partiti politici sia, secondo te, incrinato o eroso dal "voto disgiunto". Pensi che basti non consentire più questo per restituire ai partiti il loro ruolo e, magari, per convincerli a presentare liste a loro direttamente riconducibili?
Ovviamente no: il problema della crisi dei partiti politici è certamente molto più serio e ha cause più profonde. Tuttavia è evidente un fatto: i partiti sono scomparsi a livello locale, nel senso che per effettiva mancata presenza sul territorio o per convenienza, magari nel tentativo di avere un'immagine migliore con più appeal, molte forze politiche finiscono puntualmente per presentare candidature all'interno di liste civiche. Questa sostanziale scomparsa, per me che penso alla costruzione della rappresentanza politica a partire dal basso attraverso soggetti politici radicati, è un problema, che si collega ad altre riflessioni che non abbiamo il tempo di affrontare qui, come quella legata alle risorse economiche e al finanziamento che consenta di svolgere attività politica a livello locale. Credo che una delle tante ragioni alla base dell'astensionismo crescente sia proprio la scomparsa territoriale dei partiti e il fatto che si pensi di surrogare questa presenza e il confronto con l'elettorato attraverso l'attività sui social network o altre forme di comunicazione dall'alto verso il basso. Chi ha la mia età ricorda che i partiti avevano le sezioni sul territorio e chi aveva un problema andava presso la sezione del proprio partito di riferimento e lo faceva presente al segretario: oggi tutto questo si è perso, a volte non si prende più nemmeno un consigliere comunale come riferimento, ma direttamente il sindaco; questo, tra l'altro, ha a che fare anche con il ruolo ormai marginale e a volte servente che hanno i consigli comunali o perfino regionali, che patiscono oltre il dovuto il protagonismo, in parte giustificato dall'elezione diretta, della carica monocratica al vertice della giunta comunale o regionale. Quando si era fatta la riforma prima degli enti locali, poi delle Regioni, si era evitato di scegliere una formula "presidenziale", preferendo quella "neoparlamentare" che avrebbe dovuto mantenere una dialettica virtuosa tra la carica monocratica e le forze politiche a sostegno, ma il progressivo indebolimento dei partiti ha fatto sì che il vero dominus della politica su scala locale sia il sindaco o il presidente della Regione.
Da ultimo, pensi che escludere il "voto disgiunto" possa avere effetti sull'offerta elettorale, in particolare sul piano dei simboli presentati e su quello della raccolta delle firme?
Penso che qualche effetto possa esserci, certo senza poter immaginare poteri taumaturgici di quest'innovazione. Si limiterebbe in qualche modo il fenomeno dell'individualismo elettorale, per cui si fa campagna più per sé che per le forze politiche, così come si irrobustirebbero partiti e coalizioni e l'effetto si vedrebbe anche sulla raccolta firme, perché le candidature verrebbero sostenute perché inserite necessariamente nell'ambito di un programma politico a supporto del sindaco.
Stai immaginando una presentazione di meno "liste del sindaco"?
Beh, questo non credo che sarebbe automatico: lì c'è un problema di frammentazione politica davvero rilevante. Non mi sento ovviamente di parlare di "eccesso di democrazia", ma se un candidato sindaco o presidente di Regione è sostenuto da 12 o 15 liste, alcune delle quali espressamente ispirate al candidato stesso, è chiaro che l'effetto personalistico che si cerca almeno in parte di contrastare abolendo il "voto disgiunto" si ripresenta sotto altre forme. Se i partiti devono rappresentare una sintesi politica, una scheda elettorale "lenzuolo" con 10-15 liste a sostegno dei principali candidati in sostanza finisce per legittimare il ruolo di candidati consiglieri "portatori d'acqua", senza possibilità di essere eletti, ma che potrebbero un giorno chiedere di essere compensati per il sostegno fornito in campagna elettorale. In questo senso potrebbe essere opportuno intervenire sulla legge elettorale, prevedendo che le liste rimaste al di sotto di una certa percentuale non concorrono ai fini del calcolo della quota per l'attribuzione della vittoria al candidato collegato: in questo modo, tra l'altro, si eviterebbe la proliferazione di simboli "rastrellavoti", che tu ben conosci avendoli visti in azione in varie parti d'Italia. Questo non è serio: non sono fenomeni di partecipazione democratica, somigliano piuttosto a un clientelismo di bassa lega.
Però, in questo modo, senza "voto disgiunto" e senza simboli strani, noi #drogatidipolitica che studiamo questi fenomeni ci divertiamo molto meno...
Eh, vabbè, d'accordo [ride], touché!

