mercoledì 23 aprile 2025

Addio a Carlo Senaldi, impegnato in una lunga rinascita della Dc

In questi giorni in cui l'attenzione mediatica è catturata pressoché per intero dalla morte di papa Francesco, è giusto che su questo sito non passi sotto silenzio la scomparsa di un'altra persona, dal percorso politico rilevante e con profili d'interesse specifico per i drogatidipolitica. Si parla di Carlo Senaldi, classe 1941, morto il 19 aprile a Busto Arsizio, a una decina di chilometri dalla sua Gallarate, in cui aveva il suo studio da commercialista.
Il primo tempo della vita politica di Senaldi è stato legato indissolubilmente alla Democrazia cristiana, per la quale sedette in consiglio comunale a Gallarate (diventando anche assessore della giunta pentapartita guidata dal socialista Andrea Buffoni), alla Camera per due legislature (1983-1992) e in quota alla quale fu nominato sottosegretario durante la sua seconda legislatura, in tutti e quattro i governi in cui si articolò (occupandosi di trasporti nel governo guidato da Giovanni Goria, per poi approdare alle finanze nell'esecutivo presieduto da Ciriaco De Mita, venendo confermato da Giulio Andreotti nei suoi due ultimi governi).
Nel 1980, sempre sotto le insegne dello scudo crociato, Senaldi era stato candidato alle elezioni regionali in provincia di Varese. Era riuscito a raccogliere 9190 preferenze: certo non poche, ma in quell'occasione non sufficienti per risultare tra i tre eletti democristiani della circoscrizione, considerando che il terzo ne aveva ottenute oltre tremila in più e il distacco era rilevante. Sarebbe potuta andare nello stesso modo tre anni dopo, alle elezioni politiche del 1983, ma così in effetti non fu. Lo ricorda con buona precisione in un commento sul quotidiano online da lui diretto, Malpensa24, Vincenzo Coronetti:
Senaldi militava tra i dorotei, componente tra le più attive e, se si vuole, tra le più spietate nei giochi della politica. Vi era approdato quasi per caso, quando, poco prima delle elezioni politiche del 1983, alla Dc varesina venne a mancare uno dei quattro candidati da lanciare alle urne: Michele Galli, un altro gallaratese, si tirò indietro per ragioni personali. Rimasero in gara Giuseppe Zamberletti, Paolo Caccia, Costante Portatadino. E Carlo Senaldi, propostosi all'assemblea nella sede varesina dopo che altri rinunciarono a candidarsi, fu il quarto uomo. Venne eletto al primo colpo, contro ogni previsione.  
In effetti, nella circoscrizione che per la Camera univa i territori di Como, Sondrio e Varese, la Dc ottenne 8 dei 20 seggi disponibili (con il suo 36,76% di voti), mentre il Pci si fermò a 5 (come primo eletto passò Aldo Tortorella) e il Psi a 2 (primo eletto Francesco Forte). Zamberletti, ministro uscente del coordinamento della protezione civile, fece il pieno con 57916 voti, Caccia e Portatandino ne raccolsero oltre 33mila a testa; il conteggio delle preferenze in seguito collocò Paolo Enrico Moro, Francesco Casati e Stefano Rossattini, ma Senaldi con 24858 consensi personali riuscì a passare (e ci fu spazio per un ottavo eletto). Fu di certo un risultato rilevante, confermato da quello del 1987: di deputati democristiani alla Camera, in quella stessa circoscrizione, ne arrivarono solo 7 (anche i comunisti ne persero uno, mentre i socialisti divennero 4 dopo la legislatura dominata dalla figura di Bettino Craxi al governo) e le quasi 79mila preferenze di Zamberletti restarono inarrivabili da quelle parti, ma Senaldi vide aumentare le proprie a 36485 e confermò il seggio da penultimo degli eletti in quel territorio.
Nel 1992 Senaldi fu nuovamente candidato nello stesso collegio plurinominale di Como-Sondrio-Varese, ma era decisamente cambiato il tempo: dei 19 seggi della Camera che si assegnavano in quella circoscrizione, per la Dc ne restarono disponibili solo 5, anche perché 6 li conquistò la Lega Lombarda - Lega Nord, divenendo il primo partito. In casa democristiana Zamberletti non era più candidato, del trio di testa era rimasto solo Caccia (comunque con poco meno di 27mila voti, un po' di più della metà di quelli ottenuti cinque anni prima); Senaldi si collocò di nuovo al settimo posto nella classifica delle preferenze, ma i suoi 14351 consensi personali - qui più che dimezzati - non furono sufficienti a confermare il seggio. Questo sfumò per poco più di 600 voti (e la delusione fu anche più profonda per Francesco Casati, fuori da Montecitorio per sole 400 preferenze avendo ottenuto un terzo dei voti raccolti cinque anni prima). La batosta dovette essere dolorosa, soprattutto a voler dare credito alle "leggende di famiglia" in base alle quali "la Democrazia cristiana lo tradì, nella notte pre-elettorale del 1992. Un pacchetto di voti sposati all’ultimo verso amici di partito più generosi, non nello spirito. Vicende prescritte, morte prima di lui come tutti i protagonisti".
Le parole sono di Pietro Senaldi, condirettore di Libero e nipote dello stesso Carlo Senaldi, da lui descritto così sulla Prealpina il 20 aprile:
Mio zio era un politico, lo si resta per tutta la vita. Anche in ospedale, quando nel caos della malattia confondeva le persone, tracciava scenari. D'altronde la sfida all’impossibile ha caratterizzato gli ultimi trent'anni della sua esistenza. [...] Dopo che tutto era crollato, Silvio Berlusconi gli offrì un seggio nel 1994, come a tanti, quando doveva formare la sua classe dirigente. Il Carlo declinò l'invito. Nulla di personale, anzi: non invidiava il talento altrui, lo rispettava. Solo voleva morire democristiano, e ce l'ha fatta. Non usò mai lo Scudo Crociato per nascondercisi dietro e farsi gli affari propri. Il poco potere che ha avuto non l'ha arricchito e l'ha usato per gli altri; talvolta forse anche per chi non meritava, ma sono certo che non se ne sia mai pentito. Lui lo Scudo Crociato lo portava fiero in battaglia e ha combattuto in maniera irrazionale, inarrendevole e pressoché solitaria per farlo avanzare, con tutti noi ad ascoltarlo affettuosamente attoniti. 
Chi scrive ora - lasciando in disparte ogni considerazione sull'agire di Pietro Senaldi in altre circostanze - trova particolarmente significative le ultime frasi di questa citazione, ritenendole adattissime al secondo tempo della vita politica di Carlo Senaldi. Un tempo lontano dalle aule che contano - e, tutto sommato, con poca aderenza a quelle di tribunale, visto che "Mani Pulite" lo sfiorò soltanto, con la vicenda Enimont che per Senaldi si chiuse con un lieve patteggiamento - ma certamente tutt'altro che inattivo. Già, perché dal 1996 da varie parti si era sentito il bisogno di mettersi in movimento per cercare di far rinascere la Democrazia cristiana, dopo il cambio di nome in Ppi nel 1994, il disastro elettorale di quell'anno (con contorno di prime fratture) e la scissione dolorosissima del 1995 tra Popolari guidati da Gerardo Bianco e Cristiani democratici uniti seguaci di Buttiglione. Tra il 1997 e il 1998 a reggere le fila di quel movimento pensò Flaminio Piccoli, che della Democrazia cristiana divenne presidente, mentre come segretario fu indicato proprio Senaldi. Fin dall'inizio, tuttavia, fu difficile - per non dire difficilissimo - presentare liste con quel nome, ma soprattutto con il simbolo dello scudo crociato, vista la lotta continua tra Ppi e Cdu e la presenza in Parlamento di quest'ultimo: lo scudo saltò alle provinciali di Roma del 1998 e in tante occasioni successive, così il gruppo preferì cambiare nome (Partito democratico cristiano) e simbolo.
Morto Piccoli l'11 aprile 2000, Senaldi ne continuò il progetto. Non lo fece però con il Pdc, la cui guida passò nelle mani del napoletano Alfredo Vito (che nel 2001 sarebbe stato eletto alla Camera, candidato dalla Casa delle Libertà in quota Biancofiore, poi iscrittosi al gruppo di Forza Italia): divenne presidente di Rinascita della Democrazia cristiana, rifondata alla fine del 1999 da Angelo La Russa in Sicilia (stesso nome dell'associazione costituita nel 1996 da Andreino Carrara e del soggetto di coordinamento delle prime realtà ri-democristiane) e che a luglio 2000 riprese il cammino come partito, guardando soprattutto al centrodestra (ma considerando anche Democrazia europea alle politiche del 2001), con Senaldi che entrò a far parte del consiglio nazionale del Cdu ("ci avviciniamo per darvi il nostro aiuto nelle singole realtà regionali e provinciali - disse alla fine del 2000 - I cattolici democratici ormai hanno soltanto questa possibilità: si rimettano insieme, facciano la parte, perché noi dobbiamo difendere interessi che non sono particolari, ma di carattere generale").
Nel 2002, tuttavia, Senaldi come presidente di Rdc divenne membro di diritto della direzione nazionale dell'Udeur, partito fondato da Clemente Mastella dopo la fine dell'esperienza dell'Udr cossighiana (e che, dopo aver preso parte alle elezioni politiche del 2001 con la Margherita, aveva proseguito il cammino da solo). Nel frattempo, peraltro, si era verificato un passaggio rilevante: un gruppo di iscritti alla Dc nel 1993 si era rivolto ad Alessandro Duce, ultimo segretario amministrativo della Dc, perché si attivasse per "risvegliare" la Dc ufficialmente mai sciolta; una delle azioni legali ottenne una certa attenzione dalla stampa, che credette alla versione in base alla quale il tribunale di Roma avrebbe invalidato gli atti del 1994 riattivando il partito storico (anche se così non era).
A occuparsi delle operazioni di tesseramento - almeno prima che le bloccasse lo stesso tribunale di Roma - era stata proprio la struttura della Rinascita della Democrazia cristiana, presieduta da Senaldi e coordinata dal friulano Angelo Sandri. Intanto, visto che dai tribunali non arrivavano buone notizie e che Rdc si poneva come partito, aveva colto l'occasione delle elezioni amministrative del 2001 e del 2002 per presentarsi alle elezioni, ma raramente lo scudo crociato arrivò sulle schede elettorali. Lo stesso Senaldi, per evitare contenziosi quando si candidò - fuori dai poli - alle elezioni provinciali a Varese nel 2002, fece elaborare un contrassegno nuovo, che in un cerchio bordato di blu con dodici stelle ricreava su fondo bianco una croce grazie a due pennellate rosse. Per qualche membro delle commissioni elettorali che ricevettero quel simbolo si trattava di una figura "sanguinolenta, due macabre pennellate da Grand Guignol che nemmeno lontanamente facevano ricordare lo scudo crociato della vecchia Dc", ma oggettivamente sulle schede (anche fuori da Varese: per esempio a Borgomanero, in provincia di Novara) ci arrivò e, pur se su territori limitati, rimase (al punto che la foto pubblicata dal quotidiano La Prealpina comprendeva proprio quel simbolo). Nel frattempo, a luglio del 2002, Senaldi era stato indicato come presidente della Dc che - a dispetto del primo stop dei giudici romani all'iniziativa di Duce - aveva continuato a operare scegliendo Sandri come segretario (iniziando, tra l'altro, la causa che sarebbe finita in Cassazione nel 2010, generando una serie di pronunce molto commentate, poco lette e ancor meno comprese); il livello di confusione della vicenda fu tale che, nel giro di qualche mese, lo stesso Senaldi si trovò citato in tribunale proprio da Sandri, perché smettesse di utilizzare il nome della Dc per il suo partito, rimasto in piedi.
In seguito, sempre nel tentativo di riportare sulla scena una Dc, Senaldi scelse di concorrere - sempre grazie al suo gruppo della Rinascita - a rinforzare la Democrazia Cristiana (poi per le autonomie) di Gianfranco Rotondi, operante dal 2005, senza scudi crociati (o loro surrogati), ma almeno con il nome storico concesso in uso dal Ppi - ex Dc (e dunque senza il rischio che qualcuno lo contestasse). Quella scelta riavvicinò Senaldi alla coalizione di centrodestra, probabilmente nella convinzione che fosse da quella parte la vera continuità politica con la sua esperienza democristiana. Non a caso, nelle sue ultime candidature la collocazione nel centrodestra è stata una costante, anche se sotto diverse insegne elettorali.
Nel 2014, per esempio, Senaldi fu inserito nella lista di Fratelli d'Italia del Nord-Ovest alle elezioni europee: quella scelta - che di fatto anticipò di otto anni quella fatta alle politiche del 2022 dallo stesso Rotondi - portò 518 preferenze a Fdi (che comunque non ottenne eletti, non avendo superato di poco lo sbarramento del 4% a livello nazionale). Quei voti raccolti erano decisamente in quantità minore rispetto al passato - i numeri sono in grado di parlare da sé - ma è probabile che Senaldi non l'abbia presa troppo male, continuando la sua professione senza smettere di guardare con attenzione alla politica, innanzitutto locale. 
La sua ultima candidatura, a quanto si sa, risale alle elezioni regionali lombarde del 2023, quando è stato inserito nella lista Lombardia ideale, formazione un po' civica e un po' contenitrice di varie esperienze a sostegno della ricandidatura di Attilio Fontana. Pure in questo caso il conteggio finale dei voti raccolti non deve essere parso troppo soddisfacente, se rapportato al percorso politico passato (49 voti in tutto, peraltro raccolti nella circoscrizione di Milano e non in quella "naturale" di Varese), ma Senaldi, che probabilmente immaginava che la competizione sarebbe stata difficile, la sfida l'aveva raccolta lo stesso e si era impegnato (aprendo anche un proprio ufficio a Milano e riallacciando contatti in loco). 
Non aveva peraltro rinunciato a fare politica con la "sua Rinascita della Democrazia cristiana: nel 2021, per dire, la Rdc aveva partecipato a due liste composite, presentate alle amministrative di Busto Arsizio e di Gallarate (in quest'ultima, denominata Centro popolare Gallarate, era candidato anche Guido Senaldi, uno dei figli di Carlo). La commissione elettorale, tuttavia, chiese di sostituire il simbolo in entrambi i casi: alla base della richiesta, a quanto si sa, non c'era una ritenuta somiglianza con lo scudo crociato, ma l'aver considerato come "soggetto religioso" le due pennellate del simbolo di Rdc. Si dovette correre rapidamente ai ripari e il simbolo fu ridisegnato con una sola pennellata: pur dimezzato e accanto ad altri, il simbolo di Senaldi riuscì a tornare sulle schede (e in entrambi i comuni concorse a ottenere un eletto). 
I passaggi descritti fin qui rendono evidente l'interesse per la figura di Carlo Senaldi da parte dei drogatidipolitica, anche di coloro che non sono particolarmente attratti dalle traversie e dalla diaspora dei democristiani. Si condividano o meno determinate idee e posizioni, non può non colpire la determinazione nel non demordere, su ampia o su ridotta scala, per poter portare avanti un messaggio in cui si crede e nel proporlo ad elettrici ed elettori, sperando di trovare chi lo accoglie una volta di più: Senaldi è rientrato certamente nel paradigma, essendo stato tra coloro che hanno fatto tutto questo, più che con il timore di nuove delusioni, con il sorriso e la serenità per non avere perso l'occasione di provarci.

