D'accordo che "la sinistra è gioco, è divertimento, è fantasia" (si scherza ovviamente), ma Corrado Guzzanti nei panni di Fausto Bertinotti lo avrebbe insegnato solo a partire dal 1997; cinque anni prima, poi, tra "Gladio", "Mani pulite", crisi economica e altri contorni c'era ben poco da divertirsi. In compenso, già in quel 1992 era nota la tendenza della stessa sinistra alla scissione, quando non allo spezzatino. Parlare di "unità della sinistra" poteva apparire come utopistico (con retrogusto amaro), fantascientifico, oppure poteva essere ritenuto così assurdo e improbabile da configurarsi come puro esercizio di ironia e sarcasmo. Per questo, non stupisce che Cuore - il settimanale satirico, ormai non più inserto dell'Unità - un bel giorno, in uno degli anni più difficili e controversi della storia italiana, abbia preso proprio il tema dell'unità della sinistra come oggetto per la propria ironia tagliente; ai suoi lettori, tuttavia, offrì anche un piccolo esercizio di fantasia "grafico-simbolico".
Il numero che ci interessa era datato 17 febbraio 1992, per giunta il giorno esatto dell'arresto di Mario Chiesa, con il quale l'inchiesta milanese sulle tangenti sarebbe divenuta nota all'Italia intera. In quel 17 febbraio, mentre le Camere erano state sciolte due settimane prima da Francesco Cossiga e mancavano solo quattro giorni all'apertura del deposito dei contrassegni al Viminale, Cuore metteva proprio in prima pagina un nuovo simbolo, tanto verosimile nell'aspetto quanto distante dalla realtà, per tutta una serie di motivi.
In realtà, la semplice visione dell'intera pagina funziona meglio di una macchina del tempo - anzi, è una vera macchina del tempo - per i #drogatidipolitica: tutta la parte inferiore, per dire, era occupata da un pezzo di Michele Serra, intitolato Il teorema di Pirrotta, facendo così materializzare in un attimo le note politiche accorate e assai filosocialiste di Onofrio Pirrotta al Tg2 (anche se in quel caso era finito oggetto di sberleffo nella sua autoproclamata qualità di smascheratore di bufale). L'occhio, tuttavia, era naturalmente catturato dal "clamoroso scoop" dell'apertura, con un titolo d'impatto nella sua semplicità: Stavolta si vince! Sinistra unita alle elezioni. In poche parole, si rendeva l'idea tanto dell'abitudine (della vocazione?) alla sconfitta della sinistra italiana, quanto del desiderio (della necessità?) di autoconvincersi che quella potesse essere la volta buona.
In sostanza, il giornale immaginava un vero e proprio "listone" costruito da Achille Occhetto (da un anno segretario del Partito democratico della sinistra), Sergio Garavini (freschissimo segretario di Rifondazione comunista), Giorgio La Malfa (allora e ancora a lungo segretario del Partito repubblicano italiano), Leoluca Orlando (segretario della Rete, fondata un anno prima), Gianni Mattioli (allora presidente della Federazione dei Verdi) e persino Marco Pannella (in veste di leader tanto del Partito radicale, che già allora non si presentava alle elezioni, quanto della lista Antiproibizionisti sulla droga): un "listone" che si sarebbe dovuto chiamare Uniti per l'alternativa e che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto puntare al 40%.
Anche solo uno sguardo veloce alla pagina, dominata dal titolo e dalla foto enorme dell'incontro "segreto" (ma documentato con foto, urchi!) dei sei protagonisti dell'operazione, era in grado di indurre grasse risate al lettore minimamente avvezzo alle vicende politiche ed elettorali italiane, come si vedrà tra poco; eppure l'attenzione del vero #drogatodipolitica non poteva non farsi catturare da quel cartello retto da Occhetto (forse appena con un briciolo di sicurezza in più rispetto a quando aveva impugnato il nuovo emblema del Pds) che riportava il possibile simbolo di Uniti per l'alternativa. Cuore dell'emblema era la sagoma dell'Italia stilizzata e contornata di rosso, con un sorriso a metà tra lo stretto e il sornione, su un fondo rosso-rosa sfumato, circondata dal nome del "listone" e con la sigla dello stesso basso, rossa e inserita in un rettangolo, ben visibile in carattere grassetto e graziato.