sabato 29 novembre 2025

Scudo infranto: "La caduta" della Dc nel racconto di Vezzaro

Appare sempre più lontana - e non solo temporalmente - l'epoca in cui "gli indirizzi della politica", ancora più che i suoi palazzi, parlavano. Parlava soprattutto Piazza del Gesù, in particolare l'imponente edificio collocato al numero 46, cioè Palazzo Cenci Bolognetti, che dal 1944 al 1994 ha ospitato la dirigenza della Democrazia cristiana: il palazzo non era di proprietà del partito (nel primo periodo era appartenuto a donna Beatrice Fiorenza dei principi di Vicovaro; dal 1955 fa parte del patrimonio della Fondazione Cenci Bolognetti - Istituto Pasteur, dell'Università di Roma "La Sapienza"), ma lo ha rappresentato a livello nazionale più di ogni altra sede "ufficiale" (come Palazzo Sturzo, affacciato sulla piazza omonima all'Eur, sede degli uffici della Direzione nazionale) o "semiufficiale" (come il Centro Studi Alcide De Gasperi in via della Camilluccia).
Come spesso capita, gli anni più interessanti sono quelli della decadenza, del disfacimento: in questo caso non dell'edificio, bensì del partito che vi si identificava: in tal senso interessa soprattutto il periodo tra il 1993 e il 1995, cioè dall'anno in cui - dopo l'esito schiacciante e anti-status quo dei referendum di aprile, specie di quello sulla legge elettorale del Senato - nella Dc maturò l'esigenza di voltare pagina anche attraverso il ritorno al nome storico "Partito popolare italiano", fino all'anno in cui - dopo la sonora batosta elettorale del 1994 mentre la maggior parte della politica si era avviata con fatica verso il bipolarismo - gli ex democristiani rimasti idealmente a palazzo Cenci Bolognetti prima vissero un'incredibile e inaudita lotta fratricida e poi iniziarono un'eretica e forzata convivenza nello stesso edificio, dividendosi segni distintivi e testate del maggior partito italiano. Proprio a quel periodo è dedicato La caduta, libro pubblicato da poche settimane dall'editore vicentino Ronzani e centrato sulle "cronache della diaspora democristiana": l'autore è Andrea Vezzaro, classe 1987, docente di materie letterarie in una scuola secondaria di secondo grado, per dieci anni consigliere comunale a Villaverla, membro del direttivo dell'Istituto storico della resistenza e dell'età contemporanea della provincia di Vicenza.
Prima di analizzare il periodo più rilevante e considerato nel dettaglio, il libro offre correttamente un'introduzione valida come premessa, collocando il sorgere della "questione democristiana" già con le sconfitte referendarie del 1974 e del 1981 (in materia di divorzio e di aborto), con il trauma del sacrificio di Aldo Moro collocato praticamente a metà tra quei due eventi; nel frattempo, il rapporto via via meno stretto tra Chiesa e Dc e la crisi che si era fatta sempre più consistente nelle istituzioni e in generale nei partiti avevano finito per indebolire la Democrazia cristiana, al pari della fine della guerra fredda (e dell'affievolirsi del timore del "pericolo comunista") e del crescere del consenso per i movimenti autonomisti soprattutto in Lombardia e Veneto. A dispetto degli 11,6 milioni di voti ottenuti (comunque due in meno rispetto al 1987) e del 30% sfiorato alle elezioni politiche del 1992, il tempo della Caduta per il partito "architrave" di quasi cinquant'anni di politica italiana era sempre più vicino: si avvicinò ulteriormente grazie al referendum elettorale celebrato nel 1991 (che assestò un primo colpo mortale al sistema elettorale che aveva caratterizzato l'esperienza repubblicana fino a quel momento e ai partiti come la Dc che in quella cornice si erano consolidati) e all'esplosione delle inchieste sulla corruzione e sul finanziamento illecito alla politica (con numerosi esponenti democristiani coinvolti a vario titolo). Se la prima scissione di rilievo - ma non certo la prima in ambito democristiano: il libro ricorda, per esempio, la breve esperienza del Movimento politico dei lavoratori - era arrivata già all'inizio del 1991 con la nascita della Rete - Movimento per la democrazia promossa dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, lotte intestine al partito furono causa del "pasticcio Quirinale" del 1992 e riuscirono solo in parte i tentativi di autoriformare la Dc, dalla conferenza di Assago di fine 1991 al progetto avviato dal neosegretario Mino Martinazzoli l'anno successivo.
L'analisi del periodo su cui il libro si concentra prende le forme, come il sottotitolo suggerisce, della cronaca passo a passo (fluida ma dettagliata) sostenuta dalla lettura di molte fonti, soprattutto i quotidiani dell'epoca: quelli nazionali, ovviamente, ma anche e soprattutto Il Popolo, come organo ufficiale della Democrazia cristiana, imprescindibile per chi cerca di ricostruire le tappe degli ultimi anni di quella Dc e dei primi mesi del nuovo corso; non mancano, incidentalmente, varie citazioni estratte direttamente da eventi politici registrati da Radio Radicale e disponibili attraverso il suo ricchissimo e preziosissimo archivio online. Il racconto del 1993 parte necessariamente dalla marcia di avvicinamento ai referendum di aprile voluti soprattutto dal gruppo legato a Mariotto Segni (ancora democristiano quando li aveva proposti, ma già attivo da mesi coi suoi Popolari per la riforma e uscito dalla Dc a marzo) e dall'area radicale, in particolare a quello volto a modificare in senso maggioritario la legge elettorale del Senato, e il tentativo difficile di Martinazzoli - pur se benedetto dal cancelliere tedesco Helmut Kohl - di rinnovare politicamente e moralmente il partito. La vittoria schiacciante dei "sì" (cui la Dc aveva concorso) e le successive dimissioni del governo di Giuliano Amato accelerarono i tempi della transizione: il partito avrebbe sostenuto il primo esecutivo a guida tecnica, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (incappando peraltro nel voto contrario all'autorizzazione a procedere per Bettino Craxi), ma la crisi si approfondì dopo l'esclusione della Dc - in tarda primavera - dai primi ballottaggi delle elezioni amministrative celebrate con la scelta diretta del sindaco, una formula che privilegiava le coalizioni e che il partito guidato da Martinazzoli sembrava poco propenso ad accogliere. Così, mentre era iniziata la caccia alla Balena Bianca (o, meglio, ai suoi voti) che le altre forze politiche avrebbero voluto arpionare, si apriva definitivamente la strada all'assemblea programmatica Costituente del 23-26 luglio (anch'essa ascoltabile attraverso Radio Radicale; parte degli interventi più significativi è stata inserita nella seconda puntata del podcast Scudo (in)crociato), un passaggio che avrebbe dovuto produrre "una grande riconciliazione con la società" (parole di Martinazzoli), ma che fece emergere tutte le resistenze di chi, dall'interno, si opponeva a scelte che non fossero una chiara alternativa alle sinistre. Da quei quattro giorni al Palacongressi di Roma - analizzati con buon dettaglio da Vezzaro - uscì la scelta di rinnovare il partito anche grazie al ritorno al nome di Sturzo (scelta formalizzata all'inizio dell'anno successivo), ma anche lo sprint finale verso l'approvazione della nuova legge elettorale politica: il libro ne ripercorre la genesi dal punto di vista della Dc, che accettò - e in qualche modo guidò il percorso "obbligato" verso il sistema misto, grazie al relatore Sergio Mattarella - il sistema misto, ma non il doppio turno nei collegio uninominali ("dicemmo di no - spiegò poi Martinazzoli, in un'intervista ripresa nel volume - non in base a una valutazione razionale, quanto a una istintiva legittima difesa. Infatti, in quei mesi si succedevano in tante città italiane le elezioni amministrative con la nuova legge [...]. Naturalmente c’era il doppio turno, con la possibilità di allearsi, ma siccome noi eravamo ritenuti gli appestati e i lebbrosi, nessuno voleva allearsi con noi"). Il 1993 si avviava così alla conclusione, tra addii (i Cristiano sociali di Ermanno Gorrieri, Pierre Carniti e - allora - Dario Franceschini, nonché la preparata scissione dei centristi del futuro Ccd, concretizzata a gennaio), riavvicinamenti pre-elettorali (il gruppo di Segni, in vista del polo alternativo alle sinistre e a ciò che sarebbe nato nel campo conservatore), nuove sconfitte (con la Dc ancora fuori da molti ballottaggi e senza l'elezione di alcun sindaco alle amministrative d'autunno) e l'incalzare del nuovo, soprattutto delle nuove, necessarie scelte di campo. Che il tempo della Caduta fosse ormai arrivato lo mostrava anche uno degli ultimi fotogrammi del 1993: quello dell'interrogatorio di Arnaldo Forlani, segretario precedente della DC, da parte di Antonio Di Pietro al processo Enimont, avvenuto il 17 dicembre 1993 a Milano e rimbalzato un numero infinito di volte in televisione. Dodici giorni dopo, invece, sarebbe fallito un incontro tra Martinazzoli e Silvio Berlusconi, ormai ben convinto a mettere insieme un'alternativa all'ampia coalizione guidata dal Pds, ma non in grado di convincere l'ultimo segretario democristiano (in procinto di tornare popolare) a costruire la compagine con il pallottoliere.