martedì 15 aprile 2025

Psi, alle elezioni il garofano raddoppia e guarda Avanti

Nei giorni scorsi il Partito socialista italiano ha presentato, soprattutto attraverso i social network, il contrassegno elettorale elaborato guardando alle prossime elezioni regionali e amministrative. Il fregio, la cui elaborazione è stata affidata a una società esterna, ha come ingredienti fondamentali - su fondo bianco - lo scorcio della corolla di un garofano (bianca con il contorno rosso, i petali in vista e un accenno di calice) nella parte destra e, subito sotto, la parola "Avanti", scritta in maiuscolo rosso, con un carattere bastoni corsivo. Il simbolo del partito adottato nel 2019, con la raffigurazione di un garofano abbinata alla sigla Psi (in grande evidenza) e al nome (molto più piccolo) c'è comunque, ma è inserito in un segmento circolare rosso, collocato nella parte inferiore del cerchio, racchiuso da una circonferenza rossa.
A spiegare questa scelta "simbolica" in vista delle prossime elezioni a Isimbolidelladiscordia.it è direttamente il segretario del Psi Enzo Maraio, fresco di conferma al congresso straordinario svoltosi a Napoli dal 21 al 23 marzo. "Il percorso che ci ha portato ad adottare questo emblema per le elezioni, in effetti, nasce da lontano, in particolare da un consiglio nazionale che tenemmo a Napoli il 13 luglio 2024: in quell'occasione, e anche in seguito nel mese di ottobre, si era proposto di adottare un simbolo elettorale del Psi che facilitasse la presentazione del garofano rosso in tutte le elezioni amministrative e regionali, sulla scorta di ciò che avviene anche in altri paesi europei. La segreteria, dunque, si sarebbe dovuta occupare di valutare quest'opportunità, che ci consentisse di rivolgerci a un elettorato più ampio, progressista, riformista e liberaldemocratico, potenzialmente anche a quello di area cattolico-progressista. Il tema era richiamato dalla mozione alla base della mia ricandidatura come segretario al congresso straordinario che si è tenuto poche settimane fa e in quella sede si è decisa l'adozione del contrassegno".
Le ragioni alla base della scelta degli elementi fondamentali del contrassegno sono piuttosto intuibili, ma meritano una spiegazione. Il garofano ha caratterizzato una parte rilevante del percorso dei socialisti in Italia: prima ha caratterizzato l'epoca craxiana dalla fine degli anni '70 ai primi anni '90 (prima nell'immagine creata da Ettore Vitale, poi in quella elaborata da Filippo Panseca); in seguito è stato adottato soprattutto dai socialisti liberali che avevano ritenuto di non poter condividere il loro cammino con i partiti di centrosinistra che avevano sentito come "carnefici" dello storico Psi, almeno fino alla scelta del partito guidato da Maraio di recuperare il fiore per perseguire anche in quel modo la strada dell'unità socialista, richiamando varie esperienze nella stessa casa politica. Il colore rosso è comunque richiamato dal contorno del garofano, ma questo stratagemma grafico consente di lasciare bianchi i petali del fiore, il che potrebbe consentire anche a componenti più moderate (incluse quelle di matrice cattolica) di sentirsi rappresentare da eventuali liste comuni. Una scelta simile sembra ritrovarsi nella scelta di adottare come nome della lista la parola "Avanti": il riferimento allo storico giornale socialista, che ha caratterizzato quasi tutto il cammino del "vecchio" Psi (e che, dopo alterne e discusse vicende, una quindicina di anni fa è stata recuperata dal nuovo partito), è perfettamente leggibile, anche grazie al colore rosso e allo stile Italico; si è però evitato di impiegare lo stesso carattere della testata (in particolare la "A" molto fiorita) e non si è riprodotto il punto esclamativo finale, in modo che altre sensibilità potessero riconoscersi nel concetto di "Avanti". Proprio in questa direzione andava il testo diffuso da Maraio nei giorni scorsi: "Avanti perché il PSi è avanti. Avanti nella storia, avanti sulle libertà, sui diritti. E avanti perché è la scelta riformista che farà tornare a vincere il centrosinistra, perché il Psi è dialogo con i liberali ed i cattolici, perché è la sinistra dei fatti e delle idee e non dei veti".
La diffusione del nuovo emblema elettorale ha fatto registrare apprezzamenti, ma anche qualche dubbio, specie da parte di chi temeva che inserire il simbolo ufficiale in miniatura all'interno di un altro simbolo potesse creare tra gli elettori problemi di riconoscibilità del partito. Per Maraio, però, non è affatto in discussione l'identità del partito, anche e soprattutto in sede elettorale. "Nella mia segreteria ho insistito con convinzione per una scelta identitaria: dopo la mia elezione al congresso di marzo del 2019, fin dalla festa nazionale di Fano celebrata a settembre dello stesso anno abbiamo scelto di riadottare il garofano e un paio di mesi dopo quel fiore è diventato ingrediente fondamentale del nostro simbolo. Un simbolo che abbiamo cercato di schierare in tutte le occasioni in cui questo è stato possibile, con liste presentate solo da noi o con altre forze politiche: penso a tante competizioni amministrative e regionali, incluse tutte quelle dello scorso anno al di fuori della Liguria, fino alla partecipazione alle elezioni europee del 2024 all'interno della lista Stati Uniti d'Europa, che di fatto ha riportato il garofano sulle schede per l'Europarlamento dopo vent'anni, per cui rivendico la scelta dell'identità". In effetti l'ultimo garofano alle europee si era visto con la lista Socialisti uniti per l'Europa (guidata dal Nuovo Psi), che corse nel 2004; il "vecchio" Psi alle europee aveva concorso per l'ultima volta nel 1994, mentre lo Sdi aveva partecipato visibilmente per l'ultima volta nel 2009 - con la sua rosa con le stelle d'Europa, un tempo adottata dal Pse - all'interno della lista Sinistra e libertà (in seguito i socialisti del Psi hanno fatto parte delle liste del Pd nel 2014 e nel 2019).
Fissata la questione identitaria, resta da spiegare meglio che uso si potrà fare di quel contrassegno. "Tengo a precisare subito due punti - chiarisce ancora Maraio -. Innanzitutto, il simbolo del Psi non cambia: resta quello con il garofano e la sigla Psi che abbiamo adottato nel 2019. In secondo luogo, l'uso del simbolo elettorale appena adottato non sarà affatto obbligatorio: continueremo a schierare alle elezioni sul territorio il simbolo ufficiale ogni volta che questo sarà possibile. Abbiamo però ritenuto opportuno mettere a disposizione delle articolazioni locali del partito questo contrassegno, qualora la situazione locale lo consigli". 
La scelta è stata fatta avendo in mente alcune circostanze precise, illustrate dal segretario del Psi. "Possono esserci realtà nelle quali, per esempio, il partito da solo non sarebbe in grado di presentare una propria lista ma vuole essere comunque presente e visibile, unendosi ad altre forze civiche e politiche. Non dobbiamo dimenticare, poi, che in Italia c'è un quadro assolutamente variegato e complesso di norme elettorali, anche solo con riguardo alle soglie di sbarramento per accedere alla ripartizione dei seggi: in quei casi le forze progressiste, riformiste e moderate possono avere molto interesse a unirsi sotto un simbolo comune in cui identificarsi ed è importante che quel simbolo lo metta a disposizione proprio il Psi, come partito che da sempre si pone come ponte nell'area del centrosinistra che ha a cuore i diritti, le libertà, il progresso". 
Del resto, il modello di contrassegno sembra prestarsi a essere adattato ai contesti politici e territoriali, in modo da mantenere una matrice grafica unitaria su tutto il territorio nazionale, declinandola però secondo le varie necessità. Da una parte, sotto la parola "Avanti" c'è spazio per inserire il riferimento al luogo in cui la lista è presentata: è pronta ed è già stata diffusa, infatti, la variante dell'emblema elettorale da schierare in occasione delle prossime elezioni regionali in Campania. Dall'altra parte, a ben guardare, il segmento rosso in cui è inserita la miniatura del simbolo socialista potrebbe essere leggermente ampliata in modo da contenere anche le "pulci" di altri emblemi partitici, qualora si ritenesse opportuno dare a questi pari visibilità. In ogni caso, si è di fronte a un tentativo interessante di creare una strategia grafico-elettorale alternativa all'immagine ufficiale, ma comunque unitaria e potenzialmente riconoscibile. Nella speranza che possa essere premiata nelle urne.

