martedì 20 febbraio 2024

"L'ultimo commosso saluto a un uomo molto amato": lettura immersiva, dalla caduta ai garofani dell'addio

Il 5 maggio saranno trascorsi trent'anni dal giorno in cui "Craxi Benedetto detto Bettino" lasciò definitivamente l'Italia, dopo aver concluso la sua settima legislatura da deputato (col conseguente venir meno dell'immunità parlamentare) e pochi giorni prima che fosse disposto il ritiro del suo passaporto; il 12 novembre, invece, sarà il trentennale dello scioglimento del Partito socialista italiano, deliberato dal 47° congresso nazionale, un anno e nove mesi dopo le dimissioni di Craxi dalla segreteria, retta da lui per quasi 17 anni. Se di norma si fa risalire la fine della cosiddetta Prima Repubblica al voto politico del 27-28 marzo 1994 - quello della vittoria di Silvio Berlusconi sulla "gioiosa macchina da guerra" dei Progressisti, della sostanziale irrilevanza del centro e dello scivolamento del Psi (senza più il garofano) a poco più del 2% - l'espatrio di Craxi e lo scioglimento del partito che aveva guidato sembrano assumere, per chi scrive, il ruolo delle ultime luci che si spengono su una scena ormai quasi del tutto spopolata (e non certo solo dai socialisti). Più di qualche attore, beninteso, sarebbe ricomparso in seguito, sotto nuove insegne e con alterne fortune, ma in un contesto piuttosto distante da quello che aveva caratterizzato il primo mezzo secolo scarso della Repubblica italiana.  
Altre figure, invece, a dispetto della notorietà guadagnata fino al 1994 non sarebbero ricomparse sulla scena politica italiana, nemmeno in seconda, terza o quarta fila: all'interno del Psi Craxi ne fu certamente l'esempio più eclatante, ma non fu certo il solo. Proprio un'immaginaria figura pescata in quel novero è stata costruita per essere protagonista del romanzo L'ultimo commosso saluto a un uomo molto amato, pubblicato nel 2022 da People e scritto da Pieter Freibeuter: dietro questo nome si cela l'amministratore - anzi, pardon, il "Luminoso Segretario" - della pagina Facebook Una foto diversa della prima Repubblica. Ogni giorno. (poi sbarcata anche su Twitter e Instagram), che propone foto (in bianco e nero o a colori) legate alle figure del primo tempo - rigorosamente proporzionale - della Repubblica Italiana. Per quanto si tratti di pagine di dichiarata finzione, meritano di essere sfogliate da parte di chi ha la curiosità di capire come si poteva vivere il tempo della caduta e la fine del gioco "dal di dentro", sia pure ai margini della scena citata prima. 
Già, perché il protagonista del romanzo, Mariolino Celeghin - all'anagrafe Mario, in un'epoca in cui diminutivi - a partire da Bettino - e vezzeggiativi non si lesinavano - deputato socialista dal 1976 al 1992 e più volte sottosegretario per vari dicasteri (del governo Fanfani V, dei due governi Craxi, degli esecutivi di Goria e De Mita e del penultimo gabinetto Andreotti), pur avendo spostato negli ultimi anni il suo centro di interessi (e la circoscrizione di elezione nelle ultime due legislature), proveniva invece dal Veneto. E non da Venezia - terra di dogi e di chimici prestati alla politica e proiettati alla Farnesina - bensì da Rovigo, anzi da Buseto Rodigino, comune immaginario (ma credibilissimo, al pari dei milanesi Piolnate e Tresco sul Lambro, sempre creati dall'autore) da cui era partito per diventare ingegnere e, dopo le prime esperienze da consigliere comunale a Rovigo, approdare in consiglio regionale sempre per il Psi, fino all'approdo parlamentare. 
Venire dalla provincia, naturalmente, non limitava necessariamente le ambizioni delle persone e l'organizzazione necessaria a raccogliere onori e adempiere agli oneri: Celeghin era cresciuto con il sostegno imprescindibile di alcuni collaboratori - soprattutto un avvocato tributarista veneziano nei panni del factotum di fiducia e custode di segreti fin dal 1977 e un ex dirigente d'azienda brianzolo nel ruolo del consigliere politico e dell'esattore galantuomo dal 1979 al 1991, anno della sua prematura dipartita - e costruendo una "correntina" di amministratori e politici locali. Allo stesso modo, l'origine provinciale non costituiva un limite alla crescita e alla conservazione - fino all'ultimo giorno, non senza sfrontatezza - della "gaudenza", nel senso propagato da vari anni da un'altra pagina Facebook riferimento per tante e tanti #drogatidipolitica: nella sua vita - emerge già dalle prime pagine del libro - Celeghin ha avuto cinque figli, i primi tre dalla prima moglie, la quarta da un'attrice-valletta a cavallo tra gli '80 e i '90 (legame a causa del quale era naufragato il primo matrimonio), il quinto dalla seconda moglie, lasciata - senza divorziare - negli ultimi mesi della propria vita in favore di un'altra donna molto più giovane.
