venerdì 14 aprile 2023

Concorso semiserio: Un simbolo per i riformisti, nonostante tutto e tutti

Da molti anni l'area dichiaratamente riformista e liberal(democratica) in Italia
- spesso r
appresentata come "centrista", essendo parte del più ampio "centro" - appare in continuo movimento: vari progetti politici, ciascuno a proprio modo e con proprie figure di riferimento, hanno cercato e cercano di rappresentare e incontrare le sensibilità di una parte più o meno consistente di quell'elettorato.
Limitandoci alle principali evoluzioni dagli "anni Dieci" in avanti, sulla scena politica sono comparsi, tra i molti soggetti, Fare per Fermare il Declino, Scelta civica per l'Italia, +Europa, Azione - in origine Siamo europei - e Italia viva (dei primi due si sono perse le tracce nel giro di alcuni anni); a questi occorre aggiungere almeno quei settori di partiti più ampi - soprattutto Pd e Forza Italia - che cercano di coinvolgere anche elettrici ed elettori liberaldemocratici e liberali (oltre che "popolari" e centristi, per restare in quello spazio politico).
Nel corso del tempo c'è chi ha manifestato disagio nel veder operare più sigle potenzialmente affini nella stessa area, con il risultato di mantenerla frammentata e renderla meno incisiva fuori e dentro le aule della rappresentanza. Anche per questo, più persone avevano guardato con interesse al percorso iniziato da Azione e Italia viva, presentando una lista unitaria e costituendo gruppi parlamentari unitari: benché tale scelta fosse dovuta anche alle norme elettorali (quelle sull'esenzione dalla raccolta delle firme) e a quelle dei regolamenti parlamentari (che di fatto, anche sulla base del numero delle persone elette, non consentono la nascita di gruppi distinti), pareva si fossero poste le prime basi per la nascita di un nuovo soggetto politico che potesse diventare punto di riferimento in quell'area politica, anche grazie all'esplicito riferimento al gruppo Renew Europe sorto al Parlamento europeo (punto d'incontro della tradizione dell'Alde e del più recente Partito democratico europeo).
Le notizie degli ultimi giorni sulle tensioni tra Azione e Italia viva sembrano allontanare sensibilmente l'orizzonte della costruzione di quel partito unitario. Lungi dal volersi esprimere sulle scelte e sulle posizioni divulgate, a questo sito interessa piuttosto cercare di fornire un altro tipo di contributo: rappresentare, sul piano ideale e grafico, l'area riformista e liberal(democratica). In altre parole, cercare di darle un nome e un simbolo
Non ci si vuole occupare delle differenze di vedute - vere, presunte o enfatizzate dai media - sul percorso verso quel nuovo soggetto politico o sui dissidi tra Carlo Calenda, Matteo Renzi e i rispettivi colleghi di partito. Sembra molto più produttivo, proprio ora che un approdo concreto sembra allontanarsi, cercare di lavorare sull'identità, cioè su qualcosa che unisce le persone, in cui più storie possono ritrovarsi (e che possa essere riconosciuto e rispettato anche da chi aderisce ad altre idee e posizioni) e che emerga per ciò che è, senza bisogno di qualificarsi come "terzo polo" (ammesso che lo sia in concreto). Qualcosa che, a differenza di quanto accade da ormai troppo tempo in Italia, prescinde dai nomi dei singoli leader, spesso divenuti elementi "pesanti" dei contrassegni elettorali, e cerca invece di riavvicinarsi alla migliore tradizione simbolica italiana.