venerdì 11 aprile 2025

Edmondo Berselli, simbolo dei #drogatidipolitica e di ironia

Chi appartiene alla categoria antropologica dei drogatidipolitica - glieli farete ammettere senza troppa difficoltà - ha quasi sicuramente una o più figure politico-partitiche di riferimento e altre che detesta, cordialmente o ferocemente (per i motivi più vari, anche poco fondati sulla ragione e molto sul sentire). Del pantheon laicissimo di tutti gli aderenti alla schiera, però, meritano certamente di far parte alcune persone; tra queste, nella modesta opinione di chi scrive, deve essere assolutamente ricompreso Edmondo Berselli, soprattutto per lo sguardo lucido e disincantato offerto nelle sue analisi, proposte con un linguaggio consistente e tagliente il giusto, senza mai posare la leva dell'(auto)ironia.
Vale la pena di parlarne oggi innanzitutto perché quindici anni fa Berselli è purtroppo venuto a mancare, dopo averci donato una decina di libri stimolanti - prima per il Mulino, poi per Mondadori - spazianti dalla politica alla cultura (alta o bassa, e tanti saluti agli steccati e agli scaffali), dalla musica leggera al territorio e allo sport, un fascio di altri testi inclusi in altri libri, una messe enorme di articoli su varie testate (dal Mulino e dalla Gazzetta di Modena fino alla Repubblica e all'Espresso, passando per il Resto del Carlino, il Messaggero, La Stampa e il Sole 24 Ore), spettacoli musical-sociologici (con Shel Shapiro) e programmi radiotelevisivi mai banali, preziosissimi per leggere l'Italia e gli Italiani, allora come oggi, a patto di poterli - oltre che volerli - ancora leggere e vedere.
Proprio per rendere di nuovo disponibile una delle opere più significative e dirompenti di Edmondo da Campogalliano, da poche settimane - ecco il secondo motivo per scrivere ora di Berselli, anche se qualsiasi scusa potrebbe andare bene, ragion per cui in questo sito si sono colte varie occasioni per citarlo - la casa editrice Quodlibet ha scelto di ripubblicare Venerati maestri, saggio funambolico uscito per la prima volta con Mondadori nel 2006: era l'anno, lo si ricordi en passant, della seconda vittoria alle elezioni politiche di Romano Prodi, il cui "fattore C" celebrato altrove dallo stesso Berselli non fu comunque sufficiente a evitargli il secondo affondamento parlamentare meno di due anni dopo, con contorno di orrido pasto a base di mortadella e di spumante che, spumeggiando secondo codici di geometria esistenziale o secondo meccaniche divine, rovinò quasi irrimediabilmente il velluto di uno scranno dell'aula di Palazzo Madama. Questa però è un'altra storia, da Sinistrati doc (bersellianamente parlando), quindi non meniamo a spasso il cane e torniamo indietro ("a bomba", direbbe qualcuno in italiano pseudomoderno e giovanilistico): si parlava del libro. 
Ecco, sulla copertina originale mondadoriana di Venerati maestri, come una sorta di simbolo del volume (cioè qualcosa che etimologicamente unisce e collega la pagina di fronte al contenuto delle pagine interne), c'era un'italica giostrina tratteggiata a mano, con i paletti che infilzavano persone, libri e teleschermi, al posto dei tradizionali cavallucci: un'immagine un po' circense, un po' pungente (ma senza sadismo, o per lo meno q.b.) per quella che era qualificata come "Operetta immorale sugli intelligenti d'Italia"; sul retro, in compenso, un bel tritacarne macinava - oltre che un libro e un televisore - anche un giornale, un microfono e una telecamera. Più avanti si sarebbe potuta scegliere anche, per dire, un'accozzaglia di quotidiani, riviste, telecomandi e magari pure smartphone (sebbene nel 2006 - l'anno prima dell'uscita dell'iPhone - quella parola fosse nota a ben pochi, in un tempo in cui bisognava per forza pigiare su qualche tasto per telefonare o mandare messaggi e gli unici vocali concepibili erano quelli lasciati in segreteria), tutti cacciati in uno scatolone con la scritta evidente "Maneggiare con cura" (invito rivolto soprattutto ai conformisti e ai soggetti sbertucciati pagina dopo pagina, specie se suscettibili). 
Ora invece in copertina c'è una splendida immagine di un "dottore della peste", con tanto di maschera a becco, e la scelta è ancora una volta azzeccatissima: tra miasmi di guerre, corruzione, politica gridata, post-verità, onnipresenze mediatiche straripanti e magari piuttosto sguaiate, ci vorrebbe eccome un dottore sui generis - no, un virologo no, anche se qualcuno non sembra arrendersi all'idea - anzi, ci vorrebbe proprio Edmondo Berselli, per ricordare l'importanza di sorridere di noi e delle nostre debolezze per evitare di prenderci troppo sul serio (un rischio che quasi chiunque corre a ogni passo). E anche se il libro è di quasi vent'anni fa, i suoi aromi non si sono ancora esauriti e assolvono ancora alla loro funzione.
Già, perché nel tempo sono spuntati nei campi più disparati - con le varie categorie di esperti che si succedono nei salotti televisivi e sui social network, a seconda del tema del momento - tanti "personaggi pubblici ancora viventi, parlanti e onnipresenti in tv, che sanno il futuro e non ci prendono mai, dirigono l’opinione corrente e il conformismo diffuso", che "perdurano, ossia tirano a campare con ostinazione senza demordere, finché saranno solo una scoreggina che ha fatto molta puzza, e che il vento della storia avrà disperso oltre lo strato d'ozono". La citazione è tratta dal testo scritto sulle bandelle del libro appena tornato in libreria, vergato con le iniziali "e.c.", che stanno per Ermanno Cavazzoni, prezioso scrittore reggiano, cantore dei lunatici e direttore della collana Compagnia Extra di Quodlibet: queste parole, oltre a richiamare un quasi dimenticato spot flatulento di Dolce & Gabbana evocato nel libro (e non erano ancora arrivati gli scoiattoli che, grazie alla potenza di una gomma da masticare, salvavano ex tergo la foresta dagli incendi...), attivano subito la memoria dei drogatidipolitica e fanno ripescare, a prescindere dalle intenzioni di Cavazzoni, l'epiteto "scorreggia nello spazio" scagliato da Umberto Bossi contro Gianfranco Miglio attraverso il Giornale (17 maggio 1994, a pagina 3), uno degli insulti più crudi che i cataloghi di citazioni politiche raccolgano. Ma evocano direttamente soprattutto la nota e temuta tripartizione elaborata da Alberto Arbasino per descrivere i tempi della carriera di uno scrittore - il cruccio di chi scrive è non avere mai individuato con esattezza la sede in cui la massima è stata enunciata o fissata dal suo creatore - e che proprio in questo libro Edmondo Berselli acutamente ha esteso in potenza a tutte le persone di cultura (o almeno tali considerate o sedicenti), rendendo così ancora più noto il paradigma. 
Perché ormai sono davvero in pochi a non sapere che, tra lo stadio iniziale e solitamente giovanile di brillante promessa (quello in cui "si tornisce il muscolo, e quindi conta di più il movimento in sé che non il raggiungimento del traguardo") e quello finale, ambitissimo e impegnativo di venerato maestro, c'è lo status temibile di solito stronzo, in cui peraltro è facilissimo cadere e da cui non è altrettanto agevole uscire per l'avanzamento (o upgrade, in milanese moderno ormai estesosi un po' dappertutto). E che anche dopo aver raggiunto il livello superiore, dietro le lodi sperticate tributate in pubblico (sui giornali, sulle riviste specializzate, in tv, perfino online) si nascondono spesso critiche feroci e stracciate di acido prussico in privato: altro che incontestabili, insomma, e la fatica di diventare venerati maestri non ripara dal rischio di essere considerati cazzoni, che sono imprescindibili ma hanno difetti tali che, signora mia, non ne parliamo proprio (anzi, parliamone, e tanto, ma a microfoni e telecamere spente, così del solitostronzismo - copyright, probabilmente, di Riccardo Bocca - non ci sono prove evidenti).
È quasi superfluo dire che la citata tripartizione è valida, validissima anche in politica e i drogatidipolitica - come si è accennato all'inizio - la praticano con ampiezza, senza risparmio e magari con qualche variante. Ciascuna e ciascuno ha la sua personale lista di brillanti promesse da poco emerse, di promesse che col tempo - a volte piuttosto in fretta - si sono rivelate soliti stronzi (status ovviamente declinabile pure al femminile), di soliti stronzi che sono stati sempre tali e tali puntualmente rimarranno, di venerabili maestri (categoria che ci si permette di aggiungere, per indicare chi non è ancora venerato ma ha le caratteristiche per la canonizzazione e, come tale, è oggetto di ammirazione di singole persone) e, ovviamente, di venerati maestri - altrettanto declinabili al femminile - che però troppo spesso sono passati a miglior vita (del resto nel frattempo è morto anche Arbasino, così come non ci sono più Franco Battiato, Dario Fo, Giovanni Sartori e tanti altri nominati nel libro da Berselli). O forse proprio per questo, chissà, sono più al riparo delle critiche e anzi, col passare del tempo, ricevono il tributo perfino di certi avversari e chissà se ad alcuni dei venerati farebbe davvero piacere o al pensiero non si toccherebbero - con rispetto parlando - i tommasei: perché va bene il parce sepulto, ma della genuinità di certe giravolte è lecito dubitare.  
E allora basterebbe questo per essere grati a Edmondo Berselli, per capire che la sua ironia ben mirata è uno strumento essenziale per osservare la scena politica di oggi, tenendo a mente quella di ieri e rischiando perfino di prevedere quella di domani. Berselli non è solo l'inventore delle categorie del "forzaleghismo" e del "partito ipotetico" (parlando del Pd): è una sorgente molto più ricca. E non si tema di approcciarsi a lui perché era (anzi, è) "troppo colto, troppo spiritoso, troppo troppo", come ha scritto una manciata di ore fa Marco Ciriello, berselliano doc (che si occupi del suo amato sport o di altro). Perché Berselli aveva ben chiaro che "l'Italia che canta" è "l'Italia che conta" - come ha fatto capire dal libro Canzoni. Storia dell'Italia leggera in avanti - e quindi, studiando con piacere e gusto chi ascoltauna "canzonetta" o chi si addivana davanti alla televisione, ha sempre saputo farsi capire. Anche quando la materia è ostica, anche quando la scrittura lascia emergere riferimenti culturali oscuri per chi legge: il messaggio arriva sempre, chiaro e diretto (specie per chi ne è oggetto) e casomai può spingere ad approfondire ciò che ancora non si conosce. 
Si tragga ad esempio da Venerati maestri una breve descrizione del Foglio, quotidiano che oggi come vent'anni fa è molto presente nelle rassegne stampa e molto considerato nella sfera politica e nei suoi dintorni, complice le sue firme di arte e parte varia: 
Un comitato che progetta un cavallo al giorno tirandone fuori bellissimi cammelli e splendide giraffe, e ci sono dentro o ci sono passati futuristi, dannunziani, tradizionalisti, fascisti, comunisti, evoliani, una proporzione tremendamente alta di radicali e rosapugnoni, poi liberali di ogni foggia, all'americana e all’europea, quindi americanisti, antislamici, animalisti, ex fiancheggiatori del terrorismo di sinistra espulsi perché preferivano il poker alla riunione strategica, e ultimamente una folla di neoconservatori guerrafondai e una quantità di new born christians, che proprio come il loro dio Elefante adorano Ratzinger, il Sant'uffizio, la Porta di bronzo, e cercano di rivalutare criticamente e speciosamente qualsiasi eredità cattolica o anche ogni misfatto clericale dall'Inquisizione in qua, fino ai nostri giorni.
Tralasciate il fatto che anche Benedetto XVI nel frattempo è spirato (molti anni dopo essersi dimesso) e che Giuliano Ferrara - vivissimo, beninteso - è ora solo editorialista e non più direttore del "suo" Foglio: per il resto il ritratto fogliante (già anticipato in Post italiani) è tuttora molto vivido e acquista subito la gratitudine dei drogatidipolitica che all'improvviso ritrovano lì quell'aggettivo sostantivato - rosapugnoni - e sentono subito il sapore del 2006, di elezioni al cardiopalmo, di seggi contestati e coalizioni continuamente in bilico, fino alla caduta d'inizio 2008 evocata prima e alla stravittoria berlusconiana (da cui sarebbe venuto il libro Sinistrati), che peraltro non avrebbe evitato al Cavaliere il ricorso ai responsabili e le dimissioni venute dall'Europa, che peraltro Edmondo Berselli non ha fatto in tempo a vedere e commentare. 
E si torna sempre lì, agli spunti che avremmo potuto ancora avere se non si fosse spento, alle risate di livello superiore - per qualità e genuinità - che avrebbe potuto far sorgere una nuova pagina di libro, una nuova rubrichina o un nuovo articolone scritto con la facilità di chi maneggia con precisone concetti e parole (come il padre faceva con le bilance a Campogalliano, un'immagine che si deve al ricordo di Ugo Berti). Il tutto persino quando dagli scritti di Berselli emergeva, una volta in più, che i "Post Italiani" - a prescindere dal colore politico, ammesso che avesse ancora senso parlarne - avevano conosciuto un'altra evoluzione, dimostrandosi puntualmente "Italiani con riserva", che cercavano di procedere ma avevano cura di fare solo mezzo passo alla volta, forse perché non ci credevano davvero o forse in omaggio alla massima attribuita a Moro dallo stesso Berselli già nel libro Il più mancino dei tiri (in cui un capolavoro calcistico di Mario Corso era un'ottima scusa per parlare di politica): "Non fate nulla. Nulla. E se proprio non ce la fate a non fare assolutamente niente, fate pochissimo".
Programma difficile, a volerlo fare apposta. Meglio dedicarsi un po' di tempo e recuperare un libro o un articolo qualsiasi di Edmondo, sperare che qualche articolo o qualche spezzone radiotelevisivo riemerga per offrire uno spunto che, pur concepito più di tre lustri fa, resta lievito per chi vuole fermentare. Perché grazie alla lucidità e all'ironia, corrosiva ma con garbo - persino quando sconfinava nelle parolacce - Berselli si è fatto egli stesso simbolo dei drogatidipolitica, da inesausto osservatore di ciò che avveniva dentro e fuori dalle aule parlamentari, con rispetto ma anche con l'intento di non farsi appesantire, nemmeno da se stesso e dal suo tanto conoscere. Per questo, a lui e a chi continua a farlo conoscere (per colleganza o per affetto), va la gratitudine che non si consuma. 