Il romanzo inizia il 5 dicembre 2019, giorno in cui Celeghin, a 85 anni, conclude la sua vita terrena e il suo nome, tornato alla ribalta per qualche manciata di ore, deve fare i conti con la damnatio memoriae all'epoca dell'antipolitica e dei social network. Già dal secondo capitolo, però, un robusto flashback riporta alle ultime settimane del 1991, a pochi mesi dal primo atto pubblico di "Mani Pulite", cioè l'arresto per concussione di Mario Chiesa (17 febbraio 1992). In vista delle nuove elezioni politiche (per una volta a scadenza quasi regolare), una settimana prima della consegna delle liste - dunque, a conti fatti verso il 24 febbraio o forse un po' prima - Celeghin aveva appreso che sarebbe stato ricandidato nella circoscrizione di Como-Varese-Lecco (anche se allora formalmente era Como-Sondrio-Varese) e non più in quella di Milano-Pavia, per ordine del segretario Craxi e al dichiarato scopo di combattere più duramente da quelle parti la Lega Lombarda, in quelle elezioni già Lega Nord. In effetti il seggio milanese "sicuro" di Celeghin doveva servire a qualcun altro (perché il cambiamento non era prossimo o in corso: in realtà era già avvenuto), ma lui aveva accettato la candidatura "fuori porta", sperando di poter contare sull'agognata promozione a ministro nel nuovo governo. Dopo il voto del 5-6 aprile, invece, era risultato terzo dei non eletti, molto più debole del previsto nella raccolta dell'unico voto di preferenza disponibile, mentre il partito era arretrato ma in fondo aveva tenuto: fuori dalla Camera e da qualunque gioco di governo, poteva aspirare al massimo a una candidatura blindata alle europee del 1994 (il primo appuntamento elettorale di rilievo che si potesse immaginare in quel momento).
Per Celeghin quella batosta sembrava la fine, preludio al definitivo addio a "quel bulimico socialismo irreale e mobiliare che era stata l’utopia, o la malìa, da cui si era fatto prendere il loro Grande Capo" e a quel rampantismo che - tra una seduta, un incontro, un'inaugurazione e l'ascolto delle richieste dei postulanti - poteva portare a impegnarsi a corteggiare una delle telegiornaliste più note, la "rossa decisa con il gomito appoggiato" (come la chiamava Giorgio Gaber in C'è un'aria). Il pessimo esito elettorale si sarebbe rivelato invece solo l'inizio della caduta, concretizzatasi in giugno prima con il coinvolgimento - rapidamente sfumato dopo un impegnativo passaggio in tribunale - in un'inchiesta per corruzione nel comasco, poi con l'arresto, frutto di un colpo "arrivato da dove Celeghin, sempre così accorto e previdente, meno se lo sarebbe atteso". Nel mezzo, a Milano e dintorni, si respira in pieno la "mancanza d'aria" (parafrasando sempre Gaber) legata alla pressione degli avvisi di garanzia, degli arresti, dei media e del tifo da stadio per i magistrati o - a seconda della posizione cui si aderisce - il "clima infame" citato da Craxi nel 1993 dopo il suicidio del deputato socialista bresciano Sergio Moroni. L'ex sottosegretario non voleva essere riconosciuto per strada (vivendo spesso esperienze sgradevoli se qualcuno lo individuava) e trasaliva quando suonava il campanello della casa in cui ormai viveva solo: "Temeva una visita della Guardia di Finanza o dei Carabinieri per consegnargli un'informazione di garanzia. O addirittura per una perquisizione. Peggio ancora: per arrestarlo" (del resto, in effetti, "il suo armadio non conteneva il proverbiale scheletro, ma somigliava piuttosto a un intero ossario"). Celeghin sperimentava poi come il clima si fosse fatto "infame" anche all'interno del suo partito, come suggerisce una delle massime più icastiche del romanzo: "Quando un albero viene abbattuto dalla tormenta, tutti vi accorrono lesti a fare legna".
Benché la copertina del libro rappresenti la scena di un interrogatorio in un'aula di tribunale (con tanto di imputato o testimone abbigliato con giacca scozzese verde e blu, tipicamente anni '80), il romanzo contiene poche scene da palazzo di giustizia e, comunque, svolte soprattutto negli uffici dei pm o all'esterno dei palazzi stessi. Ma delle traversie giudiziarie di Celeghin (e delle persone a lui vicine) al romanzo interessa soprattutto il prima e il dopo, con tanto di risvolti personali e politici. Non limitati solo al Psi, ovviamente. 