Trovandosi davanti agli occhi questo "reperto cartaceo" di quasi ventott'anni fa, il politics addicted di oggi rischia la lacrimuccia, ma viene colto dal desiderio di capire di più - d'accordo, si scherza, ma già che ci si è la vaccata la si faccia intera" - per cui, dopo qualche secondo di attenzione, passa alle pagine interne, sperando che si dica qualcosa di più anche su quella curiosa grafica. A pagina 2, dunque, ecco il titolo iconico: Nasce tra i sorrisi lo "spirito di Chianciano", facendo evidentemente il verso al più noto "spirito di Assisi" di cinque anni prima e invocandone la medesima natura pacificatrice e ricostruttiva. Non è un caso che, come sede del fantomatico incontro, sia stato scelto il "piccolo albergo La Pace", molto francescano e anticipatore inconsapevole dei vari incontri a Camaldoli, Gargonza, Spineto e quant'altro.
Di pace, in effetti, ne sarebbe servita parecchia: giusto per dirne una, di tensioni sotto la cenere ne covavano parecchie tra il Pds e la neonata Rifondazione comunista e, tempo una settimana, sarebbe scoppiata l'ennesima lite dopo la bocciatura del simbolo di Garavini da parte del Viminale per l'impiego dell'espressione "Partito comunista" (coi rifondatori pronti ad accusare il Pds di aver ispirato al ministero la mano pesante e le risposte sdegnate di D'Alema e degli altri), discussione placata solo dalla Cassazione che avrebbe riammesso l'emblema senza modifiche. Del resto, quale miglior luogo per trovare la pace e la tranquillità di una località termale come Chianciano, peraltro avvezza alla politica tra congressi nazionali e feste di partito?
Così, in una domenica 16 febbraio iniziata con una pioggerellina e terminata con sorrisi e strette di mano a suggello di "un incontro davvero storico, tenuto segreto alla stampa e alle tivù con l'unica eccezione degli inviati di Cuore" (alè!), i sei leader - anzi, l'articolo a firma Ambrogio Lopuoti ne cita sette, forse perché c'era anche Massimo D'Alema e la sua ombra era già in azione - si sarebbero incontrati in questo alberghetto: per cominciare, Occhetto "in completo di tweed, volto teso e una gran borsa sotto il braccio", Pannella in "jeans e cappotto di tweed" e l'elegantissimo Garavini, "che si ripara dalla pioggia con una coppola di tweed" (c'era da dubitarne?). Non si hanno notizie sull'abbigliamento di Orlando, mentre si raggiungono livelli grotteschi con l'arrivo di Mattioli che all'appuntamento della "nuova sinistra unita" (eh, brutta cosa i ricordi!) sarebbe giunto "su una vecchia bicicletta di tweed noleggiata alla stazione" (orpo!); niente tweed invece per La Malfa, ritratto solo come frettoloso ed efficiente.
I contrasti emersi sarebbero stati risolti con uno spinello offerto da Pannella e accettato col sorrido da Occhetto e con una foto polaroid di La Malfa in kefiah scattata da Garavini. Il contenuto dell'incontro sarebbe entrato in un documento di sole tre cartelle e venti righe (merito anche del limite di mezz'ora agli interventi di Pannella, mal sopportato dal suddetto), in cui avrebbero trovato posto l'uguaglianza fiscale e la lotta al deficit pubblico (Occhetto, con ritocchi di La Malfa), lotta al crimine e al business della droga (Orlando e Pannella), marmitte catalitiche per tutti (Mattioli), "fine dell'insulso mercanteggiare di dossier dell'est (Garavini), natura transnazionale della formazione politica (Pannella ovviamente). Finito l'incontro, ci sarebbe stato persino il tempo per distribuire spinelli, legare fazzoletti rossi, gioire "per l'insperata vittoria del Palermo" e appassionarsi alle begonie guidati dalla figlia del titolare.