Questo articolo è dedicato a Marzia Barbieri, moglie di Edmondo, e agli amici "Bersellers" con cui ho condiviso un tratto di strada prezioso, senza che ci siamo mai allontanati: mastro Andrea Quartarone (che ha avuto la fortuna di lavorare con Edmondo), Angelo Ciardullo e Leonardo Margaglio.

martedì 8 aprile 2025

Decreto elezioni 2025: le novità (anche sui simboli) e le polemiche

AGGIORNAMENTO DEL 9 APRILE - Ieri sera i quattro capigruppo di maggioranza al Senato hanno presentato un disegno di legge (a prima firma di Lucio Malan, dunque Fratelli d'Italia figura come primo proponente, come nell'emendamento) intitolato Modifica agli articoli 72 e 73 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, in materia di elezione al primo turno del sindaco nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (il testo, nelle more dell'assegnazione alla commissione competente, non è ancora disponibile, ma quasi certamente sarà identico a quello dell'emendamento). Contestualmente, gli stessi capigruppo hanno emesso un comunicato in cui hanno annunciato il ritiro dell'emendamento discusso, confermando però la ferma intenzione di raggiungere il risultato facendo approvare il nuovo disegno di legge (disgiungendo dunque l'elezione del sindaco al primo turno con il 40% per i comuni superiori dal ritorno all'elezione diretta degli organi provinciali, com'era stato invece nei ddl Romeo e Ronzulli).
"Il centrodestra su questa scelta è unito e determinato - si legge nel comunicato -. Abbiamo posto il problema in varie sedi. Ci è indifferente lo strumento con cui raggiungere questo traguardo e siamo ben consapevoli che questa scelta non può riguardare il turno elettorale, peraltro non molto esteso, del 25 maggio prossimo. [...] Al ballottaggio partecipa un numero limitato di elettori e spesso chi vince prende meno voti del candidato che si classifica secondo al primo turno. C'è, quindi, un problema di legittimazione democratica e di partecipazione. Proprio per evitare polemiche ed essendo lontano il successivo turno elettorale amministrativo daremo priorità ai disegni di legge che abbiamo già depositato con le firme di tutto il centrodestra e per i quali solleciteremo una rapidissima approvazione [...] perché l'obiettivo che perseguiamo è giusto, ampiamente condiviso, coerente con le norme già in vigore in Friuli Venezia Giulia, in Sicilia, in Toscana e con quanto dissero nel passato esponenti del Pd in Parlamento. Andiamo avanti auspicando un confronto, ma non accettando veti". Per correttezza occorre dire che il riferimento alla Toscana non è del tutto centrato, visto che la legge cui si fa riferimento riguarda le elezioni regionali, per le quali è previsto sì un ballottaggio qualora nessun candidato alla presidenza della giunta regionale arrivi al 40%, ma si tratta di un unicum, perché nelle altre regioni - guardando a quelle a statuto ordinario - semplicemente chi ottiene più voti vince, senza alcuna soglia minima e senza la previsione di un secondo turno.
Anche la terza sortita sulla "norma antiballottaggi", dunque, è finita con un ritiro e l'annuncio di un nuovo percorso parlamentare "normale". Un percorso che meriterà di essere seguito, al pari degli altri; è legittimo sollecitare una rapidissima approvazione, ma viene da chiedersi come mai non sia avvenuto lo stesso con altre norme in ambito elettorale locale che stanno egualmente a cuore almeno a un partito della maggioranza (in particolare, quelle per i piccoli comuni contenute nel ddl Pirovano-Augussori, fermo da un anno nel guado tra le commissioni e l'aula della Camera).
 
* * *
 
A quanto pare, anche in politica, non c'è due senza tre. Anche se, in questo caso, sarebbe stato forse meglio di no. Anche se, a onor del vero, i proponenti nella loro intenzione stanno semplicemente cercando di mantenere quello che avevano promesso circa un anno fa. Ci si riferisce, in particolare, al nuovo tentativo di introdurre una "norma antiballottaggi" relativa ai comuni sopra i 15mila abitanti (per cui la vittoria al primo turno scatterebbe con il superamento della soglia del 40%, come in Sicilia), grazie a un emendamento al disegno di legge di conversione del "decreto elezioni 2025" (decreto-legge n. 27/2025), presentato nei giorni scorsi al Senato e il cui esame continuerà a partire da stasera in commissione Affari costituzionali.
Per chi segue questo sito decreti-legge simili non sono certo una novità: per quanto risultino per lo meno inopportuni interventi sulle norme elettorali nei pressi della data del voto, almeno dal 2020 si è di fatto instaurata una prassi, in base alla quale in prossimità delle elezioni amministrative (e non solo, a volte) si sceglie di dettare norme organizzative o relative al procedimento elettorale, non di rado pensate e valide una tantum. È già accaduto, tuttavia, che si tentasse di cogliere l'occasione per introdurre norme certo non connotate da alcun grado di necessità, urgenza e straordinarietà: lo scorso anno, durante la conversione del "decreto elezioni 2024", la sortita è riuscita in buona parte per la strozzatura delle esenzioni dalla raccolta firme per le elezioni europee, mentre non è riuscita per la "norma antiballottaggi".
Tanto il decreto quanto gli emendamenti al disegno di legge di conversione contengono vari punti che meritano di essere approfonditi, tra l'altro anche in materia di deposito di contrassegni elettorali (anche se, per il momento, solo in prospettiva). Vale dunque la pena passare in rassegna il testo del provvediumento d'urgenza, così come delle proposte di modifica che sono state presentate e di cui - peraltro - non si è ancora valutata l'ammissibilità da parte del presidente della Commissione, Alberto Balboni (Fdi).
 

Il decreto-legge 

Il voto in due giorni, aperto anche ai "fuori sede"

Il testo del decreto-legge 19 marzo 2025, n. 27 ("Disposizioni urgenti per le consultazioni elettorali e referendarie dell'anno 2025"), interviene dall'inizio con alcune misure anti-astensionismo, a partire dall'estensione del voto alla giornata del lunedì (dalle ore 7 alle ore 15, oltre che dalle 7 alle 23 di domenica), così com'è avvenuto nel 2020 e nel 2021 (soprattutto per evitare criticità legate alla pandemia), nonché nel 2023 e nel 2024 (secondo quanto suggerito nel "Libro bianco sull'astensionismo", per dare più tempo alle elettrici e agli elettori per recarsi ai seggi): l'art. 1 precisa che il voto su un giorno e mezzo riguarderà "le consultazioni elettorali e referendarie relative all’anno 2025", dunque tutte quelle previste in quest'anno (salvo quelle già indette, ma com'è noto in Friuli-Venezia Giulia le consultazioni sono comunque previste per il 13 e il 14 aprile sulla base di fonti locali). Questo tempo di voto più lungo porta, per le votazioni diverse dai referendum, all'aumento dei compensi per i membri dell'ufficio elettorale di sezione pari al 15% (a meno che non ci siano altre votazioni in contemporanea, per cui le regole saranno diverse).
Va sempre nella direzione di ridurre il rischio di astensionismo, oltre che di contenere le spese, la previsione di un unico rito "per gli adempimenti comuni e per il funzionamento degli uffici elettorali di sezione" qualora uno dei due turni di votazione per le elezioni amministrative - anche fissate con provvedimento regionale - coincida con la data dei 5 referendum abrogativi, in calendario per l'8 e il 9 giugno prossimi: in particolare, si dovrebbero applicare le disposizioni dettate per i referendum, mentre per la composizione dei seggi (in particolare per il numero di scrutatori) si guarda alle norme sulle elezioni amministrative. Sembra opportuno segnalare, in ogni caso, che un decreto del ministro dell'interno del 24 marzo scorso ha fissato per le elezioni amministrative il 25 e il 26 maggio per il primo turno e l'8 e il 9 giugno per l'eventuale ballottaggio: questo significa che l'eventuale election day e la convivenza con i referendum riguarderà solo i comuni interessati dal ballottaggio (si prende dunque atto di un nuovo, ennesimo caso di voluta non combinazione tra referendum e primo turno delle elezioni amministrative, che non crea alcun "effetto trascinamento" sull'affluenza alle urne per i quesiti referendari e di certo non facilita il raggiungimento del quorum); discorso diverso vale - ad esempio - per le amministrative in Sardegna, il cui primo turno è stato fissato a livello regionale proprio per l'8 e il 9 giugno. In caso di abbinamento, saranno scrutinate - nel pomeriggio del 9 giugno - prima le schede del referendum, poi le altre schede.
Il "decreto elezioni 2025" rinnova poi l'esperimento del "voto fuori sede" tentato lo scorso anno per le elezioni europee, pur applicandolo solo ai referendum (evidentemente perché la scheda è uguale in tutto il territorio nazionale e non sorgono problemi di bollettini da spostare da una parte all'altra dell'Italia) e solo per quest'anno (dunque una tantum e non in modo strutturale). La norma - prevista all'art. 2 - apre la possibilità del voto in una sezione di una provincia diversa da quella di residenza e iscrizione (mentre nel 2024 si richiedeva una diversa regione) non solo per chi è domiciliato altrove per almeno tre mesi per ragioni di studio, ma anche - ed è una novità - per motivi di lavoro o cure mediche, purché la richiesta sia effettuata al comune di domicilio temporaneo almeno 35 giorni prima dell'8 giugno (la si può revocare per i 10 giorni successivi). Coloro che hanno vista accolta la propria domanda votano in seggi speciali (ove il comune di temporaneo domicilio, presumibilmente grande, abbia almeno 800 richieste) o in un seggio ordinario definito dal comune stesso, nelle stesse forme previste per gli altri elettori: s'intende salvaguardare così i principi di personalità e di segretezza del voto ex art. 48, comma 2 Cost. Spetta al sindaco la nomina del presidente di seggio (preferibilmente, ma non per forza, tra le persone iscritte all'albo degli idonei tenuto dalla Corte d'appello) e degli altri membri dell'ufficio elettorale di sezione, anche tra coloro che hanno chiesto di votare fuori sede. Nemmeno in questo caso è prevista la possibilità del voto elettronico (presidiato o meno), pure auspicata da più parti. 

Gli investimenti tecnologici e la "rivoluzione simbolica" annunciata

Ciò non significa che nel "decreto elezioni 2025" non ci siano disposizioni relative al miglioramento delle procedure elettorali sul piano informatico: si occupa di ciò l'art. 3, che mette a disposizione 800mila euro per il 2025, il 2026 e il 2027 (per un totale di 2,4 milioni di euro) per il "potenziamento delle prestazioni dei servizi erogati dal Sistema Informativo Elettorale (SIEL) del Ministero dell'interno e del relativo innalzamento dei livelli di resilienza da intromissioni malevole esterne" e precede l'istituzione di una posizione dirigenziale ad hoc. Per capire meglio cosa si intenda, occorre fare riferimento alla relazione al disegno di legge, predisposta dal governo: lì si legge che gli stanziamenti previsti consentiranno "di assicurare una continuità operativa del Sistema informativo elettorale", ma serviranno anche "ad acquisire server dedicati alla procedura elettorale, a realizzare un sistema alternativo e parallelo, rispetto all’attuale situazione, di trasmissione dei dati elettorali dalla periferia al centro" (cioè dalle prefetture e dai comuni al Viminale) con la "creazione di hub territoriali di raccolta e conservazione dei dati che possano soccorrere il sistema centrale in caso di blocchi, anomalie e malfunzionamenti". Di certo questi progetti d'innovazione vanno visti con favore, soprattutto perché dimostrano che il governo per primo non crede - a differenza di troppe persone - che i servizi elettorali del Ministero dell'interno siano di relativa importanza, magari limitata alle occasioni di voto di livello nazionale. 
Tra i progetti allo studio, però, ce n'è uno che in questo sito non può proprio essere trascurato né sottovalutato: sempre nella relazione si legge che "Si intende, inoltre, realizzare un applicativo che possa consentire la digitalizzazione del procedimento di deposito dei contrassegni presso il Ministero dell'interno in occasione delle elezioni politiche ed europee". Questo potrebbe tradursi tanto in una procedura mista (prevedendo il deposito digitale dei contrassegni in aggiunta o alternativa a quello tradizionale, magari anche solo per l'eventuale sostituzione del fregio o per l'integrazione dei documenti), quanto in una procedura solo digitale: in un'ipotesi o nell'altra, si prospetta una profonda rivoluzione delle scene di deposito dei simboli che, dal 1946 in avanti, hanno caratterizzato al Viminale il primo passaggio visibile del procedimento elettorale preparatorio
Niente più fila o, per lo meno, ridotta a chi ha scarsa dimestichezza con le tecnologie o a chi tiene alla tradizione? Una bacheca - solo digitale o anche fisica? - che si riempie di simboli non portati fisicamente nelle stanze ministeriali? Le domande, al momento, non possono avere una risposta, ma occorre ammettere che il deposito dei contrassegni potrebbe essere nel giro di qualche anno un rito democratico e mediatico destinato al tramonto (del resto gli investimenti fino al 2027 sembrano voler preparare la "rivoluzione simbolica" proprio in vista delle prossime elezioni politiche, ove si tenessero a scadenza naturale). Ovviamente chi - come chi scrive e, si immagina, chi frequenta queste pagine - è affezionato a quelle scene dentro e fuori dal Viminale non può che accogliere quest'annuncio con un po' di dispiacere, per un momento imperdibile della "macchina elettorale" che si prepara a venire meno; è però giusto comprendere anche le ragioni e le esigenze di chi fa proposte diverse, per cui si cercheranno occasioni per approfondire.