Nel corso del libro, infatti, varie forze politiche fanno la loro comparsa, pur senza rubare la scena al partito dell'ex sottosegretario finito in carcere e poi processato. Per molte pagine, in realtà, le altre sigle partitiche appaiono poco, con qualche piccola apparizione per i democristiani (veri sconfitti alle elezioni del 1992), un rapidissimo passaggio per i repubblicani, i liberali, i socialdemocratici e i comunisti trasformati in pidiessini, mentre un po' più di spazio se lo conquistano i leghisti (con Bossi che avrebbe dato a Celeghin del "trivellatore delle casse pubbliche" - e non solo - e un tassista forcaiolo in cui il protagonista si è imbattuto), i missini (attraverso i vicini di casa dell'ex parlamentare) e persino La Rete di Orlando, cui aderisce un personaggio rilevante per lo sviluppo della storia (e non meno rampante di altri). Le cose cambiano, e molto, nel penultimo capitolo - intitolato, alla Levi, "I sommersi e i salvati" - che, nell'analizzare le vite dei personaggi dopo i fatti del 1992, si trasforma in una carrellata di forze politiche che via via hanno accolto (oppure ostacolato) alcuni personaggi: compaiono così Forza Italia, la nuova versione della Lega Nord (per l'indipendenza della Padania), Alleanza nazionale e Rifondazione comunista, quest'ultima per descrivere l'ondivago percorso di un personaggio passato dal Psi al Prc, arrivando a un passo dalla candidatura a deputato (candidatura bloccata dai trotzkisti, facendo quindi fare capolino anche al futuro Partito comunista dei lavoratori) e finendo più avanti in consiglio regionale con l'Italia dei valori dell'ex "nemico" Antonio Di Pietro. Non manca un personaggio "che continuò a professarsi socialista fino all'ultimo e ad accompagnare, scissione dopo scissione, diaspora dopo diaspora, il feretro del garofano fino alla tomba. Prima con Benvenuto, poi con Del Turco, con Boselli e con tutti i reduci fino alla definitiva irrilevanza, ch'era anch'essa in fondo una sorta di condanna. Sebbene più mite".
Ecco, "il feretro del garofano". In effetti l'unico simbolo di cui si parla più volte nel libro è proprio il garofano: oltre che nel passaggio appena ricordato, lo si incontra nell'ultimo capitolo del romanzo, dedicato al funerale di Mariolino Celeghin (la cerimonia cui fa riferimento il titolo) e agli eventi che l'hanno preceduto. Delle esequie si ricordano, appunto, "una gigantesca corona di garofani rossi [...] portata in spalla da due ex ministri e poggiata di lato alla sobria bara di legno" e i garofani rossi distribuiti dal figlio minore all'ingresso della chiesa, appuntati da qualcuno sul bavero della giacca. L'unico altro simbolo, in un certo senso, che si incontra nelle pagine è comunque di area socialista: quello - verosimilmente con falce, martello e altri segni, forse il sole nascente o il libro aperto - che campeggiava sulla "vecchia bandiera del Psi risalente al primo dopoguerra", donata a Celeghin "dalla sezione del suo paese, Buseto Rodigino, quando era stato sorprendentemente eletto deputato per la prima volta, nel 1976" e che faceva mostra di sé, incorniciata, nella sala riunioni dell'ufficio milanese dell'ex sottosegretario.
Il romanzo appare ben scritto, credibile nelle dinamiche narrative (persino nel linguaggio usato, pure quando appare crudo) ed è in grado di suscitare interesse anche in coloro che non hanno un'ampia conoscenza delle vicende di quel periodo; ciò detto, le pagine contengono soprattutto parole, ricostruzioni, dettagli che inevitabilmente colpiscono chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica. Così, quando durante la lettura viene indicata la sequenza dei governi cui Celeghin avrebbe partecipato come sottosegretario, occorre contenere la tentazione di aprire davanti ai propri occhi le composizioni delle relative "squadre", nel tentativo di capire se qualcuno dei socialisti presenti in tutti quei governi come sottosegretario possa aver fatto da "modello" per il protagonista. Oppure, mentre si dipana la vicenda umana e politica dell'ex deputato prima del suo arresto, viene naturale cercare di collocare quei fatti nella cornice giudiziaria e giornalistica di quelle settimane del 1992 (e si corre perfino il rischio di fermarsi davanti all'auspicio sbagliato del protagonista - "a settembre nessuno si ricorderà più di chi sia Antonio Di Pietro, come oggi non ci ricordiamo il nome del pretore di Biella che ha fatto chiudere le televisioni" - attanagliati da un dubbio: "Ma il pretore di Biella non aveva piuttosto cercato di salvare Telebiella, una delle prime tv private? O forse il protagonista parla delle tv di Berlusconi, ma allora il pretore era quello di Torino, insieme a quelli di Genova e Roma?").
L'ultimo commosso saluto a un uomo molto amato, insomma, va a segno. Merita di essere cercato - anche a quasi due anni dall'uscita - acquistato e letto, per fare un salto indietro di due decenni e immergersi in quell'atmosfera. anche solo per rendersi conto degli errori e degli eccessi, da non replicare e da cui guardarsi nel futuro. Vale per chi fa politica, per chi la racconta, per chi la giudica (anche senza avere una toga addosso).

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