Per questo I simboli della discordia ha scelto di promuovere un concorso di idee, aperto a chi si riconosce nell'area riformista e liberal(democratica) e vorrebbe vederla visualizzata anche sul piano grafico e anche a chi - a prescindere dalle proprie idee e posizioni - semplicemente crede che i riformisti meritino un proprio simbolo (e, a monte, un nome per il loro soggetto politico di riferimento) per poter essere identificati in modo diretto ed efficace. Si è scelto di parlare di concorso "semiserio", come si era fatto tra il 2017 e il 2018 nel dare un simbolo a Insieme per l'Italia di Sandro Bondi (visto che la componente un nome ce l'aveva già): anche questa volta il progetto è semiserio perché non si prevedono premi o compensi in denaro e perché il concorso non ha il "marchio ufficiale" di alcuna forza politica, dunque non nasce per dare un simbolo a un partito che sta per nascere (questo, anzi, dovrebbe rassicurare eventuali professionisti della grafica e della comunicazione: nessuno sta cercando di sfruttare la loro creatività e le loro soluzioni a costo zero, si tratta solo di cercare di rendere un servizio alle idee e al confronto politico sano)Se il concorso è semiserio, il concetto di fondo resta serissimo e merita l'attenzione di ogni appartenente alla categoria dei #drogatidipolitica - a prescindere dalle sue idee - che abbia a cuore il confronto tra pensieri (se non tra valori) e la cura nella loro rappresentazione. Del resto, alle elezioni europee del 2024, l'elettorato riformista e liberal(democratico) potrebbe guardare davvero con interesse a una lista che si riconosca pienamente nel progetto europeo Renew Europe (al di là di eventuali differenti posizioni su temi nazionali) e che, se pensata come davvero unitaria, possa superare senza problemi lo sbarramento del 4% e sfruttare il sistema proporzionale.
Chiunque abbia spunti da tradurre in grafica - in modo professionale o amatoriale, che usi Photoshop, Illustrator, Canva o altri programmi (o perfino le tradizionali matite colorate, in mancanza di altro) - può inviarli all'indirizzo contributi@isimbolidelladiscordia.itscegliendo tra i formati pdf, jpg, gif, png. Si tratta dunque di immaginare un nome e una sua resa grafica, secondo gli standard da scheda elettorale (tutti gli elementi racchiusi in un cerchio, con il risultato grafico non confondibile con altri segni e privo di immagini o soggetti religiosi): le proposte grafiche ricevute saranno mostrate via via in un post dedicato, che sarà aggiornato di volta in volta. Non c'è questa volta una vera scadenza, visto che il bisogno di un soggetto in cui gran parte dei riformisti possidentificarsi non sembra destinato a scemare. Pure questa volta, invece, benché si tratti di un "concorso semiserio", chiediamo a chi partecipa di prenderlo (almeno) abbastanza sul serio: non saranno accolte proposte denigratorie oppure offensive. Un filo di ironia, invece, è apprezzabile e potrebbe addirittura fare la differenza: del resto, tra lA-di-Azione/Avengers e l'ape (Di) Maio, sulla schednon ci siamo fatti mancare quasi niente e si può fare certamente di meglio. 

