giovedì 26 dicembre 2019

Cent'anni fa, quando si taroccava il simbolo dei socialisti

Il simbolo falso del Ps
denunciato nel 1919 dall'Avanti!
D'accordo, l'adagio in base ai quali i tempi andati erano sempre migliori di quelli in corso è potentissimo ed è in grado di fregare chiunque: ci si casca che è una meraviglia anche in ambito elettorale, pensando che prima la politica fosse più seria e gli elettori pure, come se il passato grondasse e il trapassato avesse grondato di austerità e correttezza. Qualcuno potrebbe arrivare addirittura a pensare che, in questa imprecisata età dell'oro, a nessuno potesse venire in mente di vestire i panni del furbetto del simbolino nel tentativo di danneggiare l'avversario di turno, come tante volte ci è capitato di raccontare in questi anni. 
Manco a dirlo, non c'è pensiero più lontano dal vero: per fortuna ci sono le prove per dimostrarlo, anche se sono passati ben cent'anni. Eppure, anche dopo un secolo, si fanno trovare da chi è abituato a cercare nel posto giusto e arrivano persino via e-mail: così, in una serata quasi d'inverno, è stato bello ricevere un messaggio di posta elettronica da Roberto Gremmo, pioniere dell'autonomismo in Piemonte e da molti anni ricercatore storico assai attento, in più di un'occasione citato in questo sito per le sue esperienze politiche (con importanti ricadute "simboliche"). In pochissime righe, Gremmo suggeriva di consultare l'archivio online del quotidiano Avanti!, disponibile sulle pagine del Senato, e di guardare l'edizione del 14 novembre 1919 perché avrebbe contenuto "una piccola curiosità sui simboli". Com'era già avvenuto in altre occasioni, la macchina della ricerca - una volta attivata - è difficile da fermare perché la curiosità continua ad alimentarla; se poi, come in questo caso, per iniziare è sufficiente una brevissima ricerca su un sito internet, il bisogno di soddisfare le prime curiosità diventa irresistibile e l'idea di aspettare non passa nemmeno per l'anticamera del cervello.
Dopo una breve digitazione e qualche clic, è comparsa la pagina suggerita, con due miniature di contrassegni elettorali in apparenza molto simili (e il problema, in effetti, era proprio quello): le immagini, collocate al centro della sesta colonna, erano abbinate a un articolo intitolato (guarda caso!) La più volgare truffa - Hanno falsificato le schede del nostro Partito! Il testo, nemmeno troppo lungo, merita di essere riportato per intero (corsivi e grassetti sono presenti già nell'originale): chiunque, leggendolo, può immergersi nell'atmosfera di un secolo fa e capire meglio cos'era accaduto e cos'aveva innescato la segnalazione.


Il fatto, che denunciamo ai nostri lettori, non ci sorprende. Conosciamo la democrazia ed il liberalismo, sappiamo di che cosa sono capaci coloro che ad ogni ora ci gridano che in Italia il «popolo», il «cittadino» ha tutti i mezzi per far valere la sua volontà, senza ricorrere agli estremi mezzi della violenza. Costoro levano gli inni più entusiastici alla libertà, quando sperano che il «popolo» non sappia valersene; ma si fanno in quattro, usano ogni arma — dalla violenza alla frode — quando temono che il «popolo» abbia aperto gli occhi e si appronti a fare da sé i propri interessi, senza bisogno dei loro lumi. 
Cosi si palesa la vera essenza della democrazia borghese ed in tal modo vengono deluse le speranze di quei nostri compagni che — impenitenti utopisti del demoriformismo — ci invitano a non avere fiducia che nei mezzi «democratici». 
Bella «democrazia» quella che costringe il servo a votare pel padrone; che obbliga il partito del povero a subire la violenza corruttrice o sopraffattrice del partito del ricco; che permette il monopolio della carta, della stampa, della réclame; che avventa tonnellate di bugie ben vestite contro chi non ha che pochi chili di verità, nuda e cruda!
Bella libertà quella che permette si incarceri il poveraccio che — dopo quattro lunghi anni di silenziosa sofferenza — leva un grido di protesta o lancia un sasso contro chi ritiene corresponsabile del suo malanno, e lascia compiersi la peggiore delle violenze: la violenza della diffamazione o della calunnia, la violenza della frode. 