Un'unione delle forze di sinistra, dunque, anche se sarebbe stato meglio parlare di forze dell'opposizione, visto che a Chianciano non c'era traccia dei socialisti (sì, quelli impanicati per l'arrivo dell'ora legale, ma Cuore l'avrebbe scritto solo un mese più in là): a dispetto della guida craxiana, era difficile accusarli di non essere di sinistra, ma all'epoca erano al governo e non si potevano coinvolgere in disegni alternativi. C'era invece Pannella, ancor lontano dagli accordi con Silvio Berlusconi, e c'era La Malfa, che all'opposizione ci era finito da meno di un anno, così come c'era Orlando che fino a un anno prima era parte della Democrazia cristiana. Loro, assieme agli amici-nemici di falce e martello Occhetto e Garavini e al verde Mattioli, avrebbero potuto "garantire al paese un'alternativa civile allo sfascio mafioso-clientelare prodotto dal regime democristiano-socialista". Questo almeno secondo l'anonimo autore del corsivo, intitolato Finalmente: pur nelle loro differenze, quelle sei anime avrebbero capito di poter convivere anche in un ipotetico governo "nel nome della rinascita democratica del paese, del rigore amministrativo, del superiore interesse pubblico" - anche perché fino ad allora la Dc in oltre quarant'anni di governo aveva "sempre rappresentato e sostenuto tutto e il contrario di tutto messo insieme capra e cavoli, appoggiato le istanze più disparate" - e in quel modo avrebbero smentito le tesi di chi li riteneva "troppo legati agli interessi di partito, troppo spaventati dall'audacia radicale che la gravissima situazione richiede, troppo rinchiusi nei rispettivi orticelli ideali" (ma vuoi vedere che, invece, alla fine erano proprio così?).
Soprassedendo sulle dichiarazioni dei contraenti, scrupolosamente riportate in un articolo a firma Dario Durium (eppure no, non si può restare indifferenti di fronte a Garavini che dice di aver fondato Rifondazione comunista per confrontarsi meglio "con spirito sgombro da pregiudizi e durezze ideologiche, coi compagni pidiessini", apprezzando soprattutto il cambio di nome del partito, e a Occhetto che ricambia sottolineando di stimare Cossutta; non possono tacersi la rivelazione sviluppista di Mattioli, la sentenza "l'idea di fare una lista Pannella era veramente una stronzata" pronunciata da Pannella medesimo, la lode al primato dell'obiezione di coscienza, dei diritti civili e del salario garantito cantata da La Malfa), ci si può concentrare su una vignetta di Vincino, ElleKappa o Altan, per poi vedere come lo spirito di Chianciano aveva già iniziato a contagiare i rispettivi partiti.
Perché, sì, andava bene l'accordo dei leader, ma poi chi le faceva le liste? In fondo, l'idea di un "listone" unico alternativo faceva a cazzotti con l'idea stessa del proporzionale, che ancora si sarebbe applicato (per l'ultima volta e, comunque, con la preferenza unica post-referendaria) alle elezioni politiche e che avrebbe permesso di candidate un numero di persone sei volte maggiore. Non era più semplice dichiarare dall'inizio l'idea del fronte politico alternativo, ma correre ognuno con la propria lista e il proprio simbolo - al massimo con una sorta di "marchio di gamma" da riportare in ciascuno, cosa che fino a quel momento non s'era mai vista - per raccogliere il maggior numero di voti possibili e lasciar scegliere più scelta agli elettori di ogni singolo partito con le preferenze, per poi marciare di nuovo compatti e - si spera - numerosi dopo il voto? Forse sì, ma ovviamente non per i volenterosi dell'alternativa dipinti da Cuore, tutti impregnati di spirito di servizio.