Se il 1993 si era concluso con una sostanziale sconfitta elettorale, un interrogatorio senza sconti e il gran rifiuto (senza viltade, ma ragionato) a Berlusconi, il 1994 si aprì con il lancio del Patto per l'Italia, con Segni e Martinazzoli come principali figure promotrici della coalizione di centro, alternativa ai nascenti Progressisti e al gruppo includente la Lega, e con una scissione annunciata, quella guidata da Pierferdinando Casini e Clemente Mastella, che il giorno stesso del caro del ritorno al Ppi fecero muovere i primi passi al Centro cristiano democratico, gonfiandone la vela disegnata da Giugiaro. Pochi giorni dopo Berlusconi annunciò ufficialmente la sua discesa in campo, saltò una pur debole alleanza siglata tra Segni, Rocco Buttiglione e Roberto Maroni (merito di Vezzaro ricordare questo passaggio spesso dimenticato, peraltro mai digerito da ampi settori del Ppi) e ne venne siglata un'altra, tra Forza Italia, Lega Nord (al Sud sostituita da Alleanza nazionale), Unione di centro (nome allora adottato dai liberali conservatori di Raffaele Costa) e dal Ccd, con Casini che non perse l'occasione di bollare l'operazione di Segni, "l'uomo che ha fatto e ha contribuito con i referendum a immetterci in un nuovo sistema istituzionale", come una sorta di "furberia" di chi cerca di stare "in una posizione da ago della bilancia", cioè "l'esatto contrario di quello a cui i referendum hanno obbligato il paese". Il libro ricorda anche le "primarie" last minute organizzate poco prima della scadenza dei termini per depositare le candidature nell'intera Irpinia, che non riuscirono tuttavia a salvare la candidatura di Ciriaco De Mita con il Patto per l'Italia (destino condiviso dalla maggior parte dei parlamentari storici democristiani). 
Schiacciato, anzi, "stritolato" tra il centrodestra dei Poli a geometria variabile e la sinistra dei Progressisti (soprattutto nella rappresentazione data dai media), il Patto per l'Italia andò malissimo nei collegi uninominali - ne vinse solo quattro alla Camera e tre al Senato, tutti in Campania e Sardegna - e il Ppi, col suo 11%, fece meglio del Patto Segni ma vide assottigliarsi di molto la sua squadra di eletti. E se giustamente Vezzaro dedica - come pure nelle pagine precedenti - una certa attenzione al suo Veneto, non può non colpire questa citazione di Gerardo Bianco, ripresa nel libro: "Nei contatti con ambienti popolari, contadini in particolare, ho incontrato uomini e donne costernati dall’assenza nei manifesti e nelle schede del simbolo della Democrazia cristiana, di cui avevano lucida memoria di partito che si era impegnato con successo per la loro elevazione sociale. Ricordo ancora con commozione lo sconcerto di un contadino analfabeta del mio paese che uscì dalla cabina elettorale senza aver votato perché non aveva trovato lo scudo crociato. Un sentimento e una consapevolezza che invece, per diverse ragioni, erano venuti meno in tanti appartenenti al ceto medio" (e pensare che lo scudo c'era, almeno alla Camera sulla scheda del proporzionale, sia pure con un altro nome...). Il risultato pesante e di certo insoddisfacente del Ppi (specie se messo a confronto con gli esiti precedenti, sotto il profilo organizzativo), con le dimissioni via fax di Martinazzoli e la reggenza affidata a Rosa Iervolino, ebbe inevitabilmente effetti sul seguito, in particolare sul comportamento di alcuni parlamentari eletti col Patto per l'Italia (che alla Camera sostennero la nascita del governo Berlusconi o, uscendo dall'aula al Senato, ne consentirono il sorgere), sull'ulteriore calo alle europee e soprattutto sull'esito del primo congresso del Partito popolare italiano: il libro di Vezzaro ripercorre con puntualità le tappe di quell'assise celebrata all'Hotel Ergife di Roma, riassumendo gli interventi principali e dando conto della vittoria di Rocco Buttiglione (e del suo progetto "non tanto [di] scegliere una collocazione politica, quanto [di] parlare con la destra e la sinistra cercando di influenzarne il processo di trasformazione") su Nicola Mancino, celebrata con tifo da stadio dai sostenitori del filosofo. In quella fase Buttiglione agiva ancora animato dall'idea che i Popolari dovessero "parlare a sinistra, dialogare a destra con la consapevolezza di poter essere determinanti visti i venti di crisi interni al Polo a causa degli atteggiamenti ostili della Lega", incontrando Berlusconi e Bossi come D'Alema: particolare attenzione viene data al convegno organizzato all'inizio dell'autunno del 1994 dal periodico rotondesco e ex antiDeMitiano "Proposta '80", per il valore che avrebbe assunto guardato col senno del poi. Che il seguito della storia avrebbe riservato pagine tanto concitate quanto impagabili, però, fu dimostrato - oltre che dai fatti che condussero alla fine del governo Berlusconi mentre l'anno stava per chiudersi - dall'episodio del "fuori onda" di Buttiglione con il forzista Antonio Tajani in occasione del primo turno delle amministrative d'autunno (più fortunate per il Ppi, spesso alleato con la sinistra), ultimo fotogramma post-democristiano indelebile di quel 1994 (insieme a quello - ma emerse più tardi - dell'incontro tra Bossi, Buttiglione e D'Alema - a base di sardine, pan carrè, lattine e mozioni di sfiducia da preparare).
Inevitabilmente, però, l'attenzione maggiore corre al capitolo successivo, dedicato al 1995: l'anno dell'esplosione del Ppi in vista delle prime elezioni regionali con coalizioni a confronto e l'indicazione quasi diretta del presidente della giunta (una riforma sostenuta anche dal Ppi, soprattutto grazie all'apporto di Leopoldo Elia). Se l'anno era iniziato con i Popolari compatti nel sostegno al governo tecnico di Lamberto Dini, la trasformazione del Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale (segno, secondo Buttiglione, della nascita di una destra democratica con cui sarebbe stato possibile dialogare) aveva innovato almeno in parte il panorama politico; mentre a Sanremo vinceva Come saprei cantata da Giorgia e l'esecutivo tentava di salvare i conti con ben due manovre correttive, le prime elezioni suppletive dell'anno e soprattutto la sparizione del sistema proporzionale dalle regionali imponevano una scelta sulle alleanze, possibilmente omogenea. 