State tranquilli, operai, non fischiate, non urlate, non cacciate colla frusta i trafficanti della patria. Essi, in silenzio, nel buio delle loro animaccie venali, stanno giuocandovi il più turpe dei tiri; ma quando vi passano dinanzi pettoruti, pieni di vento e di democrazia, salutateli. Sono delle persone per bene, non fischiano, non urlano. Noi, sono ben educati, loro. Falsificano soltanto — o tentano di falsificare, se ci possono riuscire — il responso delle urne.
Hanno accusato il bolscevismo di avere violentata la Costituente, costoro hanno affermato che il «popolo», coi mezzi legali, può raggiungere la propria liberazione, costoro; e poi, di sotto mano — per dare ragione a noi, bolscevichi — tentano di defraudarlo dei tanto vantati mezzi pacifici e legali. Costoro lavorano per noi.
A Venezia — ci si scrive — gli avversari, a tutela delle sacrosante istituzioni, hanno falsificata la scheda socialista, diffondendone attorno una quantità con tre linee tratteggiate anziché con due (come deve essere in quel collegio). A Cremona l'hanno falsificata spostando la falce a sinistra e il martello a destra. A Genova hanno messo in circolazione una quantità di schede discentrate — cioè stampate in modo che il contrassegno del nostro Partito non si veda o si veda solo in parte quando il presidente del seggio apre la busta. Con tutta probabilità gli stessi sistemi liberali e democratici, degni di coloro che hanno voluto la guerra per ragioni ideali, saranno posti in opera in altri luoghi. 
Noi — mentre mettiamo in guardia i lavoratori onde si accertino, prima di votare, che la scheda che votano è proprio quella del nostro Partito e non quella dei truffaldini della democrazia e del liberalismo costituzionale — dichiariamo in pari tempo di essere assai lieti di queste continue prove che i nostri nemici danno al proletariato, perché si valga anch'esso, quando possa e gli giovi, della illegalità.
I borghesi lavorano per noi. Ogni loro inganno si muta in un nostro trionfo. Ciò significa che noi siamo indubbiamente l'avvenire o che avremo un giorno anche noi il «diritto» di man-darli al diavolo, loro, la legalità e la libertà.
 
Al di là del tono - evocativo e imperdibile - con cui l'articolo era stato scritto, è evidente che il suggerimento di Roberto Gremmo aveva colpito nel segno. L'articolo era uscito due soli giorni prima delle elezioni politiche del 16 novembre 1919 - note per essere state le prime con il suffragio maschile realmente universale: prima erano elettori tutti gli ultratrentenni e, a determinate condizioni, gli uomini superiori ai ventuno anni - ed era uno spaccato della furberia e della malizia elettorale già diffusa cent'anni fa, ma per apprezzarlo in pieno occorre avere ben presente come si votava allora, anche materialmente.
La legge n. 1401/1919, entrata in vigore in agosto, aveva da poco stabilito che le elezioni politiche si dovessero tenere con un sistema proporzionale e scrutinio di lista: si votava dunque per una forza politica e si potevano indicare una o più preferenze (oppure anche un solo candidato di una lista diversa: era l'istituto del panachage, che la legge allora consentiva). Il fatto che il nuovo sistema - a differenza di quello precedentemente in vigore, basato sulla competizione a doppio turno tra singoli candidati in collegi uninominali - prevedesse un confronto tra gruppi di persone e, contemporaneamente, prevedesse la partecipazione di un gran numero di elettori potenzialmente analfabeti rendeva assolutamente necessaria l'identificazione delle liste attraverso un emblema riconoscibile anche da chi non era in grado di leggere e, men che meno, di scrivere le preferenze: per questo, dal 1919 era diventato obbligatorio depositare presso le prefetture, assieme alle liste, anche "un modello di contrassegno stampato, anche figurato". Un contrassegno che, peraltro, poteva non essere uguale in tutte le circoscrizioni: non esisteva un primo deposito centrale degli emblemi, ma ogni gruppo politico locale poteva agire autonomamente sul territorio, senza alcun obbligo di adottare un simbolo uguale a quello utilizzato dalla stessa forza politica altrove. E, per giunta, visto che già allora fidarsi era bene ma non fidarsi era meglio, si era previsto che ogni Commissione elettorale provinciale, dopo la presentazione delle liste, dovesse respingere (senza possibilità di presentare emblemi alternativi) i contrassegni "identici o troppo facilmente confondibili con contrassegni di altre liste precedentemente presentate".