venerdì 7 aprile 2023

Berlusconi, il destino di Forza Italia e questioni di "democrazia interna"

Sui media negli ultimi giorni ha inevitabilmente grande spazio ogni notizia che riguardi la salute di Silvio Berlusconi, dopo il suo ricovero al San Raffaele a Milano. Giusto oggi, però, su alcuni quotidiani si trovano alcuni articoli - come quelli di Francesco Olivo sulla Stampa e di Lorenzo Giarelli sul Fatto Quotidiano - che ragionano anche sul futuro di Forza Italia a partire dalle regole interne, quelle dello statuto attualmente in vigore
Non è la prima volta che nel dibattito pubblico si parla di questo (era già capitato nel 2015, quando Raffaele Fitto aveva lamentato il mancato rispetto di procedure democratiche interne e, a quanto si era appreso, si era rivolto all'avvocato Gianluigi Pellegrino a tutela della democraticità del partito); di certo, però, la situazione odierna appare molto più delicata. Questo soprattutto perché forse per la prima volta appare in dubbio la permanenza nel ruolo di guida del partito di colui che ha voluto, fondato e presieduto Forza Italia fin dall'inizio, rappresentandone in ogni momento l'incarnazione e l'unico vero punto di sintesi e legittimazione, irrinunciabile e indiscutibile. La questione, ovviamente, è soprattutto politica, ma è anche giuridica, perché ha a che vedere appunto con il rispetto delle regole interne e, prima ancora, sul loro contenuto e sul modo in cui queste vengono stabilite: si tratta di profili che interessano la "democrazia nei partiti" e che rilevano ancora di più riguardando quello che nel corso degli anni è stato qualificato come "partito azienda", "partito mediale" (Paolo Ferrari) e "partito personale" (Mauro Calise). Un partito che, in ogni caso, è chiamato a fare i conti con le regole: sia quelle che ha scelto di darsi (da anni), sia quelle introdotte in un secondo momento dalla legge.