Niente personalismi e particolarismi nella composizione delle liste: i leader candidati "solo se ci sarà un posto disponibile", frotte di telegrammi di rinuncia alla candidatura (con suggerimenti di candidare esponenti di altri partiti), giurì d'intellettuali in costituzione per decidere le candidature. Erano allo studio pure - secondo l'informato articolo a firma Marco Maria Loden (in epoca molto premontiana, ovvio) - soluzioni inedite per formare gli elenchi di candidati senza destare il minimo sospetto di personalismi e prevaricazioni: dal sorteggio alla "presentazione di una lista formata dalle sole iniziali dei candidati" (con elezione in incognito, almeno per gli elettori), da liste di sconosciuti rappresentanti della società civile (ma questo sarebbe accaduto) a "una lista di sole donne che si recherebbero in parlamento a rotazione, una settimana a testa". Il tutto, sia chiaro, senza svolgere affatto campagna elettorale (perché "un partito non deve chiedere voti a nessuno; deve meritarseli con la sua azione, non con la propaganda"), lasciando comizi e tribune ai "candidati conservatori (Dc, Psdi, Pli)" e a "quelli dell'estrema destra (Msi, Psi e Leghe)".
Ammirati per la classificazione politica proposta, ci si può ancora lasciar trasportare dal reportage di Uella Carugati sulla passeggiata in giro per Chianciano delle sei compagne degli altrettanti leader contraenti del patto: un pezzo di colore (verosimilmente quello del tweed che ritorna addosso alle signore Pannella, La Malfa e Orlando, puntualmente abbinato a un filo di perle), ma si è costretti a rilevare la mancata analisi puntuale del contrassegno scelto. Anche perché, a ben guardare, si trattava di un emblema sbilanciato: l'Italia nel simbolo rappresentava tutti e nessuno (visto che nessun partito contraente l'aveva come proprio fregio), mentre il sorriso era una chiara citazione del sole che ride dei Verdi e il colore rosso - introdotto proprio in coincidenza con l'adozione delle schede elettorali in technicolor, a dispetto di Cossiga - poteva accontentare almeno in parte i due partiti che si contendevano l'eredità politica del Pci e, sia pur molto alla lontana, i supporter della Rete (il colore di sfondo era quello). Niente foglie di edera o di canapa indiana, niente rose con o senza pugno: repubblicani e radicali antiproibizionisti avrebbero ben potuto piantare grane per quella grafica che li escludeva quasi del tutto.
Nessuna lite, invece, si registrò in materia simbolica, essendo scoppiata la pace anche lì. Del tutto incidentalmente, si può ora notare che parlare di "Italia che ride", come avevano fatto i titolisti dei pezzi (figure che, notoriamente, nei giornali fanno danni da sempre), era un po' inopportuno. Quello del sole dei Verdi, mutuato dagli antinuclearisti danesi, era effettivamente un sorriso solare - ci si perdoni il bisticcio - contagioso e anticipatore di una risata; quello dell'Italia degli alternativi uniti, invece, sembrava un sorriso tra lo sforzato e il sornione, a occhi più stretti che visti, quasi - ci si perdoni di nuovo e più di prima - andreottiano nell'espressione. Del resto, al governo in quel momento c'era proprio Giulio Andreotti, per il suo ultimo esecutivo. Insomma, quella dell'alternativa, più che un'Italia "che ride", sorrideva quanto bastava, in bilico tra "l'ottimismo è il profumo della vita" (ma a Tonino Guerra l'avrebbero fatto dire una decina d'anni dopo) e la consapevolezza che si preparavano tempi grami e sorridere oggettivamente era fin troppo.