Modello di scheda tratto dalla Gazzetta Ufficiale
Il simbolo, tuttavia, trovava posto su una scheda ben diversa rispetto a quella cui siamo abituati ora. A dispetto del radicale cambio di sistema e di formula elettorale, la legge n. 1401/1919 continuava a rimandare al regio decreto n. 821/1913, con cui si era approvato il Testo unico della legge elettorale politica, basata - lo si diceva - su un sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali. Quel sistema, in particolare, prevedeva che ogni candidato facesse stampare le proprie schede e ne predisponesse il modello (che dal 1913 poteva contenere "un contrassegno anche figurato o colorato" da abbinare al nome dell'aspirante deputato): per il testo unico la scheda doveva essere "di carta consistente bianca, non ripiegata" e avere la forma di un quadrato di 12 centimetri di lato, ma con i vertici stondati, mentre il nome del candidato e l'eventuale grafica dovevano stare al centro.
Dalla Gazzetta Ufficiale
Le schede per votare i candidati potevano essere distribuite agli elettori nei giorni che precedevano il voto, ma anche dentro lo stesso seggio, direttamente dai rappresentanti dei singoli candidati. Nel tentativo di garantire la segretezza del voto - non essendo sufficienti le cabine, pure introdotte di fatto nel 1912 - si era previsto che il voto si esprimesse inserendo solo la scheda prescelta per il voto in una busta "ufficiale", consegnata all'elettore dal presidente di seggio: la busta, essendo la sua introduzione stata sostenuta con veemenza dall'allora relatore della riforma elettorale, Pietro Bertolini, fu spesso ricordata - e non sempre in senso ironico - con il nome del suo stesso proponente (come ricorda Maria Serena Piretti nel suo saggio imprescindibile del 1995 Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi (Laterza). 
Quella busta quadrata, peraltro, oltre ad avere una sorta di "tagliando anti frode", era conformata in modo tale che in fase di espressione del suffragio non consentisse di indovinarne il contenuto (l'esterno della busta era bianco, ma l'interno era colorato), mentre in sede di scrutinio era possibile conoscere il voto espresso senza bisogno di aprire il lembo incollato: nella parte anteriore, infatti, una perforazione permetteva di strappare parte della busta, consentendo dunque di vedere attraverso la "finestrella" il contenuto della parte centrale della scheda che vi era contenuta, senza nel contempo rendere possibile sostituire la scheda stessa.  
Non è difficile capire che il nuovo sistema elettorale non si prestava molto all'uso di questo metodo di espressione del voto: per una competizione tra liste sarebbe stata molto più funzionale una "scheda di stato", predisposta in anticipo dall'amministrazione pubblica e magari con i nomi delle candidature prestampate, oltre che i contrassegni per distinguere le liste. Ne era consapevole anche la commissione che aveva studiato la riforma elettorale e in un primo tempo aveva effettivamente optato per la scheda di stato; tuttavia proprio quell'organo era piuttosto affezionato all'idea di mantenere la "busta Bertolini" (la si chiama proprio così anche nei resoconti delle sedute), ritenendo che avesse dato buona prova di sé nelle elezioni precedenti. Partendo da quel presupposto, tanto la commissione quanto il presidente del consiglio, Francesco Saverio Nitti, si erano convinti che l'uso della busta richiedesse per forza l'impiego di una "scheda di partito", predisposta dai singoli gruppi di candidati: si era sviluppato un dibattito ampio sul punto alla Camera tra luglio e agosto del 1919 e alla fine tanto la busta di stato quanto la "scheda di partito" erano state confermate.
A quel punto, ci si era limitati ad adattare quel modello di scheda al nuovo tipo di scelta. Il cerchio ricavato al centro della scheda in precedenza avrebbe dovuto contenere solo il nome del candidato che aveva fatto stampare le schede e il relativo, eventuale emblema; in base alle nuove norme, quell'area centrale dovette a quel punto ospitare tanto il contrassegno del gruppo di candidati, quanto le righe per scrivere le preferenze esprimibili nel singolo collegio. In quelle condizioni, il simbolo appariva piuttosto piccolo (alto al massimo due centimetri, l'altezza prescritta per il segmento circolare che lo doveva contenere) e, in ogni caso, la preparazione e la stampa delle schede diventava un momento davvero delicato, da vari punti di vista. 