Vezzaro nel libro dà conto di ogni passo della "tempesta perfetta", consumatasi soprattutto a marzo ma durata mesi. Prima l'accordo per le regionali stretto da Buttiglione con tutto il centrodestra (8 marzo), nonostante la direzione nazionale pochi giorni prima avesse escluso alleanze con An; poi il consiglio nazionale convocato d'urgenza all'Ergife (11 marzo), in cui la linea di Buttiglione - anche grazie al sostegno determinante di Emilio Colombo, Giuseppe Gargani e Franco Marini - fu sconfitta in un voto di fiducia 102 voti a 99; la scelta di Buttiglione di non dimettersi (15 marzo) a seguito della decisione dei probiviri (il giorno prima, contestata dalla nuova maggioranza) di annullare il deliberato del consiglio; un nuovo consiglio nazionale (16 marzo) in cui gli avversari di Buttiglione di eleggere come nuovo segretario Gerardo Bianco, ma si ritrovarono espulsi da Buttiglione il giorno dopo. L'ordinanza del giudice Luigi Macioce del tribunale civile di Roma, pronunciata il 23 marzo a seguito del ricorso del presidente del consiglio nazionale Giovanni Bianchi, avrebbe dovuto fare chiarezza, ma finì per certificare la situazione paradossale di un segretario che rimaneva tale anche se regolarmente sfiduciato (e, non essendo obbligato a dimettersi, manteneva i suoi poteri, anche di delega del simbolo,  a nulla valendo l'elezione di Bianco), ma non avrebbe potuto attuare la sua linea politica. Dopo la decisione del tribunale il conflitto divampò di nuovo: Buttiglione convocò la direzione generale senza coloro che gli avevano votato contro, il consiglio il 25 marzo si riunì di nuovo per rieleggere Bianco, che il 3 aprile fu oggetto di un esposto penale da parte di Buttiglione. 
Nel frattempo, la parte fedele a Buttiglione aveva presentato le candidature alle regionali nelle liste con Forza Italia usando il nome "il Polo popolare", mentre quella che si riconosceva in Bianco formò liste proprie quasi sempre nell'ambito del centrosinistra, utilizzando lo scudo senza croce inserito in un gonfalone (il libro, in proposito, cita l'intervista a Giuliano Bianucci in cui si racconta la genesi del simbolo).  Colpisce leggere le parole pronunciate subito dopo l'ordinanza Macioce dallo storico Gabriele De Rosa - già parlamentare, tra i promotori della scolta del 1994 - per il quale "questo conflitto intorno al simbolo è anacronistico. […] Certo, sarebbe stato meglio che rimanesse al partito di Bianco. […] Mai io avrei trascinato questa questione davanti al giudice. […] Anche i simboli hanno una nascita, un declino e una fine. […] Invece si è caricata la questione del simbolo di valenze eccessive, è stato un aggrapparsi alla memoria più che alla capacità di presa sull'elettorato. Io dico che per i giovani non sarà questione di vita o di morte: un partito, del resto, deve vivere sui programmi e sugli ideali". Fu sicuramente, e a lungo, questione di carte bollate la vicenda della titolarità del partito e della sua amministrazione: una prima ordinanza il 3 giugno diede formalmente confermò Buttiglione segretario (senza rimuovere la sfiducia), la seconda - emessa il 24 luglio e avente Macioce come giudice relatore - si inventò la formula della cogestione obbligatoria del patrimonio da parte dei due tesorieri, immaginando che quella situazione imposta durasse poco (sarebbe durata 7 anni). Questa seconda ordinanza nel libro non c'è, ma ovviamente c'è traccia dell'accordo stipulato il 24 giugno in un hotel nei pressi di Cannes tra Buttiglione e Bianco, per concludere in qualche modo lo scontro tra le due anime, prefigurando la celebrazione di un doppio congresso, l'assegnazione del nome del Ppi alla parte legata a Bianco e lo scudo crociato a quella riferita a Buttiglione. Col senno di poi, non possono lasciare indifferenti le parole di Bianco - peraltro pronunciate in occasione della presentazione, tra l'altro, del libro Per un pugno di simboli - su quelle settimane così concitate e dilanianti: "Io mi sono trovato, nel 1995, sotto le pressioni della Curia romana, degli ambienti più elevati del mondo cattolico, e sotto la pressione dello stesso Kohl perché si chiudesse una vicenda giudiziaria molto infelice che era stata aperta da una impensabile e incomprensibile sentenza di un magistrato romano che aveva deciso che il segretario politico, in minoranza, continuava a essere il titolare del simbolo. Ecco, forse avrei resistito di più e non avrei accettato quell’incontro di Cannes che ha portato poi alla conclusione di questa vicenda triste. […] Vedendo questo simbolo sento il dramma di quello che è accaduto: è un simbolo che è stato profanato, nelle liti giudiziarie, è stato manomesso ed è andato, peraltro, in una direzione esattamente opposta rispetto a quella della storia e l’intuizione politica dei cattolici democratici".
Il libro La caduta si conclude analizzando il tempo successivo degli "(ex) democratici cristiani senza la Dc", con il seguito della storia del Ppi, guidato da Bianco, Marini e Pierluigi Castagnetti (passando per la stagione del centrosinistra fino alla nuova vittoria berlusconiana del 2001, preceduta dalla scissione di Democrazia europea) fino all'accantonamento in favore della Margherita, la nascita del Cdu buttiglioniano (e il suo percorso a ostacoli con il Ccd), la meteora dell'Udr cossighiana (che spaccò Ccd e Cdu) e il proliferare di nuove sigle, per poi tentare una ricomposizione dopo le elezioni del 2001, con la "fusione a freddo" dell'Udc. Il volume non manca di considerare anche i destini di Rinnovamento italiano, dei Democratici legati a Prodi e di varie altre formazioni (inclusi gli ex Dc in Forza Italia, partito che aderì al Ppe nel 1999). 
Andrea Vezzaro nel suo volume non tenta di offrire - o peggio imporre - un'analisi ex post complessiva: si impegna soprattutto a ricordare e ben contestualizzare le puntate precedenti, nella consapevolezza che chi non c'era potrebbe non conoscerne qualcuna e chi c'era potrebbe averne dimenticate o "perse" altre. Senza tutti (o quasi) quei passaggi, può risultare oggettivamente difficile capire come si sia arrivati alla diaspora/frammentazione dei democratici cristiani, così come forse non si spiegherebbe perché di quando in quando qualcuno senta il bisogno di dare credito a chi - in anni ben successivi al 1995 - rivendica una continuità anche giuridica con la Democrazia cristiana che ha operato fino all'inizio del 1994 (a prescindere dalla fondatezza dei vari tentativi di riattivazione del partito) e ripropone il messaggio "Torna la Dc, torna anche tu". In questo senso, ora che Palazzo Cenci Bolognetti non ha ormai nessuna presenza democristiana, il lavoro di riproposizione delle cronache della dissoluzione democristiana è senz'altro meritorio.
Non meno interessante - e solo apparentemente minore - sarebbe poi scoprire come la periferia, cioè le articolazioni locali della Democrazia cristiana (e le loro evoluzioni), ha vissuto quel periodo di profonda trasformazione. Una storia che va senz'altro ricostruita sul territorio, ma letteralmente, percorrendo le strade del Paese per raggiungere le sedi archivistiche di volta in volta ritenute d'interesse. Racconta infatti nella prefazione al libro di Vezzaro Flavia Piccoli Nardelli (figlia di Flaminio, deputata Pd per due legislature, dal 2013 al 2022) che l'Istituto Luigi Sturzo - di cui è stata per oltre vent'anni segretaria generale - aveva recuperato circa metà dei settanta archivi provinciali della Dc esistenti agli inizi degli '90, ma "per decisione di un comitato scientifico costituito ad hoc, questi archivi non vennero depositati a Roma, a Palazzo Baldassini, nella sede dell’Istituto [...], come accadde per tutto il materiale relativo agli organi centrali del partito. Dichiarati proprietà dell’Istituto, furono affidati con convenzioni di deposito di volta in volta agli Archivi di Stato, agli archivi diocesani o ad archivi di fondazioni che garantissero massima sicurezza nella gestione". Quel progetto, denominato "Gli archivi in rete", secondo Piccoli Nardelli ha garantito "un buon rapporto con il territorio che era rappresentato da uno storico locale scelto di volta in volta, ma anche facilità di consultazione e rapido riordino con la garanzia di una fruizione allargata". Scrivere la storia della "caduta diffusa" della Democrazia cristiana e delle vicende accadute in seguito, dunque, richiederà un certo sforzo e buona volontà (a macinare i chilometri necessari, oltre che a consultare gli inventari già presenti e disponibili), ma sarà di sicura soddisfazione, utile a completare il racconto agile e interessante offerto da Andrea Vezzaro ai suoi futuri lettori.