Manco a dirlo, quel simbolo non finì nelle bacheche del Viminale (e non solo perché il rettangolino con la sigla "UpA" avrebbe dovuto essere contenuto nel cerchio, come le regole vogliono), i sei leader ricordati corsero per conto proprio e non proprio in sintonia; la somma delle loro percentuali arrivò al 32% ma con una lista unica forse avrebbe potuto essere ancor più bassa (secondo il teorema - non di Pirrotta - in base al quale due più due non fa mai quattro, ma tre e mezzo se va bene). I #drogatidipolitica comunque rattristati per non aver potuto vedere quell'emblema sulle schede elettorali possono però apprezzare i due simboli altrettanto fantastici proposti a pagina 3, non firmati ma da attribuire a Roberto Perini: prima un Saturno molto craxiano per il Partito socialista intergalattico, poi un anonimo cane abbaiante per il Partito degli animali qualunque (e pensare che proprio in quel 1992 qualcuno - probabilmente Giuseppe Fortezza - si preoccupò di depositare nuovamente l'emblema dell'uomo stretto nel torchio, finalmente con la U tornata rossa). Un ultimo sorriso, prima di riporre la copia di Cuore servita a rinfrescare la memoria e a viaggiare nel tempo.
In realtà, la semplice visione dell'intera pagina funziona meglio di una macchina del tempo - anzi, è una vera macchina del tempo - per i #drogatidipolitica: tutta la parte inferiore, per dire, era occupata da un pezzo di Michele Serra, intitolato Il teorema di Pirrotta, facendo così materializzare in un attimo le note politiche accorate e assai filosocialiste di Onofrio Pirrotta al Tg2 (anche se in quel caso era finito oggetto di sberleffo nella sua autoproclamata qualità di smascheratore di bufale). L'occhio, tuttavia, era naturalmente catturato dal "clamoroso scoop" dell'apertura, con un titolo d'impatto nella sua semplicità: Stavolta si vince! Sinistra unita alle elezioni. In poche parole, si rendeva l'idea tanto dell'abitudine (della vocazione?) alla sconfitta della sinistra italiana, quanto del desiderio (della necessità?) di autoconvincersi che quella potesse essere la volta buona.
In sostanza, il giornale immaginava un vero e proprio "listone" costruito da Achille Occhetto (da un anno segretario del Partito democratico della sinistra), Sergio Garavini (freschissimo segretario di Rifondazione comunista), Giorgio La Malfa (allora e ancora a lungo segretario del Partito repubblicano italiano), Leoluca Orlando (segretario della Rete, fondata un anno prima), Gianni Mattioli (allora presidente della Federazione dei Verdi) e persino Marco Pannella (in veste di leader tanto del Partito radicale, che già allora non si presentava alle elezioni, quanto della lista Antiproibizionisti sulla droga): un "listone" che si sarebbe dovuto chiamare Uniti per l'alternativa e che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto puntare al 40%.
Anche solo uno sguardo veloce alla pagina, dominata dal titolo e dalla foto enorme dell'incontro "segreto" (ma documentato con foto, urchi!) dei sei protagonisti dell'operazione, era in grado di indurre grasse risate al lettore minimamente avvezzo alle vicende politiche ed elettorali italiane, come si vedrà tra poco; eppure l'attenzione del vero #drogatodipolitica non poteva non farsi catturare da quel cartello retto da Occhetto (forse appena con un briciolo di sicurezza in più rispetto a quando aveva impugnato il nuovo emblema del Pds) che riportava il possibile simbolo di Uniti per l'alternativa. Cuore dell'emblema era la sagoma dell'Italia stilizzata e contornata di rosso, con un sorriso a metà tra lo stretto e il sornione, su un fondo rosso-rosa sfumato, circondata dal nome del "listone" e con la sigla dello stesso basso, rossa e inserita in un rettangolo, ben visibile in carattere grassetto e graziato.
Trovandosi davanti agli occhi questo "reperto cartaceo" di quasi ventott'anni fa, il politics addicted di oggi rischia la lacrimuccia, ma viene colto dal desiderio di capire di più - d'accordo, si scherza, ma già che ci si è la vaccata la si faccia intera" - per cui, dopo qualche secondo di attenzione, passa alle pagine interne, sperando che si dica qualcosa di più anche su quella curiosa grafica. A pagina 2, dunque, ecco il titolo iconico: Nasce tra i sorrisi lo "spirito di Chianciano", facendo evidentemente il verso al più noto "spirito di Assisi" di cinque anni prima e invocandone la medesima natura pacificatrice e ricostruttiva. Non è un caso che, come sede del fantomatico incontro, sia stato scelto il "piccolo albergo La Pace", molto francescano e anticipatore inconsapevole dei vari incontri a Camaldoli, Gargonza, Spineto e quant'altro.