Si può ora apprezzare meglio il campionario di trovate truffaldine che i socialisti avevano denunciato sull'Avanti!: si trattava sempre di schede elettorali non conformi a quelle predisposte dal partito, anche se la contraffazione aveva preso forme diverse. A Venezia l'aggiunta di una riga per le preferenze avrebbe potuto portare gli elettori a indicare un candidato in più (la cui preferenza, in base alla legge, sarebbe stata come non apposta) o addirittura avrebbe potuto minare l'intero voto (sempre la legge diceva che non potevano esserci altri segni oltre a quelli previsti); a Genova invece si erano inventati le schede "discentrate", per cui anche l'apertura della finestrella nella busta non consentiva di leggere il voto. L'operazione più subdola - e che qui interessa di più - fu tuttavia quella lamentata a Cremona, con un vero e proprio esempio di simbolo contraffatto, peraltro con una certa perizia: chi aveva elaborato il disegno falso, infatti, non si era limitato a spostare "la falce a sinistra e il martello a destra" (che, detto così, sembrava anticipare dei partiti trotzkisti, con la loro falce e martello "a specchio", anche se in realtà gli "arnesi" erano stati solo ruotati e non ribaltati), ma li aveva inseriti in modo praticamente perfetto nella composizione grafica. Il sole che sorgeva coi raggi era lo stesso, la corona di spighe pure; un occhio non troppo allenato alle differenze, in effetti, avrebbe potuto cadere nell'inganno, visto che gli ingredienti fondamentali dell'emblema c'erano tutti, anche se disposti diversamente.
L'Avanti! non dice espressamente se effettivamente più di qualcuno incappò nell'inganno e inserì nella "busta Bertolini" la scheda sbagliata (che quindi non sarebbe stata conteggiata a favore del Partito Socialista "ufficiale"); in compenso, sfogliando l'edizione di martedì 18 novembre, il giornale diede enorme rilevanza in prima pagina alla "travolgente vittoria del Partito Socialista", che in effetti risultò la forza politica in assoluto più votata, con 1.834.792 schede a proprio favore, trasformatesi in 156 seggi, mentre il Partito popolare italiano - alla sua prima partecipazione elettorale - si era fermato a 100 e il Partito liberale democratico (che peraltro si era presentato con simboli diversi sul territorio) si era dovuto accontentare di 96 eletti. Non ci si stupisce, dunque, nel trovare in quella stessa prima pagina una vignetta impagabile di Giuseppe Scalarini - la cui didascalia è "Dall'urna è uscito trionfante il Partito Socialista!" - in cui il simbolo (quello giusto, anche se con una certa interpretazione grafica) era l'ingrediente principale del disegno dell'illustratore satirico mantovano (che collaborava all'Avanti! dal 1911). 
Nella quarta pagina - che era anche l'ultima - poi si trova un pugno di righe davvero interessante: il giornale, infatti, dà notizia di una "Strepitosa vittoria a Cremona", con i socialisti che erano riusciti a conquistare tre dei cinque seggi disponibili in quel collegio plurinominale. Con 32.151 voti, infatti, il Partito Socialista "ufficiale" elesse alla Camera Costantino Lazzari (quasi 9.400 preferenze personali), Ferdinando Cazzamalli e Giuseppe Garibotti; il Ppi, con i suoi 20.528 voti allo scudo crociato di Sturzo, vide eletto soltanto Guido Miglioli (che comunque aveva ottenuto oltre 10.600 preferenze). L'ultimo seggio andò al Blocco democratico - che aveva come emblema un aratro e riuniva, come scrive l'Avanti!, "tutte le sfumature dei partiti borghesi, dai riformisti agli ultra conservatori" - che non andò oltre i 15.839 voti; il candidato più votato contò su 3700 preferenze, ma queste bastarono per assicurare il rientro in Parlamento a Leonida Bissolati (che pure venne trattato come un traditore dei lavoratori dal giornale che lui stesso aveva fondato nel 1896). Restò fuori invece il leader dei radicali e già ministro Ettore Sacchi, anch'egli presente in quella lista; entrò alla Camera solo nel 1920, dopo la morte di Leonida Bissolati e grazie alle proprie 3.561 preferenze. Le schede contraffatte, insomma, avevano avuto pochi effetti: probabilmente l'allarme lanciato dall'Avanti! e diffuso dai militanti socialisti locali aveva colto nel segno.

Grazie di cuore a Roberto Gremmo per la segnalazione, che ha permesso questo tuffo nella storia. Una specie di regalo di Natale, per i lettori di questo sito. 

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