Spigolando negli statuti del partito

Silvio Berlusconi risulta essere presidente di Forza Italia fin dal 18 gennaio 1994, giorno in cui il movimento politico "Forza Italia!" (incluso il punto esclamativo) fu ufficialmente fondato con atto costitutivo rogato dal notaio Francesco Colistra ed esattamente otto giorni prima del discorso della "discesa in campo". L'atto indicava come componenti del primo comitato di presidenza, per i primi tre anni di vita dell'associazione politica, Berlusconi e gli altri fondatori, cioè Mario Valducci (scelto come amministratore nazionale), Antonio Martino, Luigi Caligaris e Antonio Tajani. In quella prima fase, il presidente nazionale aveva -  in base al primo statuto allegato all'atto costitutivo - tre compiti principali: attuare la linea politica espressa dall'assemblea degli associati e dal comitato di presidenza, coordinare l'attività del movimento e rappresentare quest'ultimo "nelle sedi istituzionali e nelle trattative politiche nazionali"; la rappresentanza legale e patrimoniale spettava invece all'amministratore nazionale. Tanto l'elezione del presidente nazionale, quanto la nomina dell'amministratore nazionale spettava al comitato di presidenza (organo cui spettava la conduzione politica di Forza Italia), in teoria eletto dall'assemblea degli associati, ma non in quella prima occasione visto che all'inizio gli associati coincidevano con i fondatori.
Lo statuto in quell'occasione era piuttosto scarno. La prima assemblea nazionale, tenutasi a Milano il 18 gennaio 1997 - dunque esattamente tre anni dopo la fondazione giuridica del partito - approvò regole più dettagliate, che poi furono lievemente modificate nei mesi successivi, anche dal primo congresso di Forza Italia, tenutosi dal 16 al 18 aprile 1998 (con Berlusconi confermato presidente). Sulla base di quelle norme, sarebbe toccato al congresso nazionale ("la più alta assise del Movimento"), oltre che definire e indirizzare la linea politica di Fi, eleggere il presidente (che restava in carica tre anni ed era rieleggibile), 6 membri del comitato di presidenza (l'art. 23 indicava come sarebbero stati scelti gli altri) e 50 del consiglio nazionale. L'art. 15 stabiliva pure che i congressi dovessero celebrarsi "in via ordinaria almeno ogni 3 anni", su convocazione del presidente "su delibera del Comitato di Presidenza" e che solo al congresso spettava il compito di modificare lo statuto (o, in alternativa, di delegare la modifica dello statuto al consiglio nazionale: per l'art. 74, ognuna delle due decisioni aveva bisogno del voto dei due terzi degli aventi diritto).
Sempre in quell'occasione si stabilì che la presentazione delle candidature alle elezioni nazionali, regionali e locali sarebbe avvenuta "per mezzo di procuratori speciali nominati dall'amministratore nazionale" (artt. 43 e 44): all'amministratore, eletto dal consiglio nazionale (su proposta del comitato di presidenza), spettava in via esclusiva anche ogni decisione sull'uso del contrassegno, dunque del simbolo (che curiosamente non era né descritto nello statuto, né allegato all'atto costituivo). In caso di dimissioni o impedimento permanente del presidente (art. 19), spettava al comitato di presidenza convocare immediatamente il consiglio nazionale perché provvedesse "alla sua sostituzione temporanea per il periodo strettamente necessario per la convocazione del congresso nazionale". Diversamente da quanto era accaduto in passato con altri partiti, peraltro, non si prevedeva nulla per l'ipotesi in cui la scadenza triennale non fosse stata rispettata, né era regolata la possibilità di attivare comunque il percorso congressuale ad opera degli iscritti in caso di inerzia da parte degli organi competenti.
Quelle norme rimasero sostanzialmente identiche anche in seguito, specialmente dopo il secondo (e per ora ultimo) congresso forzista, tenutosi dal 27 al 29 maggio 2004 ad Assago (come il precedente). L'unica novità rilevante, per quello che interessa qui, riguardò le eventuali modifiche statutarie, che per il nuovo testo dell'art. 74 erano "di competenza del Congresso Nazionale e del Consiglio Nazionale": dovendo supporre che bastasse l'intervento di uno solo dei due organi, si precisava che le loro delibere erano approvate "con il voto favorevole della maggioranza dei presenti purché costituiscano almeno i due terzi degli aventi diritto al voto" (quindi i due terzi restavano come quorum di validità dell'organo, ma diventava più facile modificare lo statuto con le nuove maggioranze).
Alle elezioni politiche del 2008, com'è noto, non partecipò Forza Italia, ma il Popolo della libertà. Il primo congresso del nuovo soggetto politico si svolse dal 27 al 29 marzo del 2009: Forza Italia, dopo un consiglio nazionale del 21 novembre 2008, sospese la sua attività ma non si sciolse (come del resto non fece nemmeno alleanza nazionale, così come i Democratici di sinistra e la Margherita dopo che si era dato luogo al Pd: tra i tanti motivi, tutti quei partiti avevano diritto a incassare i "rimborsi elettorali" per gli ultimi tre anni della XV legislatura, anche se questa era terminata in notevole anticipo). Quando, il 16 novembre 2013, il consiglio nazionale del Pdl decise - su iniziativa di Silvio Berlusconi - di riprendere l'attività di Forza Italia, non ci fu bisogno di "rifondarla": fu sufficiente ridestarla dal torpore iniziato cinque anni prima. Le regole interne, in tutto quel tempo, non erano cambiate, visto che lo statuto era rimasto lo stesso.