venerdì 28 novembre 2025

"Smettete di usare nome e simbolo della Dc, la offendete"

Tocca ripetersi, ancora una volta: prima o  poi della Democrazia cristiana, delle disavventure legate al suo nome o al suo simbolo si finisce per riparlare. Per qualche nuovo tentativo di rivendicare l'uso della denominazione o dello scudo crociato, per nuove cause o minacce di cause, per qualche partecipazione elettorale interessante (di solito non sul piano dei risultati raccolti) o per qualche dichiarazione di rilievo. Quest'ultimo caso è quello che interessa stavolta, per la natura dei dichiaranti e per il contenuto della dichiarazione.
Ieri pomeriggio, infatti, alle agenzie è arrivata una breve nota a firma di vari democristiani di lunghissimo corso: Paolo Cirino Pomicino (classe 1939, deputato per sei legislature, ministro dal 1988 al 1992), Giuseppe Gargani (classe 1935, deputato per sei legislature e poi europarlamentare per tre), Calogero Mannino (classe 1939, sei legislature da deputato e una sa senatore, vari incarichi da ministro), Ortensio Zecchino (classe 1943, un mandato da europarlamentare, quattro legislature da senatore, nonché un ruolo da ministro ma quando ormai la Dc aveva cambiato nome da qualche anno) e Vito Bonsignore (due legislature da deputato e due da europarlamentare per Udc e poi Pdl). Vale la pena riportare di seguito la loro breve nota per intero:
A quegli amici scappati di casa che da tempo utilizzano come simbolo lo scudo crociato e come nome la Democrazia cristiana chiediamo di smetterla di offendere la memoria del più grande partito che l'Italia repubblicana abbia avuto. Un'offesa che diventa ancora più indigeribile per i risultati che ottengono, raccogliendo una quantità risibile di voti, oscillante tra l'1 e il 2 per cento, e per la totale assenza di vita democratica al loro interno.
Parole che pesano come macigni, specie se si considera che, al di là del curriculum politico dei dichiaranti, tra loro c'è Zecchino, presidente del Consiglio direttivo del Comitato Nazionale per le celebrazioni dell’80° anniversario della nascita della Democrazia cristiana: quelle poche righe, quindi, suonano come un invito "ufficiale" a desistere. Un invito non troppo diverso, in fondo, da quello lanciato il 21 febbraio 2008 da due ex presidenti della Repubblica (Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro) e dal sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, peraltro poche settimane prima che la provvisoria riammissione della Dc guidata da Giuseppe Pizza stava mettendo a rischio lo svolgimento delle elezioni politiche già abbondantemente indette: 
Cari giovani Amici leader della diaspora democratica-cristiana! Chi vi rivolge questo appello ha militato da sempre nel glorioso partito della Democrazia Cristiana, erede del Partito Popolare fondato da Don Luigi Sturzo. Il nostro appello è che nessuno dei movimenti politici da voi fondati e guidati voglia usare il simbolo dello scudo rosso-crociato con la scritta "Libertas", che Don Sturzo derivò dalla bandiera che aveva sventolato gloriosamente sul Carroccio nella storica battaglia di Legnano. Riteniamo che sarebbe bene affidare la custodia di questo simbolo alla fondazione intitolata al suo ideatore e cioè all'Istituto Luigi Sturzo. Con amicizia.
Cossiga, Scalfaro e Andreotti non ci sono più da qualche anno, quindi il compito di rivolgere un appello ai democristiani non pentiti e mai domi se l'è assunto qualcun altro. Non si è fatta attendere la risposta di Gianfranco Rotondi, che da un paio d'anni ha ripreso a fare politica con la "sua" Dc:
Condivido l'appello degli ultimi leader Dc viventi: fallita la riunificazione di nome e simbolo della Dc in un nuovo partito, l'utilizzo delle antiche effigia rappresenta una profanazione, peraltro inutile visti i risultati elettorali. Il mio partito ha come simbolo il mio cognome, già ho smesso di usare l'acronimo assoluto 'Democrazia cristiana'. Peraltro in Campania la mia lista ha avuto gli stessi voti (pochi) dello scudo crociato. Per quanto mi riguarda sono pronto a condividere la possibilità di conferire nome e simbolo della Democrazia Cristiana all'Istituto Sturzo o ad una fondazione.
Dalle parole di Rotondi s'intende che lui ha intuito che gli autori del messaggio ce l'avevano un po' anche con lui (nonostante Cirino Pomicino l'ultima legislatura da deputato l'abbia agguantata nel 2006 come eletto nella lista che la Democrazia cristiana per le autonomie aveva presentato con la parte di Nuovo Psi fedele a Gianni De Michelis). In Campania, in effetti, l'Udc con lo scudo crociato e l'alleanza con la Dc di Raffaele De Rosa (successore di Elisabetta Trenta e Antonio Cirillo) ha preso 9771 voti, pari allo 0,49%, mentre la Dc con Rotondi (e la sua Balena bianca sorridente) ne ha raccolti 8677 (lo 0,43%). In Puglia è andata peggio alla lista La Puglia con noi, cui ha concorso anche la Dc - De Rosa, ferma allo 0,08% (1127 voti), mentre non è dato sapere quanto l'Udc abbia contribuito ai 106853 voti (8,04%) raccolti dalla lista della Lega e del Nuovo Psi. La prestazione migliore, volendo, l'ha fatta l'Udc nel suo Veneto (la Regione del segretario, Antonio De Poli), ottenendo 28109 voti (l'1,68%) e facendo scattare un eletto essendo parte della coalizione vincitrice.
L'invito vibrante a desistere con l'uso del nome o dello scudo crociato - a maggior ragione, s'immagina, se accompagnato a qualche rivendicazione di continuità giuridica con la Dc storica - difficilmente sarà accolto da tutti. Basti pensare all'Udc, che quando si parlava di "Partito della nazione" aveva immaginato di lasciare da parte lo scudo crociato (ma con l'idea di affidarlo a un soggetto terzo per impedire che altri partiti se ne appropriassero come res derelicta), ma poi non ha mai fatto nessun passo reale in questa direzione; oppure si pensi a tutti i tentativi di "riattivare" la Dc che nel 1994 aveva scelto di cambiare nome ma, evitando di svolgere un congresso, l'aveva fatto male, generando l'idea seducente che fosse dormiente da allora mentre i partiti "politicamente eredi" nascevano, operavano e si scindevano, bisticciando tra loro. In tutto questo percorso, bisogna dare atto a Gianfranco Rotondi di avere limitato ad alcuni periodi (2004-2008, 2013, 2018-2019, 2023-oggi, anche se usa più spesso l'acronimo Dcr) l'uso del nome della Dc - peraltro ottenuto legittimamente dall'associazione Partito popolare italiano nel 2004 - e di avere usato ancora meno lo scudo crociato (essenzialmente dal 2021 con Verde è Popolare e tra la fine del 2023 e l' inizio del 2024 quando ha varato la sua Dc con Rotondi, prima che un primo verdetto della corte d'appello di Cagliari gli suggerisce di sostituire lo scudo con la balena bianca sorridente). Proprio Rotondi, interpellato espressamente da questo sito, ribadisce: "Credo che la vicenda politica dello scudo crociato sia conclusa, non c’è più tempo", lasciando intendere - senza dirlo espressamente - che ogni ulteriore tentativo di rivendicare nome e simbolo della DC o anche solo di perseverare nell'uso già fatto possa soltanto nuocere alla buona qualità dei rapporti tra democristiani. Che, nella loro semiacclarata eternità, hanno memoria lunga, anche se è passato un trentennio dalla Caduta (di cui sarà bene parlare più avanti).

giovedì 27 novembre 2025

Salvini, "via Premier dal simbolo della Lega"