Firme digitali per le liste solo per gli impedimenti fisici

Si può fare rientrare nell'evoluzione digitale anche l'art. 4 del decreto-legge, con cui il governo ha scelto di recepire in forma più ampia - ma nemmeno troppo - il contenuto della sentenza n. 3/2025 della Corte costituzionale, con cui le norme che regolano le elezioni regionali (in particolare la legge n. 108/1968) "nella parte in cui non prevedono per l'elettore, che non sia in grado di apporre una firma autografa per certificata impossibilità derivante da un grave impedimento fisico o perché si trova nelle condizioni per esercitare il voto domiciliare, la possibilità di sottoscrivere un documento informatico con firma elettronica qualificata, cui è associato un riferimento temporale validamente opponibile ai terzi". La sentenza, originata da un procedimento legale iniziato con ricorso da Carlo Gentili (col sostegno del gruppo politico Referendum e Democrazia) con riferimento all'impossibilità di sottoscrivere una lista per le elezioni regionali del Lazio nel 2023 per chi non era in grado di provvedere con firma autografa, regolarmente autenticata. La situazione era creata dalla totale e nota assenza di disposizioni che consentissero di firmare digitalmente una lista di candidati, per qualunque tipo di elezione a qualunque elettore: ciò - che ha portato alla ricusazione delle liste di Referendum e Democrazia alle elezioni politiche del 2022 - è stato frutto anche della bocciatura in commissione Affari costituzionali della Camera di un emendamento a prima firma di Riccardo Magi con cui alla fine del 2021 si era proposto di ammettere la sottoscrizione delle candidature per le elezioni politiche in forma digitale. Ora si precisa che la sottoscrizione può avvenire "con le modalità previste dall'articolo 20, comma 1-bis, del codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82" se l'elettore non può "apporre una firma autografa, per certificata impossibilità derivante da un grave impedimento fisico" (il che vale, secondo l'art. 55, comma 2 del testo unico per l'elezione della Camera, per le persone cieche, amputate delle mani, affette da paralisi o altro impedimento di analoga gravità) oppure è nelle condizioni per esercitare il voto domiciliare: quel documento  (cioè il file Pdf con la lista dei candidati firmata digitalmente dall'elettore con impedimento fisico) "è consegnato su supporto digitale agli uffici preposti alla ricezione delle candidature corredato da certificazione medica attestante il grave impedimento fisico o la condizione per esercitare il voto domiciliare".
Il governo - certamente anche sulla base di un confronto con il personale del Ministero dell'interno - ha riconosciuto che quella decisione della Corte, pur riferita alle elezioni regionali, "non può che ricadere anche al di fuori di tale specifico ambito", visto che "ogni aggravio procedimentale irragionevole e non proporzionato configura una discriminazione a danno dei soggetti più deboli in qualsivoglia consultazione elettorale", violando il principio personalista (art. 2 Cost.) e quello di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), nonché i diritti politici delle persone vulnerabili (artt. 48 e 49 Cost.)". Si tratta senza dubbio di una considerazione apprezzabile, così come è positivo che la norma valga già ora per tutte le elezioni in modo stabile; una riflessione, però, è d'obbligo. Se per il giudice delle leggi non è più ammissibile che "l'ordinamento frapponga ostacoli procedimentali (nella specie, l’obbligo di dichiarazione in forma verbale, alla presenza di due testimoni, innanzi ad un
notaio o al segretario comunale o ad altro impiegato all'uopo delegato dal Sindaco) a coloro che non siano in grado di sottoscrivere per fisico impedimento una lista di candidati alle elezioni" (così si legge nella relazione), una volta aperta la via alla sottoscrizione digitale, è ancora ammissibile che sia ancora escluso dalla firma digitale - e sia costretto a firmare i moduli cartacei nel suo collegio - il cittadino elettore temporaneamente domiciliato lontano dal suo luogo di residenza (e che ora, sia pure in virtù di norme una tantum, potrebbe essere in grado di votare)? È di nuovo la relazione a precisare che continua a valere il "principio generale di esclusione delle norme del codice dell'amministrazione digitale alle consultazioni elettorali": la materia elettorale è certamente delicata e "speciale" rispetto alle altre che si fanno rientrare nella categoria "amministrazione digitale", ma sembra piuttosto anacronistico non pensare a un uso più ampio della tecnologia per sottoscrivere le liste. È comunque probabile che intanto si sia fatto un primo passo, per lasciare - in un momento successivo - la materia dell'estensione della sottoscrizione digitale delle candidature al dibattito parlamentare. Della proposta di legge presentata da Riccardo Magi all'inizio della legislatura, nel frattempo, non è ancora iniziato l'esame...

Gli emendamenti al testo

Dopo aver considerato il contenuto del decreto-legge, vale la pena passare in rassegna gli emendamenti presentati in commissione Affari costituzionali del Senato.
Come sempre, tra le proposte di modifica si trova di tutto: per esempio, due emendamenti Pd, che hanno come primo firmatario il costituzionalista Andrea Giorgis (seguito da Dario Parrini, attento osservatore delle questioni elettorali dal punto di vista politologico), mira a fare svolgere i referendum "in concomitanza con il primo turno delle elezioni amministrative", per aumentare il risparmio e trainare di più la partecipazione ai quesiti referendari (ma, considerato che esiste già un decreto del ministro dell'interno, non sembra facile trovare in aula i numeri per l'approvazione). Un testo affine è stato presentato dal MoVimento 5 Stelle, a prima firma di Alessandra Maiorino, mentre un altro di Alleanza Verdi e Sinistra (il cui primo presentatore è Peppe De Cristofaro, seguito da Ilaria Cucchi) accomunerebbe tutte le elezioni amministrative - anche indette a livello regionale - imponendo la coincidenza col primo turno nella disposizione che stabilisce il rito unico dettato per i referendum.
Altre proposte di modifica intendono innalzare il limite di età per i componenti degli uffici elettorali di sezione da 70 a 75 anni (emendamento proposto da Marco Lisei di Fratelli d'Italia: il testo, che ha buone probabilità di essere approvato, potrebbe servire a fare fronte alla carenza di presidenti di seggio o di scrutatori verificatasi in alcuni comuni nelle ultime consultazioni a seguito dell'invecchiamento degli iscritti e del mancato ricambio), a escludere dall'ufficio di presidente, scrutatore o segretario di seggio "i dipendenti delle aziende esercenti servizi di trasporto pubblico regionale e locale" (proposta leghista, a prima firma di Daisy Pirovano, che ritiene evidentemente quelle figure non terze, specie per le elezioni amministrative) o ad aumentare gli incrementi dei compensi ai componenti dei seggi, invece che del 15% (del 50% per Avs, che individua la fonte delle risorse nel "Fondo per far fronte ad esigenze indifferibili che si manifestano nel corso della gestione" previsto dalla legge di bilancio 2015; del 20% per il M5S, che però non indica la copertura). C'è pure un emendamento volto a spostare le elezioni provinciali (di secondo grado) previste quest'anno - anche se già indette - a dopo le date previste per i ballottaggi (con proroga degli organi in carica) qualora il comune capoluogo sia commissariato e vada al voto sempre quest'anno: la proposta, formulata dai senatori pugliesi di Fdi Ignazio Zullo e Domenica Spinelli, sembrerebbe riguardare, salvo errore, la sola provincia di Taranto, il cui comune capoluogo è retto da una commissaria prefettizia dopo la caduta dell'amministrazione Melucci.
Due emendamenti (uno Pd a prima firma di Cecilia D'Elia, uno Avs a prima firma di De Cristofaro) chiedono di superare la tenuta e l'impiego delle liste elettorali "distinte per uomini e donne" - frutto dell'introduzione nel 1945 della lista elettorale femminile - eliminando le parole che prevedono questo e prevedendo una revisione straordonaria delle liste perché di fatto i due elenchi siano uniti, nonché di smettere di indicare anche il cognome del marito per le elettrici sposate o vedove. Per completezza occorre dire che la stessa proposta è oggetto di un disegno di legge presentato alla Camera a metà giugno dello scorso anno (e non ancora esaminato in commissione) da Forza Italia, il cui primo firmatario è Paolo Emilio Russo: per i proponenti la doppia lista e l'indicazione del cognome maritale non hanno "più ragione di persistere" e superarli serve anche a "semplificare e accelerare le procedure relative alla consegna della scheda elettorale all'elettore o all’elettrice che si rechino al seggio per l'espressione del voto"
Ulteriori emendamenti riguardano la "genuinità" del procedimento elettorale da vari punti di vista. Il M5S, per esempio, ha chiesto che i rappresentanti di lista (o, si deve immaginare visto il tenore della disposizione che forse sarebbe opportuno riformulare, di comitato promotore di referendum) che vogliano votare nel seggio in cui operano sottoscrivano apposita dichiarazione da consegnare al presidente dello stesso seggio e da trasmettere in seguito all'ufficio elettorale del comune nelle cui liste elettorali quelle persone sono iscritte, "al fine di garantire il corretto svolgimento delle operazioni elettorali e l'unicità dell'esercizio del voto": ciò per evitare - come ha spiegato in commissione la senatrice Felicia Gaudiano - che la persona voti nel seggio di esercizio e - magari chiedendo il rilascio di una nuova tessera elettorale dichiarando di avere smarrito quella vecchia - anche in quello di iscrizione. 
Il senatore Lisei di Fdi e il forzista Dario Damiani hanno invece riproposto, con due emendamenti distinti, l'inserimento una tantum della norma "salvaelezioni" per i comuni entro i 15mila abitanti in cui si sia presentata una sola lista: l'emendamento - anche in questo caso con probabilità di essere accolto - riprende la soluzione adottata dal 2021 ogni anno con decreto (o nella legge di conversione del decreto) per evitare la nullità delle elezioni qualora abbia votato almeno il 40% degli aventi diritto, scomputando dal totale gli iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero (Aire) che non abbiano effettivamente votato. Com'è ben noto a coloro che seguono questo sito, la stessa disposizione fa parte di un disegno di legge approvato dal Senato all'inizio di marzo dello scorso anno (proposto dalla leghista Pirovano dopo la proposta nella legislatura preceente da parte del compagno di partito Luigi Augussori) e licenziato dalla commissione Affari costituzionali della Camera il 28 febbraio 2024: quel testo contiene anche una disposizione che ripristina un numero minimo di firme da raccogliere nei comuni più piccoli, per scoraggiare la presentazione di liste esterne. Lo scorso anno si era pensato che l'approvazione da parte di Montecitorio potesse arrivare in tempi rapidi per ottenere l'entrata in vigore prima del turno di elezioni amministrative; di fatto questo non è avvenuto e non si arriverebbe al risultato nemmeno questa volta. Ci sarebbe, in effetti, il tempo di completare l'iter in vista delle amministrative del 2026 - considerando anche che il Ministero dell'interno ha sostanzialmente prospettato il rinnovo in quell'anno delle amministrazioni frutto delle elezioni autunnali del 2020 - ma c'è un'incognita: se finora la norma "salvaelezioni" era stata sempre introdotta con disposizioni valide solo per l'anno in corso (il che avrebbe conservato l'attualità della proposta Pirovano-Augussori senza affossarla), questa volta gli emendamenti Lisei e Damiani - a meno di una riformulazione - introdurrebbero la norma in modo stabile, rendendo a quel punto necessario intervenire sul testo per ora fermo alla Camera e preventivare un ritorno al Senato (peraltro per una norma - quella riferita alle elezioni "sotto i mille" - condivisibile, ma non di sicura e immediata comprensione per parte degli eletti). Difficile dire, dunque, se il percorso del "ddl Pirovano-Augussori" potrà continuare e come.
Quanto al voto dei "fuori sede", c'è chi propone di ridurre il periodo di temporaneo domicilio altrove a due mesi (emendamento di Italia viva, primo firmatario Ivan Scalfarotto), di escludere che presidenti e scrutatori dei seggi speciali per i "fuori sede" siano scelti al di fuori degli elenchi ufficiali (M5S, che non vuole tra l'altro che si attinga ai votanti fuori sede per gli scrutatori), di chiedere al Viminale di monitorare l'applicazione della norma e relazionare alle Camere circa l'impatto sulla partecipazione elettorale e sui costi (Pd, a firma Parrini-Giorgis) o di rendere stabile la possibilità di voto nel luogo di domicilio anche per i referendum costituzionali (M5S, a prima firma di Gisella Naturale).
In materia di digitalizzazione elettorale, si segnalano gli emendamenti del M5S volti a istituire un fondo per sperimentare l'espressione del voto "per il tramite di un certificato elettorale digitale, interoperabile con l'Anagrafe nazionale della popolazione residente (ANPR)" - al fine dunque di superare tanto l'attuale tessera elettorale personale, quanto probabilmente il sistema di voto cartaceo (visto che si chiede di garantire in ogni caso "la personalità, la libertà e la segretezza del voto") - e di sostituire la disposizione che aggiunge per il Viminale un dirigente ad hoc sulla digitalizzazione con la previsione di un incremento per il 2025 di un milione di euro per il Fondo per il voto elettronico (in commissione si è fatto anche riferimento al caso del seggio revocato alla 5 Stelle Elisa Scutellà a motivo del riconteggio e della "rivalutazione" delle schede bianche e nulle del collegio uninominale di Cosenza); sempre il M5S ha chiesto di istituire un Fondo per il voto anticipato e presidiato, "per introdurre in via sperimentale, per le consultazioni elettorali politiche, regionali, amministrative ed europee nonché per i referendum [...] modalità di espressione del voto che ne consentano l'anticipo e il presidio presso sedi, diverse dagli istituti scolastici, appositamente abilitate o autorizzate per il tramite di un certificato elettorale digitale [...] di una apposita applicazione informatica" (senza dunque prevedere spazi per il voto da casa, probabilmente per il timore che questo non garantisca la libertà e segretezza e, forse, nemmeno la personalità del voto). Rientra nella stessa categoria un emendamento di Noi moderati (firmato da Giusy Versace e Mariastella Gelmini) che propone di permettere il voto con "supporti tecnologici pienamente accessibili che garantiscano la segretezza e l'esercizio personale del voto", attivabili a richiesta della persona interessata "entro i 30 giorni antecedenti il giorno della consultazione elettorale" (e fornito dai presidenti di seggio) alle elettrici e agli elettori con disabilità visiva o con un residuo visivo corretto non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi".