Le nuove regole sulla "democrazia nei partiti"

Tra la fine del 2013 e l'inizio del 2014, peraltro, entrarono in vigore le prime norme di legge in tema di democrazia interna ai partiti (il decreto-legge n. 149/2013, voluto dal governo di Enrico Letta e convertito con legge n. 13/2014): i partiti, se avessero voluto continuare a godere delle risorse pubbliche - sia pure nella forma, per loro meno conveniente rispetto agli abbondanti rimborsi del passato, del 2 per mille Irpef destinato dai contribuenti o della "contribuzione agevolata" - avrebbero dovuto adattare il loro statuto alle nuove previsioni di legge, sottoponendo il testo a una commissione che avrebbe verificato il rispetto dei requisiti. Il consiglio nazionale di Forza Italia il 4 agosto 2015 intervenne sulle norme statutarie e nell'autunno il testo superò l'esame della commissione, anche nelle parti che potevano sembrare un po' meno democratiche (ci si riferisce soprattutto alle procedure di selezione delle candidature, molto verticistiche e che non prevedono alcun coinvolgimento della base; la legge, però, si limita a chiedere di esplicitare come si selezionano le persone candidate, non impone consultazioni di iscritti o simpatizzanti). Le disposizioni che qui interessano, tuttavia, non sono state modificate in quell'occasione (e nemmeno nel 2017, in occasione di ulteriori ritocchi al testo).
Ora, se si scorre l'organigramma attuale, riportato dal sito del partito, è facile vedere che né il coordinatore nazionale (Antonio Tajani) né la vice-coordinatrice nazionale (Anna Maria Bernini, ora affiancata da Alessandro Cattaneo) sono cariche previste dallo statuto. Su questa base, è evidente che ogni decisione che fosse presa da loro, se non "confermata" (meglio: se non coincidente con le decisioni prese) dal presidente o dagli altri organi competenti, potrebbe risultare non conforme allo statuto, anche se ovviamente le iscritte e gli iscritti al partito potrebbero rispettarla per fedeltà e lealtà. Tuttavia, se - per mera ipotesi - il coordinatore o uno dei suoi due vice procedessero a qualche nomina o ad altre decisioni impegnative per Forza Italia, qualche iscritto potrebbe anche scegliere di rivolgersi al tribunale per chiedere di invalidare quegli atti, ritenendoli compiuti da soggetti non competenti. Questi potrebbero difendersi, per esempio, sostenendo di aver ricevuto la delega a compiere quegli stessi atti (l'art. 19, comma 5 dello statuto indica che il presidente di Fi può "delegare specifiche funzioni"), ma sarebbe loro onere dimostrare in modo adeguato l'esistenza di quella delega.  
Tutto questo vale ora, che un presidente (potenzialmente) delegante esiste ed è in carica. Qualora dovesse venire a mancare o fosse impossibilitato in modo permanente a esercitare i suoi compiti, dovrebbe necessariamente partire il percorso di avvicinamento al congresso: il comitato di presidenza dovrebbe subito convocare il consiglio nazionale; questo dovrebbe scegliere un nuovo presidente pro tempore, che avrebbe essenzialmente l'incarico di convocare la nuova assise congressuale, nella data fissata dal comitato di presidenza e secondo i termini e i passaggi indicati dallo statuto. 
Nel frattempo, la decisione sulla validità degli atti - a seguito di eventuali ricorsi - sull'operato del coordinatore o dei suoi vice spetterebbe comunque al giudice civile, che si troverebbe di fronte una situazione sicuramente delicata; potrebbe dunque prendere tempo, anche di fronte alla richiesta di provvedimenti urgenti. Se sospendesse o invalidasse quegli atti potrebbe essere considerato responsabile del "blocco" dell'attività di un partito di maggioranza, dal rilievo comunque non trascurabile; una decisione simile, comunque, sarebbe frutto della scelta di prendere sul serio le norme dello statuto, che i dirigenti di Forza Italia e, a loro modo, le iscritte e gli iscritti hanno scelto di darsi o di accettare. Si tratta, ancora una volta, di una questione di "diritto dei partiti", da considerare seriamente: i partiti possono scegliere le regole da applicare al loro interno, ma poi devono rispettarle (anche, ad esempio, nella cadenza dei congressi, che dopo il 2013 in Forza Italia non si sono più celebrati); se diventano inadeguate si possono cambiare, ma rispettandole finché sono in vigore. Nel frattempo, senza dubbio, l'uso del simbolo resta saldamente nelle mani dell'amministratore nazionale, Alfredo Messina, non ricandidato alle ultime elezioni politiche.