È appena calato il sipario su una procedura elettorale di rilievo (le regionali in Veneto, Campania e Puglia, dopo il precedente voto in Valle d'Aosta, Marche, Calabria e Toscana, spacchettato lungo tutto l'autunno) ed è già tempo di pensare a simboli nuovi; più esattamente, a rinnovare qualche simbolo esistente (dopo gli esperimenti già fatti proprio durante queste regionali). Novità che probabilmente riguarderanno almeno in parte anche il simbolo della Lega guidata da Matteo Salvini, almeno stando a quello che lo stesso segretario federale ha dichiarato direttamente.
Intervistato da Lorenzo De Cicco per la Repubblica (nel quotidiano uscito ieri), Salvini ha sostanzialmente confermato il ruolo di leader di Giorgia Meloni per il centrodestra anche alle prossime elezioni politiche previste per il 2027, dunque come candidata naturale alla Presidenza del Consiglio ("Sta facendo molto bene il premier, spero continui"). E se sulle modifiche apportabili alla legge elettorale non si è sbottonato granché, lasciando che tecnici e #drogatidipolitica si esercitino in ipotesi e scenari da rincorrere o da evitare ("È una delle cose che mi appassiona di meno nella vita. Va garantito che chi vince, governi. E vanno coinvolte le opposizioni. Su maggioritario e proporzionale sono neutrale. L'importante è rinsaldare il legame dell'eletto con il territorio"), ha detto qualcosa sul futuro del simbolo della "sua" Lega. A De Cicco che gli aveva chiesto se fosse vero che per le elezioni politiche si stava pensando a una modifica del simbolo, Matteo Salvini ha risposto: "Abbiamo diverse proposte per modernizzarlo. Visto che sarà Meloni la candidata premier, sarebbe curioso tenere la scritta 'Salvini premier'. Alberto da Giussano invece resterà".
Da una parte è facile notare che nell'ultima tornata di elezioni regionali il cognome di Salvini è stato sostituito da quello del rispettivo candidato presidente (anche quando non era diretta espressione della Lega), così come in passato sono stati inseriti i riferimenti agli aspiranti sindaci o presidenti. Dall'altra, basta guardare le altre regionali di quest'anno per ritrovare il riferimento a Salvini così come lo si era visto a partire dalle elezioni politiche del 2018. Ci sono stati, dunque, due diversi atteggiamenti, entrambi sicuramente frutto di scelte del vertice del partito (o, comunque, da questo condivise). Va peraltro dato atto che il contrassegno coniato per le elezioni politiche del 2018 - all'epoca come espressione congiunta della Lega Nord e della Lega per Salvini premier, poi solo di quest'ultima, grazie al "prestito" di Alberto da Giussano da parte della Lega Nord - è rimasto intatto da allora in tutte le occasioni elettorali di livello nazionale, dunque ogni modifica, anche lieve, avrà sicuramente rilievo.
Certo è che, se sarebbe certamente curioso mantenere la dicitura "Salvini premier" in un contrassegno in cui l'aspirante Presidente del Consiglio della coalizione fosse un'altra persona (mentre invece sarebbe meno paradossale se la Lega per Salvini premier scegliesse di non cambiare il proprio nome: sarebbe comunque legittimo mantenere visibile il progetto e l'auspicio di fare arrivare Matteo Salvini a Palazzo Chigi nella "ragione sociale" del soggetto politico), non ci sarebbe ormai nulla di strano a mantenere il riferimento al cognome del segretario federale nel fregio elettorale, al di sotto dell'immagine del guerriero di Legnano che ormai è finita sulle schede elettorali di tutta l'Italia (sempre con il leon da guèra sullo scudo, votato anche nelle Regioni del Sud). Del resto, il cognome di Umberto Bossi comparve per la prima volta nel 2008, curiosamente non nel 2006, quando tutti i partiti del centrodestra decisero di correre con il cognome del loro leader in evidenza nel contrassegno. Allora però anche quello era un elemento della competizione, mentre oggi (e nel 2027) il ruolo di aspirante Presidente del Consiglio non sembra affatto in discussione.

martedì 18 novembre 2025

Campania, simboli e curiosità sulla scheda (di Gabriele Maestri e Arturo Famiglietti)


Senza alcun dubbio la Regione più affollata di questo turno elettorale è la Campania, anch'essa destinata a un inevitabile cambio di guida, dopo il doppio mandato consecutivo di Vincenzo De Luca: il voto, peraltro, si terrà in un giorno decisamente particolare, dal momento che il 23 novembre ricorre il 45° anniversario del terremoto in Irpinia. Sono infatti 6 i candidati alla presidenza della giunta regionale (anche se uno di questi ha annunciato il proprio ritiro), sostenuti da 20 liste in tutto (benché nella provincia di Avellino i simboli sulle schede siano 19). Si tratta, però, di un un numero comunque ridotto rispetto alle 26 formazioni in corsa in occasione del precedente turno elettorale (a sostegno di 7 candidature). 
I simboli saranno considerati guardando al manifesto della circoscrizione di Napoli. 
 
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Giuliano Granato

1) Campania popolare

Ad aprire la rassegna delle candidature è Giuliano Granato, co-portavoce di Potere al Popolo! e già candidato per la guida della Campania nel 2020 proprio per quella forza politica. Questa volta l'unica lista presentata a sostegno di Granato è Campania popolare, che comprende - oltre che Pap! - anche Partito comunista italiano e Partito della rifondazione comunista. Nel contrassegno in alto trova posto il nome della lista (bianco su segmento convesso rosso, con un piccolo "graffio" bianco); al centro ci sono le miniature dei simboli di Pci, Pap! e Prc, mentre in basso si legge il riferimento al candidato, col nome tinto di rosso. 
 

Roberto Fico

2) Noi Di Centro - Noi Sud

Sono otto le liste che sostengono la candidatura alla presidenza della giunta campana di Roberto Fico, ex presidente della Camera. Ironia della sorte, la prima - almeno in provincia di Napoli - è una di quelle che si immaginerebbero più lontane dal candidato stesso. Si tratta infatti della formazione che unisce Noi Di Centro, partito fondato da Clemente Mastella, e Noi Sud, forza politica presieduta dall'ex ministro Vincenzo Scotti e che ha come segretario l'ex deputato Antonio Milo (nel 2015 si era schierata con il centrodestra). Il contrassegno, sul fondo blu, accosta i nuclei grafici dei due simboli, con l'omino stilizzato tricolore di Noi Sud a sinistra e il campanile - stavolta bicolore - di Noi Di Centro (ereditato dall'ultima versione dell'Udeur) a destra, ma l'elemento più visibile - oltre ai nomi delle due forze politiche - è il cognome di Mastella, collocato in alto e disposto ad arco. Pur non essendo visibile il suo simbolo, anche +Europa sostiene la lista (e Fico) grazie alla candidatura a consigliere di Raffaele Mosca.
 

3) A testa alta

Seconda lista della coalizione del "campo largo" a favore di Fico è A testa alta, una delle più discusse, dal momento che si tratta della formazione promossa da Vincenzo De Luca e che schiera tra i candidati persone vicinissime al presidente uscente della Regione (mai particolarmente tenero con il MoVimento 5 Stelle e i suoi esponenti). Il simbolo, molto semplice, contiene soltanto il nome in bianco - scritto con carattere Bodoni, insolito per i contrassegni elettorali - sullo sfondo sfumato blu; in una versione precedente, peraltro, era presente anche il riferimento allo stesso De Luca, poi rimosso per probabili valutazioni di opportunità (probabilmente coincidenti con una richiesta in tal senso da parte del candidato presidente). La lista di fatto eredità anche il ruolo (e le candidature) di Campania libera, storica "lista del presidente" legata a De Luca, per la cui presentazione stavolta sono mancate le condizioni (si veda sopra).
 

4) Casa riformista

La terza lista della compagine su cui Fico può contare - benché, anche qui, fosse lecito dubitare del suo sostegno prima della presentazione ufficiale delle candidature - è Casa riformista, dunque il progetto elettorale promosso soprattutto da Italia viva e che ha preso avvio dalle elezioni regionali di questi mesi, magari con la prospettiva di irrobustirsi e diventare più stabile. Il simbolo è quasi identico a quello inaugurato in occasione delle elezioni calabresi: cambia infatti soltanto il riferimento alla regione, sul segmento inferiore sfumato dal blu al fucsia, gli stessi colori che tingono il nome della lista (in alto) e la casa, collocata al centro (con la finestra bicolore). 
 