Altri emendamenti (incluso quello che vuole evitare il ballottaggio)

Altri emendamenti non sembrano avere diretti effetti sulle elezioni di quest'anno. Lo si può dire, per esempio, per l'emendamento di Daniela Ternullo (Forza Italia) che ha chiesto di eliminare l'incompatibilità tra l'incarico di europarlamentare e di assessore regionale, per quello del collega di partito Dario Damiani che vuole mantenere incompatibile con l'ufficio di parlamentare europeo quello di assessore regionale, ma solo "qualora compatibile con la carica di consigliere". Un altro emendamento, condiviso da tutti i gruppi di maggioranza (Lucio Malan - primo firmatario - e Lisei per Fdi; Massimiliano Romeo e Pirovano per la Lega; Maurizio Gasparri, Damiani e Ternullo per Forza Italia; Michaela Biancofiore di Coraggio Italia per il gruppo di Noi moderati), che mira a intervenire sul decreto-legge n. 138/2011, che ridusse parecchie spese anche sul funzionamento degli organi istituzionali, per mantenere "il numero dei consiglieri regionali precedentemente previsto" ove la popolazione regionale "si riduca o aumenti entro il limite del 5 per cento rispetto alle soglie indicate nel primo periodo" e per consentire l'aumento di due assessori per le Regioni "con popolazione fino a un milione di abitanti e [...] fino a due milioni di abitanti" (passando dunque da 4 a 6 per le prime e da 6 a 8 per le seconde).
Da Forza Italia (a firma di Ternullo, Damiani e Claudio Lotito) proviene anche la proposta di sospendere l'efficacia esecutiva di una sentenza su un ricorso in materia di eleggibilità, incompatibilità o decadenza per le elezioni comunali, provinciali e regionali non solo in pendenza d'appello, ma "sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio". Fratelli d'Italia (tramite i senatori Domenico Matera e Spinelli) mira invece a un intervento sulla "legge Delrio" sull'elezione delle cariche della Provincia, modifica che varrebbe solo per gli organi eletti dopo la conversione del decreto-legge: alla decadenza del presidente per cessazione dalla carica di sindaco (qualità necessaria per la candidatura e l'elezione) si aggiungono le ipotesi di una mozione di sfiducia votata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti del consiglio o dello scioglimento del consiglio provinciale (fattispecie aggiunte seguite al compimento di atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, per gravi motivi di ordine pubblico, per il funzionamento compromesso per impedimento permanente, rimozione, decadenza, dimissioni irrevocabili, decesso del presidente della provincia o bilancio non approvato nei termini); le elezioni del nuovo consiglio e del presidente si svolgerebbero entro 90 giorni dallo scioglimento anticipato.
L'emendamento che ha ottenuto più attenzione, tuttavia, è il numero 4.0.4, che mira ad attribuire la vittoria al primo turno, nei comuni superiori, al candidato sindaco più votato che abbia ottenuto almeno il 40% dei voti (anche qualora due persone superino quella percentuale), dovendosi andare al ballottaggio solo ove nessun aspirante primo cittadino abbia raggiunto il 40%; alla lista o alla coalizione collegata al candidato eletto al primo turno si attribuisce il 60% dei seggi, a meno che un'altra lista o coalizione abbia superato il 50% dei voti validi (in quel caso si riterrebbe troppo irragionevole alterare in quel modo i dati elettorali). Si tratta, come si è anticipato, di una soluzione pressoché identica a quella prevista da una legge regionale in Sicilia. Una soluzione che era stata inserita in due disegni di legge (uno della Lega, uno di Forza Italia, tuttora giacenti in commissione Affari costituzionali) volti a rendere nuovamente a elezione diretta gli organi delle province, di cui per due volte - in commissione e in aula - si era tentato l'inserimento nel "ddl Pirovano-Augussori" a marzo del 2023 e per il quale (come si è anticipato sopra) si era cercata la sortita nell'iter di conversione del "decreto elezioni 2024", salvo poi ritirare l'emendamento e convertirlo in ordine del giorno.
I nomi dei proponenti, soprattutto in questo caso, hanno particolare importanza: per Fdi hanno firmato il capogruppo Lucio Malan e Marco Lisei, uno dei senatori che più sono intervenuti sulle questioni elettorali (lui aveva cofirmato l'emendamento in aula del 2023 ed era sempre suo anche l'emendamento "strozzaesenzioni"); per la Lega le firme sono quelle del capogruppo Massimiliano Romeo (presentatore di uno dei due ddl che contemplavano quella proposta, già nel 2023 aveva segnalato di voler arrivare all'elezione del sindaco con il 40% e lo scorso anno, pur avendo annunciato il ritiro dell'emendamento "incriminato", si era detto indisponibile a farlo di nuovo in seguito) e di Daisy Pirovano (che, dopo aver lamentato il fatto che buona parte del dibattito in aula sul suo ddl relativo ai piccoli comuni fosse stata occupata dalle questioni legate a quelli superiori, ha comunque firmato - con i colleghi di partito Nicoletta Spelgatti e Paolo Tosato - l'emendamento al "decreto elezioni 2024" poi ritirato e trasformato in ordine del giorno); per Forza Italia ha firmato il capogruppo Maurizio Gasparri (che era intervenuto nel 2024 a sostegno dell'emendamento Romeo, ricordando quello precedente forzista del 2023, che allora si era detto contrario "a interventi improvvisi che non siano oggetto di un confronto", ma aveva assicurato che il tema sarebbe tornato "e la modifica sarà approvata" perché a suo dire vincere al ballottaggio con meno voti di quelli del secondo al primo turno a causa degli astenuti era "un'alterazione della democrazia", non meno di quella che si sarebbe prodotta con la vittoria al primo turno col 40% o con il terzo mandato) e Daniela Ternullo (siciliana, che aveva cofirmato - insieme a Ronzulli, Mario Occhiuto e Adriano Paroli - il primo emendamento del 2023, proposto in commissione Affari costituzionali); non è mancato nemmeno il sostegno del gruppo Civici d'Italia - Noi moderati, grazie alla capogruppo Michaela Biancofiore.
Se nel 2023 in aula l'emendamento (in origine di Forza Italia) era stato presentato da Fdi, Lega e Fi, questa volta si registra tra i proponenti la presenza dei quattro capigruppo di maggioranza: non si tratta affatto di un dettaglio, visto che significa che i partiti del centrodestra - spesso in passato vittima del meccanismo del ballottaggi (a partire da uno dei proponenti dell'emendamento del 2023, Paroli, che nel 2013 fu sconfitto al secondo turno a Brescia anche grazie all'alleanza del centrosinistra con la lista dell'attuale sindaca), sebbene poi quel meccanismo abbia a turno penalizzato anche altre parti politiche - questa volta sono realmente intenzionati a portare a casa il risultato. 
I media hanno registrato la reazione dura delle opposizioni (specie della segretaria del Pd Elly Schlein e del senatore Dario Parrini), una valutazione prudente - ma non pregiudizialmente contraria, tutt'altro - sulla proponibilità da parte del presidente di commissione Balboni (che si era riservato il tempo del fine settimana), un invito alla riflessione da parte del presidente del Senato Ignazio La Russa circa "seri rischi" dell'improponibilità dell'emendamento a norma del regolamento senatoriale, e hanno anche ipotizzato che la posizione del presidente del Senato fosse stata frutto di "un confronto riservato tra La Russa e Mattarella, la cui contrarietà all'emendamento era nota" (come ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa sabato). Si ricorda - e lo ricorda anche oggi Paolo Armaroli sulla Ragione - che l'art. 72, comma 4 Cost. esige che "La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera" sia sempre adottata, tra l'altro, per i disegni di legge in materia elettorale (oltre che costituzionale): in teoria, visto il contenuto dell'articolo, significa che non è possibile adottare i procedimenti di esame di commissione "in sede deliberante" o "redigente" (quelli in cui il ruolo dell'assemblea è limitato o addirittura assente). Da più parti si considera però non normale anche la procedura "accelerata" dell'iter di conversione di un decreto-legge, visto che l'art. 15 della legge n. 400/1988 (quella che detta l'ordinamento della Presidenza del Consiglio) non consente al governo di presentare decreti-legge proprio nelle materie ex art. 72, comma 4 Cost.; è pur vero che di decreti-legge in materia elettorale se ne sono visti parecchi, incluso quello attualmente in conversione, ma non si ravviserebbe reale omogeneità rispetto all'oggetto del decreto in esame e, soprattutto, non ci sarebbe la minima traccia di "casi straordinari di necessità e di urgenza". A meno di voler considerare il voto in vari comuni superiori (comunque previsto anche in questa tornata), e allora si dovrebbe ricordare che secondo il Codice di buona condotta elettorale della commissione di Venezia non si modificano le regole del gioco a ridosso delle elezioni.
Tra poche ore si saprà l'esito della valutazione da parte del presidente Balboni e il seguito dell'iter di conversione del "decreto elezioni 2025". Un percorso, in ogni caso, che merita di essere attentamente monitorato, da vari punti di vista.

domenica 6 aprile 2025

Lega per Salvini premier, lo statuto dopo il congresso

Si è concluso oggi il primo congresso della Lega per Salvini Premier (anche se, in base alle disposizioni transitorie dello statuto, questo si sarebbe dovuto tenere entro 12 mesi dall'approvazione del primo documento statutario, che risale all'incirca - in mancanza di documenti disponibili - a novembre del 2017), con la conferma di Matteo Salvini alla carica di segretario federale del partito. 
Se il dato politico è certamente rilevante, in questa sede interessa sicuramente di più considerare le modifiche allo statuto del partito che il congresso (nella giornata di ieri) ha approvato, considerando le proposte avanzate da una commissione apposita - guidata da Roberto Calderoli e cui hanno partecipato anche Aldo Morniroli, Maurizio Bosatra, Alessandro Panza, Andrea Paganella, Alberto Di Rubba e i vicesegretari federali Claudio Durigon, Alberto Stefani e Andrea Crippa - per attualizzare il testo precedente, la cui prima versione risale appunto al 2017, leggermente modificata nel 2018. "È stata necessaria una manutenzione dello statuto - ha spiegato Calderoli nel suo intervento illustrativo - perché nasce nel 2018, quando la struttura non aveva nulla in termini di delegazioni territoriali: queste si sono sviluppate e oggi dobbiamo regolarle". Di seguito si passano in rassegna le modifiche allo statuto in ordine di "apparizione" (seguendo la numerazione degli articoli), cercando di raggrupparle per tema.