Di pace, in effetti, ne sarebbe servita parecchia: giusto per dirne una, di tensioni sotto la cenere ne covavano parecchie tra il Pds e la neonata Rifondazione comunista e, tempo una settimana, sarebbe scoppiata l'ennesima lite dopo la bocciatura del simbolo di Garavini da parte del Viminale per l'impiego dell'espressione "Partito comunista" (coi rifondatori pronti ad accusare il Pds di aver ispirato al ministero la mano pesante e le risposte sdegnate di D'Alema e degli altri), discussione placata solo dalla Cassazione che avrebbe riammesso l'emblema senza modifiche. Del resto, quale miglior luogo per trovare la pace e la tranquillità di una località termale come Chianciano, peraltro avvezza alla politica tra congressi nazionali e feste di partito?
Così, in una domenica 16 febbraio iniziata con una pioggerellina e terminata con sorrisi e strette di mano a suggello di "un incontro davvero storico, tenuto segreto alla stampa e alle tivù con l'unica eccezione degli inviati di Cuore" (alè!), i sei leader - anzi, l'articolo a firma Ambrogio Lopuoti ne cita sette, forse perché c'era anche Massimo D'Alema e la sua ombra era già in azione - si sarebbero incontrati in questo alberghetto: per cominciare, Occhetto "in completo di tweed, volto teso e una gran borsa sotto il braccio", Pannella in "jeans e cappotto di tweed" e l'elegantissimo Garavini, "che si ripara dalla pioggia con una coppola di tweed" (c'era da dubitarne?). Non si hanno notizie sull'abbigliamento di Orlando, mentre si raggiungono livelli grotteschi con l'arrivo di Mattioli che all'appuntamento della "nuova sinistra unita" (eh, brutta cosa i ricordi!) sarebbe giunto "su una vecchia bicicletta di tweed noleggiata alla stazione" (orpo!); niente tweed invece per La Malfa, ritratto solo come frettoloso ed efficiente.
I contrasti emersi sarebbero stati risolti con uno spinello offerto da Pannella e accettato col sorrido da Occhetto e con una foto polaroid di La Malfa in kefiah scattata da Garavini. Il contenuto dell'incontro sarebbe entrato in un documento di sole tre cartelle e venti righe (merito anche del limite di mezz'ora agli interventi di Pannella, mal sopportato dal suddetto), in cui avrebbero trovato posto l'uguaglianza fiscale e la lotta al deficit pubblico (Occhetto, con ritocchi di La Malfa), lotta al crimine e al business della droga (Orlando e Pannella), marmitte catalitiche per tutti (Mattioli), "fine dell'insulso mercanteggiare di dossier dell'est (Garavini), natura transnazionale della formazione politica (Pannella ovviamente). Finito l'incontro, ci sarebbe stato persino il tempo per distribuire spinelli, legare fazzoletti rossi, gioire "per l'insperata vittoria del Palermo" e appassionarsi alle begonie guidati dalla figlia del titolare.