5) Partito democratico

Come quarta lista della coalizione che appoggia Fico, nella circoscrizione di Napoli, si trova quella del Partito democratico, che nel 2020 fu la più votata della coalizione che portò De Luca per la seconda volta alla presidenza della Regione. Il contrassegno riproduce fedelmente il simbolo ufficiale del Pd, con il solo logo del partito all'interno del cerchio, senza alcuna aggiunta di nomi (del resto il riferimento a De Luca era presente nei contrassegni del 2010 e del 2020, non in quello del 2015, anno della prima vittoria dell'ex sindaco di Salerno). 
 

6) Avanti Campania

La quinta lista, o per lo meno la sua idea, era nota da tempo: Avanti Campania, infatti, era la declinazione locale del progetto elettorale Avanti, proposto dal Partito socialista italiano per aggregare forze riformiste in occasione del confronto con gli elettori. Uno dei simboli di esempio diffusi fin dall'inizio, tra l'altro, era proprio quello pensato per la Campania, regione in cui evidentemente si era già certi di presentare la lista (cinque anni fa era scattato un consigliere). Nella parte superiore, dunque, c'è il garofano bianco dai contorni rossi che sormonta la parola "Avanti", con il riferimento alla Campania subito sotto (e molto più piccolo); nel segmento rosso inferiore c'è il simbolo del Psi in miniatura. Non è passata inosservata, nella lista di Napoli, la presenza di Valeria Ciarambino, già candidata alla presidenza per il M5S nel 2015 e nel 2020; oltre a lei, ci sono anche Luigi Cirillo (eletto col M5S nel 2020, passato con il Pri durante la legislatura e nel gruppo sorto con Azione, mentre ora è nel gruppo anche del Psi), i membri del gruppo misto Peppe Sommese (eletto nei Liberaldemocratici 5 anni fa, poi nel gruppo di Azione), Giovanni Mensorio (eletto nel Centro democratico, ora esponente del Nuovo CDU) e Fulvio Frezza (eletto nella lista di Più Campania in Europa).
 

7) Alleanza Verdi e Sinistra

Tra le liste presentate in appoggio alla candidatura di Roberto Fico c'è anche quella di Alleanza Verdi e Sinistra. Anche in questo caso non c'è quasi nulla da dire sul simbolo, dal momento che è identico a quello elaborato per le elezioni politiche del 2022 - con la convivenza nello stesso cerchio dei nuclei grafici di Europa Verde e di Sinistra italiana - e a quello presentato alle europee di due anni dopo, nonché in questo turno di elezioni regionali (in lista ci sono anche candidati sostenuti da Possibile, pur mancando riferimenti simbolici nel contrassegno). Nel 2020 Ev era riuscita a ottenere un consigliere (grazie all'1,82% ottenuto anche con l'apporto di Demos) e il cammino della lista riparte soprattutto da lì.
 

8) MoVimento 5 Stelle

Non poteva naturalmente mancare nella coalizione del "campo largo" la lista del MoVimento 5 Stelle, quella per cui Roberto Fico si era candidato alla presidenza della Regione nel 2010 (ottenendo l'1,35%) e con cui era diventato prima deputato (e presidente della Commissione di vigilanza Rai) e poi presidente della Camera. Il contrassegno è identico a quello già visto negli appuntamenti di quest'anno delle elezioni regionali: si tratta dell'ultima versione del simbolo ufficiale, elaborata nel 2021, con l'inserimento del riferimento al 2050 come anno della neutralità climatica nella parte inferiore del cerchio, tinta di rosso.
 

9) Roberto Fico presidente

La compagine del "campo largo" si completa con la lista Roberto Fico presidente, chiaramente la più vicina al candidato alla guida della Regione (indicata com'è formata da esponenti della società civile, anche se non pochi hanno una storia politica in vari partiti: ci sono anche candidati di Movimento Equità Territoriale di Pino Aprile, di Alleanza Democratica dell'ex parlamentare Aniello Formisano, di Volt e dell'associazione Primavera legata all'ex ministro Vincenzo Spadafora); nel simbolo, a fondo blu, spiccano soprattutto la sagoma della Campania marcata da una "spunta" gialla e il cognome del candidato, scritto sempre in giallo a caratteri cubitali. Il simbolo, peraltro, non sarà presente sulle schede della provincia di Avellino, perché era stato superato di 40 firme il numero massimo di sottoscrizioni che era possibile raccogliere e presentare all'ufficio elettorale; tanto il Tar di Salerno quanto il Consiglio di Stato hanno confermato l'esclusione, ribadendo che non era possibile, nemmeno secondo la Corte costituzionale, "valutare in concreto se il superamento del numero massimo di sottoscrizioni degli elettori abbia comportato o meno un vulnus ai principi tutelati dalla normativa", dovendosi - in mancanza di criteri oggettivi per valutarne l'applicabilità - applicare rigorosamente l'esclusione delle liste la cui raccolta firme è andata oltre i limiti previsti per evitare l'accaparramento di sottoscrittori.
 

Carlo Arnese 

10) Forza del popolo

"Non mi voterò neppure io e non votatemi": questa era stata, nei primi giorni di novembre, la dichiarazione sorprendente di Carlo Arnese, dirigente medico presso l'Asl Napoli 1 Centro (già molto critico sulla gestione della pandemia), scelto come candidato da Forza del popolo, partito di cui era portavoce nazionale: i media hanno parlato di un grave dissidio - con probabili conseguenze penali - tra lo stesso Arnese e il presidente nazionale del partito Lillo Massimiliano Musso. Poco dopo, però, Arnese ha "ritirato il suo ritiro" (posto che sarebbe rimasto comunque sulle schede) e dunque parteciperà regolarmente alla competizione: il contrassegno è praticamente identico a quello visto nelle Marche, con il simbolo ufficiale quasi al centro, il nome collocato ad arco in alto, il riferimento al candidato presidente e alla Regione nel segmento blu in basso.
 

Stefano Bandecchi

11) Dimensione Bandecchi

Della terza candidatura sostenuta da un'unica lista, quella del sindaco di Terni Stefano Bandecchi, si è abbondantemente parlato sui media, anche per la sua scelta di inserire in lista Maria Rosaria Boccia, il cui nome è legato all'affaire Sangiuliano. Qui interessa soprattutto rilevare che Bandecchi non ha scelto di presentare la lista di Alternativa popolare, di cui è segretario nazionale, ma un nuovo soggetto politico personale, Dimensione Bandecchi, fondato a Terni il 22 settembre scorso. Così è descritto il simbolo nell'atto costitutivo e nello statuto: "cerchio con il bordo esterno di colore rosso. Il fondo interno del cerchio è di colore blu. Nella metà superiore del cerchio è presente la scritta DIMENSIONE in stampatello maiuscolo di colore bianco e sotto ad essa la scritta BANDECCHI, di dimensioni maggiori, in stampatello maiuscolo e di colore giallo. Dal margine inferiore del cerchio si estendono da sinistra verso destra tre frecce stilizzate, la prima da sinistra è di colore verde, la seconda di colore bianco e la terza di colore rosso. La coda della freccia rossa copre la parte inferiore del cerchio". In Campania Bandecchi ha incassato, tra l'altro, il sostegno del Nuovo Partito liberale italiano, formazione in costituzione di cui converrà parlare.
 