Il simbolo e la denominazione

L'analisi non poteva che iniziare dal simbolo, anche perché la disposizione statutaria che ne tratta - l'art. 3 - è la prima a essere interessata dalla riforma: le modifiche, peraltro, non riguardano il simbolo ufficiale, che resta quello definito in origine e descritto nello statuto come "un rettangolo di colore blu in cui campeggia la scritta 'Lega per Salvini Premier' in bianco, circondata da una sottile cornice sempre di colore bianco". Ovviamente quel simbolo, così com'è, non è mai finito sulle schede elettorali (non fosse altro che per l'incompatibilità della forma rettangolare con le disposizioni legislative e operative vigenti in materia di elezioni): anche per questo, forse, nello statuto non si precisa più che il simbolo "è anche, in tutto o in parte, contrassegno elettorale per le elezioni politiche ed europee", così come non si prevede più la possibilità per le articolazioni regionali di proporre la modifica del contrassegno a livello regionale e locale (col parere preventivo vincolante del Consiglio federale). 
Proprio il Consiglio federale continua a poter "apportare al simbolo e al contrassegno le modifiche ritenute più opportune": nell'ipotesi di presentazione di "contrassegni elettorali, sia con la denominazione "Lega per Salvini Premier", sia con l'aggiunta di tutte le sue varianti regionali nel caso di elezioni regionali e amministrative", evidentemente, deve ritenersi inclusa la possibilità di abbinare il simbolo previsto dallo statuto - anche solo in modo parziale, magari con il riferimento "Salvini" o "Salvini premier" su fondo blu - al simbolo della Lega Nord concesso ufficialmente dopo il congresso straordinario di fine 2019 (anche se, di fatto, l'uso era iniziato prima), potendo esserne usata anche in questo caso una sua parte (come la figura di Alberto da Giussano e al nome "Lega" scritto in carattere Optima). 
Da ultimo, è stata riformulata la norma relativa alla modifica delle disposizioni statutarie sul simbolo e sul nome del partito (nel vecchio testo prevista all’art. 19, ora all’art. 20): prima la modifica era di competenza solo del Consiglio federale (con l’approvazione a maggioranza assoluta dei presenti), mentre ora possono provvedere sia il Congresso federale (sempre a maggioranza assoluta dei presenti, come per le altre modifiche statutarie) sia il Consiglio federale.
Lasciando per un attimo da parte lo statuto, vale la pena segnalare che alcuni interventi del primo giorno di lavori del congresso hanno evocato l'emblema leghista. Così, il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari ha rivendicato come la Lega sia il partito presente "in Parlamento da più tempo senza aver mai cambiato nome ed essendo sempre fieri con quel simbolo, l'Alberto da Giussano col leone di San Marco e con lo spadone sguainato in difesa della libertà" (evidentemente saldando la storia della Lega Nord e quella della Lega per Salvini premier). Per il vicesegretario federale Alberto Stefani "essere della Lega significa significa preferire il coraggioso cammino più difficile di chi difende un'idea rispetto a chi invece sceglie di adeguarsi sempre; essere leghista significa mettere da parte le paure. Significa ricordarsi che noi abbiamo un simbolo che non è una bandiera al vento: è un guerriero e rappresenta il simbolo di questo movimento e noi non dobbiamo mai dimenticarlo. Allora dobbiamo riscoprire il guerriero che c'è in ciascuno di noi: dobbiamo riscoprire tutto questo non come guerrieri di fantomatici eserciti europei, non come guerrieri che imbracciano armi da fuoco, ma guerrieri valorosi che utilizzano gli strumenti che la democrazia ci mette a disposizione per garantire più libertà, più sicurezza, più identità ai nostri cittadini". 
Non passa però inosservato anche uno stralcio del primo intervento di Roberto Calderoli che lamentava le resistenze "burocratiche" sull'attuazione dell'autonomia: "Quel leone di San Marco sullo scudo, qui - ha detto indicando la scenografia del congresso con la raffigurazione del guerriero di Legnano - ha la spada alzata, il libro chiuso e la coda alzata: è quando va in battaglia oppure, quando c'è la pace, sparisce la spada e il libro è aperto. Volete mandarci con la spada e il libro chiuso oppure con il libro aperto?" In origine, in effetto, il simbolo della Liga Veneta comprendeva il leone con libro aperto e senza spada, la stessa figura portata sullo scudo leghista; il 15 febbraio 1997, al terzo congresso federale della Lega Nord, si scelse di sostituire quell'immagine con quella del leon da guera.

La scelta delle candidature per le assemblee rappresentative

Il testo dell'art. 6, dedicato alla scelta delle candidature, ha subito una piccola modifica. Le sezioni comunali, infatti, non propongono più le cariche elettive riferite ai consiglieri provinciali; più in generale, il livello superiore (provinciale per le elezioni comunali, regionale per le elezioni provinciali e dei capoluoghi di provincia, nazionale/federale per le elezioni regionali e dei capoluoghi di regione) prima "ratificava" le proposte del livello inferiore, mentre ora le “approva” (una scelta lessicale che lascia dedurre un che il potere di scelta stia più verso il vertice che verso le articolazioni inferiori).

Gli organi della Lega per Salvini premier

Nell'art. 7, dedicato agli organi del partito, oltre alle modifiche relative all'amministrazione della Lega per Salvini premier (se ne parlerà meglio dopo) sono stati introdotti due responsabili federali: uno per il tesseramento (che non è più di competenza della Commissione statuto e regolamenti, così com'è stato rinominato quel collegio; le competenze della nuova carica sono indicate dall'art. 17) e uno per gli Enti locali (l'art. 18 attribuisce anche il dovere di aggiornare l'anagrafe degli eletti). 
Non è invece più previsto come figura autonoma il responsabile del trattamento dei dati personali (ex art. 21, ora il titolare è l'amministratore federale che può nominare uno o più responsabili), così come non è più previsto l'Ufficio di coordinamento territoriale e legislativo federale: del resto, come rilevato da Calderoli, "di fatto non c'è mai stato".

Il congresso federale

Delle modifiche all'art. 8, che regola il congresso federale, più che la scomparsa - tra le competenze - della valutazione delle "attività svolte dalle articolazioni territoriali regionali", rileva soprattutto l'allungamento della cadenza dei congressi, previsti non più ogni tre anni, ma ogni quattro anni.  Ciò significa che la prossima assise congressuale – salvo congressi straordinari – si svolgerà nel 2029, anno delle elezioni europee e di un turno consistente di elezioni amministrative; soprattutto, però, l'appuntamento cadrà almeno due anni dopo le prossime elezioni politiche (sempre che arrivino a scadenza naturale), senza che dunque il risultato possa avere ricadute immediate sulla guida del partito. Lo stesso Calderoli sembra confermare la prognosi, sostenendo che l'allungamento a 4 anni delle cariche è stato pensato "anche perché, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, io credo che il movimento abbia bisogno della massima tranquillità e stabilità".
Nell'art. 9 spariscono i requisiti temporali di militanza per essere eletti dal congresso segretario federale o membro del Consiglio federale (ma sono indicati dalla disposizione finale). Il nuovo art. 10, che individua i delegati al congresso federale, rende membri di diritto del congresso e votanti tutti i segretari provinciali del partito (mentre prima si richiedeva che la Regione di riferimento avesse almeno 50 soci ordinari militanti), i membri del Governo nazionale (ma non si precisa se si tratta solo dei ministri, o, in una lettura estensiva che lo stesso Calderoli ha in effetti seguito nel suo intervento, devono essere ricompresi anche i sottosegretari) e delle giunte regionali.

Il Consiglio federale

Con riferimento al Consiglio federale - la cui durata è stata allungata a quattro anni - in base al nuovo art. 11 ottengono diritto di parola e di voto i vicesegretari federali, il coordinatore federale del movimento giovanile e i segretari regionali di Regioni che non hanno almeno 50 soci ordinari militanti: di queste cariche, prima solo con diritto di intervento, se le ultime sono maggiormente espressione del territorio, i vicesegretari e il coordinatore del giovanile possono dirsi assai vicini al segretario,  che dunque si rafforza. Curiosamente il nuovo testo non prevede più il riferimento alla tutela delle minoranze mediante formule proporzionali: questo, in teoria, potrebbe far sorgere qualche criticità in sede di esame da parte della Commissione che valuta la conformità degli statuti ai requisiti fissati dal decreto-legge n. 149/2013 e in effetti richiede anche di precisare "i criteri con i quali è promossa la presenza delle minoranze, ove presenti, negli organi collegiali non esecutivi" (anche se, in effetti, il Consiglio federale può essere considerato un organo esecutivo, dunque non toccato da questa previsione). 
Aumentano anche le figure con diritto d’intervento (ma non di voto): sono tali i soci fondatori del partito, i responsabili federali del tesseramento e degli enti locali, gli ex amministratori (per 5 anni), il coordinatore dei dipartimenti e coloro che sono invitati dal Consiglio a partecipare. Il segretario verbalizzante ora è nominato dal Consiglio, non essendo più il delegato della Commissione Statuto e regolamenti. L'articolo, da ultimo, regola anche la possibilità di partecipare alle riunioni del Consiglio federale da remoto, ammettendola "purché prevista nella convocazione": lo stesso organo, dunque può anche escludere quella forma di partecipazione, ammettendo solo la presenza.
Quanto alle competenze del Consiglio federale (previste dall'art. 12), l'organo acquisisce - oltre all'approvazione delle proposte di candidatura formulate a livello regionale - il compito di "definire la veste grafica delle tessere" e i termini pe rinnovare la militanza. Non è più previsto un "comitato esecutivo" nominato tra e dai membri del consiglio federale cui il collegio possa delegare i propri poteri e attribuzioni.

Il Segretario federale

Nell'art. 13, che si occupa della carica di Segretario federale, è innanzitutto riformulata la disposizione sulla rappresentanza politica del partito: questa è disgiunta dalla rappresentanza elettorale (affidata all'amministratore), si precisa che il segretario  "presiede l’organizzazione e l'attività" del partito e che la sua espressione codificata di pareri sulle candidature riguarda le cariche elettive "esterne" (quindi non quelle interne alla Lega).
Anche la durata del mandato del segretario passa da 3 a 4 anni (valgono le considerazioni fatte prima, parlando del congresso), ma passano da 3 a 4 anche i vicesegretari, precisando che – come in passato – devono appartenere tutti ad articolazioni regionali diverse: per questi viene cancellato il requisito di militanza ordinaria ultradecennale (ma, anche qui, si parlerà più tardi dell'applicabilità di un limite più breve). Perché si è aggiunto un vicesegretario? "Oggi abbiamo coperto completamente tutto il territorio nazionale - ha spiegato ieri Calderoli - e ovviamente quello che prima era fattibile dal segretario o da qualche [vice]segretario oggi necessita di qualcuno in più".