Un'unione delle forze di sinistra, dunque, anche se sarebbe stato meglio parlare di forze dell'opposizione, visto che a Chianciano non c'era traccia dei socialisti (sì, quelli impanicati per l'arrivo dell'ora legale, ma Cuore l'avrebbe scritto solo un mese più in là): a dispetto della guida craxiana, era difficile accusarli di non essere di sinistra, ma all'epoca erano al governo e non si potevano coinvolgere in disegni alternativi. C'era invece Pannella, ancor lontano dagli accordi con Silvio Berlusconi, e c'era La Malfa, che all'opposizione ci era finito da meno di un anno, così come c'era Orlando che fino a un anno prima era parte della Democrazia cristiana. Loro, assieme agli amici-nemici di falce e martello Occhetto e Garavini e al verde Mattioli, avrebbero potuto "garantire al paese un'alternativa civile allo sfascio mafioso-clientelare prodotto dal regime democristiano-socialista". Questo almeno secondo l'anonimo autore del corsivo, intitolato Finalmente: pur nelle loro differenze, quelle sei anime avrebbero capito di poter convivere anche in un ipotetico governo "nel nome della rinascita democratica del paese, del rigore amministrativo, del superiore interesse pubblico" - anche perché fino ad allora la Dc in oltre quarant'anni di governo aveva "sempre rappresentato e sostenuto tutto e il contrario di tutto messo insieme capra e cavoli, appoggiato le istanze più disparate" - e in quel modo avrebbero smentito le tesi di chi li riteneva "troppo legati agli interessi di partito, troppo spaventati dall'audacia radicale che la gravissima situazione richiede, troppo rinchiusi nei rispettivi orticelli ideali" (ma vuoi vedere che, invece, alla fine erano proprio così?).
Soprassedendo sulle dichiarazioni dei contraenti, scrupolosamente riportate in un articolo a firma Dario Durium (eppure no, non si può restare indifferenti di fronte a Garavini che dice di aver fondato Rifondazione comunista per confrontarsi meglio "con spirito sgombro da pregiudizi e durezze ideologiche, coi compagni pidiessini", apprezzando soprattutto il cambio di nome del partito, e a Occhetto che ricambia sottolineando di stimare Cossutta; non possono tacersi la rivelazione sviluppista di Mattioli, la sentenza "l'idea di fare una lista Pannella era veramente una stronzata" pronunciata da Pannella medesimo, la lode al primato dell'obiezione di coscienza, dei diritti civili e del salario garantito cantata da La Malfa), ci si può concentrare su una vignetta di Vincino, ElleKappa o Altan, per poi vedere come lo spirito di Chianciano aveva già iniziato a contagiare i rispettivi partiti.
Perché, sì, andava bene l'accordo dei leader, ma poi chi le faceva le liste? In fondo, l'idea di un "listone" unico alternativo faceva a cazzotti con l'idea stessa del proporzionale, che ancora si sarebbe applicato (per l'ultima volta e, comunque, con la preferenza unica post-referendaria) alle elezioni politiche e che avrebbe permesso di candidate un numero di persone sei volte maggiore. Non era più semplice dichiarare dall'inizio l'idea del fronte politico alternativo, ma correre ognuno con la propria lista e il proprio simbolo - al massimo con una sorta di "marchio di gamma" da riportare in ciascuno, cosa che fino a quel momento non s'era mai vista - per raccogliere il maggior numero di voti possibili e lasciar scegliere più scelta agli elettori di ogni singolo partito con le preferenze, per poi marciare di nuovo compatti e - si spera - numerosi dopo il voto? Forse sì, ma ovviamente non per i volenterosi dell'alternativa dipinti da Cuore, tutti impregnati di spirito di servizio.
Niente personalismi e particolarismi nella composizione delle liste: i leader candidati "solo se ci sarà un posto disponibile", frotte di telegrammi di rinuncia alla candidatura (con suggerimenti di candidare esponenti di altri partiti), giurì d'intellettuali in costituzione per decidere le candidature. Erano allo studio pure - secondo l'informato articolo a firma Marco Maria Loden (in epoca molto premontiana, ovvio) - soluzioni inedite per formare gli elenchi di candidati senza destare il minimo sospetto di personalismi e prevaricazioni: dal sorteggio alla "presentazione di una lista formata dalle sole iniziali dei candidati" (con elezione in incognito, almeno per gli elettori), da liste di sconosciuti rappresentanti della società civile (ma questo sarebbe accaduto) a "una lista di sole donne che si recherebbero in parlamento a rotazione, una settimana a testa". Il tutto, sia chiaro, senza svolgere affatto campagna elettorale (perché "un partito non deve chiedere voti a nessuno; deve meritarseli con la sua azione, non con la propaganda"), lasciando comizi e tribune ai "candidati conservatori (Dc, Psdi, Pli)" e a "quelli dell'estrema destra (Msi, Psi e Leghe)".