Edmondo Cirielli


12) Unione di centro - Democrazia cristiana

Sono otto le liste anche per Edmondo Cirielli, attuale viceministro degli esteri, scelto come candidato presidente dal centrodestra. Il sorteggio ha collocato in prima posizione nella circoscrizione di Napoli la lista dell'Unione di centro, che ha sostituito alla parola "Italia" l'indicazione del candidato presidente (lasciando nella parte inferiore del segmento rosso uno spazio quasi inesistente). Sotto e intorno allo scudo crociato, oltre al nome dell'Udc, c'è anche un riferimento alla Democrazia cristiana, da identificarsi in quella guidata a livello nazionale dal senatore Raffaele De Rosa.
 

13) Lega

Seconda partecipazione alle elezioni regionali campane per la Lega, che nel 2020 aveva ottenuto il 5,65% e, con quella percentuale, tre consiglieri (solo uno in meno di Fdi). Se allora era stato schierato il contrassegno nazionale, con la statua di Alberto da Giussano nel mezzo, tra la parola "Lega" e (nel segmento blu) il riferimento a Matteo Salvini e alla Regione, questa volta al posto del cognome del segretario leghista c'è quello di Cirielli, insieme all'appellativo "presidente" (confermando così la scelta già vista nelle altre Regioni interessate dal voto in questi mesi).
 

14) Pensionati consumatori - Noi consumatori 1523.it

La terza lista della coalizione a sostegno di Cirielli è quella che unisce Pensionati consumatori e Noi consumatori: il primo è un soggetto politico legato alla Lega per l'Italia, di cui è presidente Luigi Pergamo, qui capolista (questo partito nel 2020 aveva presentato una lista insieme al Pri, sostenendo De Luca), il secondo è un movimento promosso dall'avvocato napoletano Angelo Pisani (al quale fa riferimento anche il sito 1523.it, nato per tutelare gli uomini dalla violenza e dallo stalking; Pisani "detto Avv Pisani" però è inserito nella lista Cirielli presidente per la Campania). La bandiera tricolore leggermente mossa con un'ombra leggera al di sotto è l'elemento più visibile del contrassegno; non mancano le parole "Pace ambiente libertà meritocrazia" al di sotto della parte principale del nome, così come il riferimento al candidato sta nel segmento inferiore blu.
 

15) Forza Italia

Nel sorteggio napoletano la quarta lista in appoggio a Cirielli è quella di Forza Italia. Si tratta di una delle poche liste - anzi, due soltanto - a non contenere un riferimento allo stesso Cirielli, ma non c'è nemmeno una citazione della Campania: al centro del cerchio bianco c'è, come sempre, la bandierina tricolore inaugurata tra il 1993 e il 1994, con al di sotto il cognome di Silvio Berlusconi, mentre in alto ad arco è stato inserito il riferimento - come si vede dal 2018 in avanti - al Partito popolare europeo. Da segnalare, nella lista napoletana, la presenza di un "Di Paolo Gennaro (detto Cirielli)", di tre persone che fanno di cognome Esposito e che - grazie allo stesso espediente del "detto" - potranno essere evocate con il solo nome e del saronnese Gianfranco Librandi, candidato in quella circoscrizione.
 

16) Noi moderati

Ha presentato una lista nell'ambito della coalizione di centrodestra anche Noi moderati, riuscendo dunque a coprire tutte le tre Regioni chiamate al voto a novembre. Il simbolo è forse il meno "pieno" dei tre che Nm manderà sulle schede il 23 e il 24 novembre: oltre al nome del partito guidato da Maurizio Lupi in alto e al "ponte tricolore" al centro, infatti, c'è solo l'espressione "Cirielli presidente", senza alcun accenno alla presenza di candidature civiche come si è visto in Puglia e Veneto.
 

17) Cirielli presidente per la Campania

La sesta lista che appoggia Cirielli è quella senza dubbio più vicina al candidato, come mostra lo stesso nome: Cirielli presidente per la Campania. Il simbolo nella struttura - parte dominante blu, segmento concesso bianco separato da una striscetta tricolore - ricorda quello informale iniziale di Area popolare; nella parte blu è contenuto il nome della lista, con il cognome in grassetto e la parola "presidente" racchiusa in un rettangolo stondato blu. La parte inferiore del contrassegno contiene la dicitura "Moderati e riformisti", lo stesso nome del gruppo nato in consiglio regionale nel 2023 - riferimento per Udc e Nuovo Psi - presieduto da Livio Petitto (candidato però in Forza Italia). In lista c'è anche Maria Muscarà, già eletta col M5S e ora aderente a Sud Protagonista (così come non mancano figure già candidate in Italia viva o aderenti ad Azione).
 

18) Democrazia cristiana con Rotondi - Centro per la Libertà

Alla coalizione di centrodestra partecipa anche,  come aveva da tempo annunciato, la Democrazia cristiana con Rotondi, vale a dire il partito fondato da Gianfranco Rotondi, che dalle elezioni regionali sarde del 2024 ha adottato - dopo la ricusazione del simbolo originario - una balena bianca sorridente come proprio emblema (in questo caso ha recuperato il nome intero, ammesso a dispetto della presenza della stessa espressione nel simbolo dell'Udc: presenza che nei giorni precedenti il deposito delle liste aveva fatto pensare alla presentazione di un esposto da parte dello stesso Rotondi, ma non c'è conferma che ciò sia avvenuto). Nella parte inferiore del simbolo è riportato anche il riferimento - solo testuale, ma con i caratteri del fregio originario - al Centro per la Libertà, movimento guidato da Ortensio De Feo e presente soprattutto nel salernitano; i due nomi sono legati da sei stelle (tre a sinistra verdi, tre a destra rosse). Manca anche qui il riferimento a Cirielli, ma il sostegno di Rotondi non è mai stato in discussione.
 

19) Fratelli d'Italia

La coalizione che appoggia la corsa di Cirielli si completa con il partito cui appartiene lo stesso viceministro dell'attuale governo, cioè Fratelli d'Italia. La lista, che ha scelto come candidato di punta l'ex direttore del Tg2 ed ex ministro della cultura Gennaro Sangiuliano "detto Genny", ha optato per un contrassegno diverso da quelli impiegati contemporaneamente in Veneto e in Puglia (nome del partito in alto, nome di Giorgia Meloni in mezzo, fiamma in basso): si è tornati a una precedente impostazione, in cui - sempre nella parte superiore blu - il nome di Meloni è collocato in alto, con un "per" scritto in corsivo subito a fianco, mentre appena sotto c'è il cognome del candidato presidente (a maggior ragione, visto che è espressione di Fdi); in basso, diviso tra fondo blu e bianco, c'è il simbolo ufficiale del partito.
 

Nicola Campanile 

20) Per - Nicola Campanile presidente

Chiude il quadro delle candidature alle regionali campane Nicola Campanile, funzionario Inps, già sindaco di Villaricca. Lo sostiene la lista Per, rete d'impronta cattolico-sociale nata (come Per le persone e la comunità) in vista delle regionali del 2020 in appoggio alla riconferma di De Luca, in grado di ottenere l'1,12% (anche Campanile, tra i fondatori di quell'esperienza, era candidato, ma è stato anche nelle liste del Pd - da indipendente - alle europee del 2024) pur restando senza seggi. Il contrassegno è stato in parte semplificato rispetto a cinque anni fa: il segno del "per" bianco bordato di verde (con la parola "per" tinta di blu al centro) è rimasto sul fondo blu, ma senza più alcuna texture visibile in filigrana; sotto, su una fascia verde, è indicato il nome del candidato presidente, mentre il segmento inferiore bianco contiene le miniature dei simboli di Insieme e della Rete civica campana (a fondo arancione). Capolista a Napoli è il giornalista Carlo Verna, già presidente del consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti e tra le voci di Tutto il calcio minuto per minuto.