L’amministratore federale e la gestione contabile

All'art. 14 non c’è più la scelta tra nominare un comitato amministrativo federale di una persona o di tre (tra cui indicare un amministratore federale): ora è possibile solo nominare un amministratore federale, la cui anzianità di militanza sembra dover essere di almeno tre anni. La nomina, la revoca e la sostituzione dell'amministratore sono di competenza esclusiva del Segretario federale (com'era prima per il comitato amministrativo). Si conferma che l’amministratore è rappresentante legale del partito, ma ora gli spetta anche la firma degli atti relativi alle procedure elettorali: in particolare spetta all'amministratore firmare anche gli atti "relativi alle dichiarazioni ed attestazioni da rendere in sede elettorale per la presentazione delle liste di candidati e/o per la presentazione del contrassegno".
Si precisa che il partito risponde in solido con l’amministratore sul piano civile e amministrativo. L'amministratore può nominare due delegati (del cui operato risponde) per svolgere le sue funzioni. Sparisce invece l'Organo federale di controllo sull’amministrazione: "ormai per legge bisogna rivolgersi a una società di revisione esterna", come ha spiegato Calderoli, e ora - a norma dell'art. 27 - non è più il segretario federale a sceglierla, ma l'amministratore. Ora, infine, l’amministratore federale è anche titolare del trattamento dei dati personali e può nominare uno o più responsabili (prima era il Consiglio federale a nominare il responsabile).
Quanto alla redazione del rendiconto del partito richiesta dalla legge, all'art. 26 non è più prevista la relazione dell’Organo federale di controllo sull’amministrazione (soppresso, come si è detto).

Il responsabile federale organizzativo, i dipartimenti, l'organizzazione giovanile

All'art. 16 ora si precisa che il responsabile federale organizzativo può essere anche revocato (oltre che nominato) dal Segretario federale; il responsabile organizzativo presiede, oltre che il Comitato disciplinare e di garanzia, anche la Commissione statuto e regolamenti.
L'art. 19 precede invece la possibilità di creare dipartimenti, cioè articolazioni interne al movimento, con un ruolo essenzialmente politico-programmatico; il loro coordinatore è nominato dal Segretario federale e nomina (sentito il segretario) i capi dipartimento nazionali (che nominano i referenti regionali di concerto coi segretari regionali).
Quanto all'art. 22, rubricato "Il coordinamento federale del movimento giovanile", l'unica novità è la precisazione per cui, superati i 30 anni, i titolari delle cariche del giovanile completeranno comunque il loro mandato.

Modifiche dello statuto

Sulla base dell'art. 20, per modificare lo statuto serve ancora la maggioranza assoluta dei presenti al Congresso federale; come anticipato, invece, per modificare simbolo, nome e regolamenti può intervenire sia il Congresso federale, sia il Consiglio federale (sempre a maggioranza assoluta dei presenti). Le proposte di modifica dello statuto, sempre formulate dalla Commissione statuto e regolamenti, passano prima dal Consiglio federale e poi dal Congresso federale (unica istanza prima prevista).

Organizzazione territoriale

Nell'art. 28 non è più previsto a livello regionale un Organo di controllo sull’amministrazione; sono previste anche le sezioni di circoscrizione (sovracomunali). Per Calderoli si tratta di "un ritorno" di  "un organo di coordinamento [...] di cui si è sentito una certa mancanza": ha aggiunto che "ci sarà un regolamento che normerà la circoscrizione: se le regioni dovessero volerlo includere nel loro statuto lo faranno al prossimo congresso regionale".

Iscrizioni, qualità di socio, incompatibilità e decadenza

Varie modifiche riguardano l'iscrizione, l'acquisto e la perdita della qualità di socio. All'art. 29 si conferma che la quota associativa è fissata dal Consiglio federale, ma sparisce "annualmente" (quindi non occorre rinnovare ogni volta una deliberazione apposita se il prezzo non cambia); si richiede al socio di comunicare ogni variazione del suo domicilio (registrato negli elenchi) per le notifiche previste dallo statuto.
Quanto alla qualità di socio, una delle modifiche più evidenti riguarda le incompatibilità: ora si precisa che l'adesione a soggetti collettivi preclusi (tra i quali spariscono gli enti no profit e si parla genericamente di associazioni) è incompatibile solo se "manifestata" e "pubblica", dunque non ci sarebbe incompatibilità in caso di adesione "privata" o non divulgata. Una volta emersa l’incompatibilità, si prevede anche la possibilità di "superamento della stessa": qualora ciò non si verifichi, si genera la "cancellazione d’ufficio", di fatto una decadenza (e non più l’espulsione, intesa come provvedimento disciplinare). L'art. 32 chiarisce che la cancellazione d'ufficio per incompatibilità è un'ipotesi di decadenza e si precisa che gli aspetti applicativi sono normati dal regolamento.
Com'è noto, la Lega per Salvini premier, com'era stato per la Lega Nord, prevede due categorie di soci: i soci sostenitori (dopo la prima iscrizione) e i soci ordinari militanti (status necessario per accedere a determinate cariche, che si acquisisce a norma del regolamento del partito, che oggi richiede che un socio sostenitore abbia svolto "un periodo di attività volontaria della durata di non meno di 12 mesi" a livello territoriale). L'art. 31, che regola la perdita della qualifica di socio ordinario militante (Som), ora prevede che il direttivo della sezione comunale chieda al consiglio direttivo provinciale la perdita della qualifica di Som per un iscritto entro il 30 novembre (indicando la sua "inattività") e il provinciale esprime parere entro il 31 dicembre; in caso di parere positivo, è inviata comunicazione scritta all’ex Som "declassato" a sostenitore che può ricorrere al direttivo regionale entro 30 giorni ("Se uno non milita, è impossibile che resti a fare il militante" ha chiosato Calderoli). 
L'art. 30 citato prima, peraltro, ora prevede che i soci sostenitori non abbiano diritto di voto, tranne che "per le sole elezioni della Sezione Comunale, con anzianità di tesseramento normata da apposito regolamento". Lo stesso Roberto Calderoli ha riconosciuto che il punto è stato oggetto di varie discussioni, ma ha invitato a riflettere a partire dai numeri: "Se io mi rendo conto che il 42% delle sezioni ha più soci ordinari militanti che soci sostenitori, è evidente che quei militanti non portano neanche una tessera di sostenitore; aggiungo, se il 96% delle sezioni negli ultimi anni ha fatto zero sostenitori mi chiedo che cosa ci stiano a fare. [...] Io credo che non sia nei numeri corretti e per il futuro sarà necessario definire un rapporto che ciascuno sarà tenuto a rispettare perché alcune sezioni, e siamo andati proprio a farcele passare una per una, da dieci anni contano cinque militanti, sono sempre gli stessi e non fanno una tessera da sostenitore... Io non dico che sia giusto o sbagliato, ma se in una sezione non si fanno nuove militanti e non si fanno nuovi sostenitori mi chiedo che cosa ci sta a fare". Onde evitare o contenere il rischio di "pacchetti di tessere" in momenti delicati - magari in corrispondenza delle elezioni - si è dunque scelto di definire con un regolamento federale la definizione di un minimo di anzianità ("Io oggi l'ho pensata nei termini di prevedere a livello federale un minimo e un massimo - ha aggiunto Calderoli - e poi demandare a livello delle singole Regioni di definire qual è l'anzianità minima richiesta, perché credo che sia completamente diversa oggi l'esigenza della Lombardia rispetto a quella della Basilicata, hanno la necessità di strumenti flessibili e che comunque portino a un'apertura del movimento".

I procedimenti disciplinari

Con riferimento al controllo sugli organi interni, l'art. 33 ora precisa che l’organo superiore che controlla quello inferiore “può avocare a sé i poteri dell’organo inerte”; non si prevede più il contraddittorio con la parte in caso di revoca di un segretario o di scioglimento del direttivo. 
Sono più consistenti le modifiche in materia di procedimenti disciplinari sui soci: "I provvedimenti disciplinari - ha spiegato Calderoli - vengono semplificati nei termini che le sanzioni restano sempre le stesse, ma viene tutto semplificato e avvicinato al territorio". L'art. 34, ora, prevede che l'organo giudicante di prima istanza sia il consiglio direttivo regionale, su proposta del direttivo provinciale questo deve informare con raccomandata AR la persona interessata, che può difendersi), ma può agire anche da solo (se avvisa direttamente la persona). Organo d’appello diventa il Comitato disciplinare e di garanzia, che invece è organo di primo grado per le cariche istituzionali sovraprovinciali e per i componenti degli organi federali (in quel caso la richiesta parte dal consiglio direttivo regionale): in questo caso l’organo d’appello è il Consiglio federale (che non può più attivarsi direttamente). Tutti i provvedimenti sono direttamente esecutivi, quindi producono subito effetti. Visto che il segretario federale fa parte del Consiglio federale, peraltro, il nuovo art. 15 lo esclude dal Comitato disciplinare e di garanzia: la presidenza spetta al responsabile federale organizzativo (che cura l’istruttoria e la verbalizzazione e non voterà nell’eventuale giudizio d’appello in Consiglio federale) e i membri di nomina da parte del Consiglio federale passano da 3 a 5 (il testo ora precisa che non devono avere diritto di voto in consiglio federale, per evitare la commistione degli organi e dei ruoli).
Rientra tra le previsioni in materia di procedimenti disciplinari un'aggiunta all'art. 35, in cui si precisa per gli eletti che il mancato rispetto dei loro doveri (inclusi quelli di mettere a disposizione il proprio tempo per le attività del partito e di concorrere al finanziamento, immaginando che questo valga soprattutto per gli eletti in Parlamento e nei consigli regionali) comporta l’attivazione di una procedura disciplinare. Questi obblighi, secondo quanto detto da Calderoli, non tutti gli eletti li rispettano, "né a livello morale, né a livello sostanziale e siccome non è giusto che solo alcuni concorrano, è prevista anche la possibilità per questo motivo di attivare un procedimento disciplinare e credo che una cosa così giusta non avessimo mai prevista" (e l'applauso scattato, in un'assemblea che forse comprendeva anche le persone evocate, non è passato inosservato).

Le disposizioni finali su modifiche statutarie e requisiti di militanza

Nelle disposizioni finali, a seguito della riforma statutaria, si precisa innanzitutto che eventuali modifiche allo statuto richieste dalla Commissione di garanzia per gli statuti per rendere conforme il nuovo testo al d.l. n. 149/2013 non dovranno passare per un nuovo congresso (più complesso e oneroso da convocare), ma saranno apportate direttamente dal Consiglio federale che ne informerà il congresso alla prima occasione. 
L'intervento più significativo sulle disposizioni finali riguarda i requisiti di militanza per l'accesso alle cariche, prima previsti nei vari articoli dello statuto e tuttavia "sospesi" dalla IV disposizione transitoria dello statuto (e a norma della deliberazione del Consiglio federale del 7 gennaio 2021 richiamata dal regolamento del partito annotato). Lo stesso Calderoli ha segnalato come i requisiti originari fossero "assolutamente inapplicabili", essendo stata costituita l'associazione nel 2017. Ora occorrono almeno 7 anni di anzianità per essere Segretario federale (attualmente sembrerebbero avere quest'anzianità essenzialmente i fondatori del partito, che - in base al primo intervento di Roberto Calderoli al congresso - dovrebbero essere stati Salvini, Lorenzo Fontana, lo stesso Calderoli, Giancarlo Giorgetti e Giulio Centemero; in seguito, ovviamente, le persone con questo requisito aumenteranno); servono poi almeno 5 anni per essere membro del Comitato disciplinare e di garanzia e almeno 3 anni per tutte le altre cariche elettive federali (in cui probabilmente si devono ricomprendere anche l’amministratore e forse anche il vicesegretario). anche se in effetti Calderoli ha riferito il requisito triennale solo ai "membri elettivi del Consiglio federale".
Un'ultima osservazione potrebbe riguardare un caso "pratico" appena sorto e comunque previsto. I media hanno dato ampia risonanza alla consegna della tessera di socio a Roberto Vannacci, eletto lo scorso anno europarlamentare nelle liste della Lega per Salvini premier. Chi aveva letto il nuovo testo dello statuto senza guardare le disposizioni finali aveva pensato che i requisiti di militanza venissero semplicemente meno e questo permettesse a Vannacci di diventare vicesegretario con la semplice iscrizione al partito. Qualora, tuttavia, si ritenesse di dover applicare anche alla carica di vicesegretario federale (che è fiduciaria, non strettamente elettiva) il requisito di militanza triennale, occorre non dimenticare che il regolamento della Lega per Salvini premier prevede attualmente che ai soci sostenitori possa essere riconosciuta la qualifica di socio ordinario militante e anche un’anzianità di militanza per attività svolte in organismi o movimenti non preclusi dalla Lega per Salvini Premier; in più, i parlamentari italiani e - si suppone - anche europei possono diventare soci ordinari militanti anche senza trascorrere il primo periodo da sostenitori. Per sapere come andrà, basterà aspettare un po' di tempo.