Ammirati per la classificazione politica proposta, ci si può ancora lasciar trasportare dal reportage di Uella Carugati sulla passeggiata in giro per Chianciano delle sei compagne degli altrettanti leader contraenti del patto: un pezzo di colore (verosimilmente quello del tweed che ritorna addosso alle signore Pannella, La Malfa e Orlando, puntualmente abbinato a un filo di perle), ma si è costretti a rilevare la mancata analisi puntuale del contrassegno scelto. Anche perché, a ben guardare, si trattava di un emblema sbilanciato: l'Italia nel simbolo rappresentava tutti e nessuno (visto che nessun partito contraente l'aveva come proprio fregio), mentre il sorriso era una chiara citazione del sole che ride dei Verdi e il colore rosso - introdotto proprio in coincidenza con l'adozione delle schede elettorali in technicolor, a dispetto di Cossiga - poteva accontentare almeno in parte i due partiti che si contendevano l'eredità politica del Pci e, sia pur molto alla lontana, i supporter della Rete (il colore di sfondo era quello). Niente foglie di edera o di canapa indiana, niente rose con o senza pugno: repubblicani e radicali antiproibizionisti avrebbero ben potuto piantare grane per quella grafica che li escludeva quasi del tutto.
Nessuna lite, invece, si registrò in materia simbolica, essendo scoppiata la pace anche lì. Del tutto incidentalmente, si può ora notare che parlare di "Italia che ride", come avevano fatto i titolisti dei pezzi (figure che, notoriamente, nei giornali fanno danni da sempre), era un po' inopportuno. Quello del sole dei Verdi, mutuato dagli antinuclearisti danesi, era effettivamente un sorriso solare - ci si perdoni il bisticcio - contagioso e anticipatore di una risata; quello dell'Italia degli alternativi uniti, invece, sembrava un sorriso tra lo sforzato e il sornione, a occhi più stretti che visti, quasi - ci si perdoni di nuovo e più di prima - andreottiano nell'espressione. Del resto, al governo in quel momento c'era proprio Giulio Andreotti, per il suo ultimo esecutivo. Insomma, quella dell'alternativa, più che un'Italia "che ride", sorrideva quanto bastava, in bilico tra "l'ottimismo è il profumo della vita" (ma a Tonino Guerra l'avrebbero fatto dire una decina d'anni dopo) e la consapevolezza che si preparavano tempi grami e sorridere oggettivamente era fin troppo.
Manco a dirlo, quel simbolo non finì nelle bacheche del Viminale (e non solo perché il rettangolino con la sigla "UpA" avrebbe dovuto essere contenuto nel cerchio, come le regole vogliono), i sei leader ricordati corsero per conto proprio e non proprio in sintonia; la somma delle loro percentuali arrivò al 32% ma con una lista unica forse avrebbe potuto essere ancor più bassa (secondo il teorema - non di Pirrotta - in base al quale due più due non fa mai quattro, ma tre e mezzo se va bene). I #drogatidipolitica comunque rattristati per non aver potuto vedere quell'emblema sulle schede elettorali possono però apprezzare i due simboli altrettanto fantastici proposti a pagina 3, non firmati ma da attribuire a Roberto Perini: prima un Saturno molto craxiano per il Partito socialista intergalattico, poi un anonimo cane abbaiante per il Partito degli animali qualunque (e pensare che proprio in quel 1992 qualcuno - probabilmente Giuseppe Fortezza - si preoccupò di depositare nuovamente l'emblema dell'uomo stretto nel torchio, finalmente con la U tornata rossa). Un ultimo sorriso, prima di riporre la copia di Cuore servita a rinfrescare la memoria e a viaggiare nel tempo.
Grazie di cuore a Paola Meinardi, che con il suo archivio e le foto gentilmente concesse ha permesso di riesumare la sinistra unita che non c'è mai stata.
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