venerdì 31 marzo 2023

Simboli fantastici (31): Friuli Venezia Giulia, torna la satira di Mataran

"E io rinascerò / cervo a primavera": è intenso e delicato il brano di Mogol e Cocciante, è bello rinascere a primavera, ma è ancora più importante azzeccare il momento giusto per rinascere. Così, per chi esercita con passione il ruolo di appartenente alla schiera dei #drogatidipolitica e, per di più, ha la fortuna di essere portatore sanissimo e diffusore di ironia corrosiva, le elezioni che riguardano il proprio territorio sono un'occasione da cogliere assolutamente, a costo di risvegliarsi da un sonno durato oltre un anno. Per fortuna nostra si è ridestata a tempo debito la banda di Mataran, la rivista satirica nata nel 2015 e diffusa in Friuli Venezia Giulia (non a caso, mataran in furlan significa "matto", nel senso di originale, giocherellone, dunque non inquadrato né inquadrabile). Già nel 2021 questo sito aveva ospitato volentieri la loro satira graffiante esercitata in vista delle elezioni amministrative celebrate in quell'autunno (anche se chi scrive ha appreso della pubblicazione solo a seggi ormai smobilitati): in quel caso, l'ironia si era tradotta soprattutto nell'invenzione di dodici "simboli fantastici" (o, se si preferisce, "veramente falsi") che non erano riusciti ad arrivare sulle schede perché rifiutati o perché i relativi progetti di lista erano falliti prematuramente.
Quella volta ci si era divertiti a commentarli e a cercare di collocare quei loghi mai nati nel contesto di ogni comune, ma è chiaro a chiunque che le elezioni regionali sono un altro pianeta, un rito che non può in alcun modo essere trascurato. L'ultima uscita cartacea di Mataran, sia pure con la testata il Frico (nata all'inizio del 2021 come inserto mensile de il Friuli) risaliva alla fine del 2021, con il calendario dal sapore popolare e forte di Frico Indovino, preceduta dalla campagna - cui questo sito aveva "simbolicamente" aderito - per lanciare la candidatura del furlan Dino Zoff al Quirinale; quell'anno abbondante di pausa, però, meritava di essere interrotto per occuparsi "alla Mataran" (anzi, tant che un Mataran) dell'evento elettorale più importante del territorio regionale. Da pochi giorni, dunque, in una settantina di punti sparsi nelle varie province della regione è arrivato lo "Speciale elezioni" di Mataran, anzi, "l'organo ufficiale del voto in Friuli Venezia Giulia", come si può leggere sotto la testata: un voto da affrontare con una giusta "dose di satira gratuita ma non scontata", nel senso che non è banale e che non fa sconti (anche per questo nel 2021 è arrivato il meritato Premio Satira Forte dei Marmi, citato accanto alla testata con una finta etichetta malincollata). 
Oltre che in quei punti di distribuzione gratuita, le otto pagine del numero speciale di Mataran sono state al centro di una presentazione rivestita come un "party elettorale" in piena regola (con tanto di invito a forma di scheda, regolarmente bollata) ieri sera a Udine (alla Cas'Aupa) e questa sera si replicherà a Pordenone (alla Casa del Popolo). Che l'appuntamento elettoral-satirico sia molto sentito da quelle parti lo hanno dimostrato due dettagli della serata di ieri: oltre cento partecipanti e, tra il pubblico, varie persone candidate alle comunali o alle regionali. Come a dire che alla fine tanto vale ridere, anche se magari quella banda di scapestrati matarans prende di mira questa o quella candidatura, che sia destinata a vincere o a perdere (perché non ci si salva dai graffi - scritti o disegnati - di chi esercita la satira). Ben venga allora partecipare alla festa di "un organo riproduttivo di satira e umorismo, noncurante ma non indifferente - si legge all'interno - con notizie false ma non bugiarde, fatto in casa per la gente di qui anche se la gente di qui non lo vuole in casa, e quindi letto perlopiù in piedi, sul trattore o in barca a vela (dipende dove abitate)". Pure e soprattutto sotto elezioni, infatti, è bene non dimenticare che "la satira è lo strumento degli sfigati per dissacrare il potere e le idee, specialmente quelle di chi vuole insegnarci come e di cosa ridere"
Il primo e principale oggetto della satira questa volta è il presidente uscente e ricandidato della giunta regionale, il leghista Massimiliano Fedriga: lui, armato di una matita appuntita, spunta da un foro nero con i contorni della regione in una copertina chiaramente ispirata alla locandina del film di Stanley Kubrick Arancia meccanica (il cui titolo, con gli stessi caratteri, è stato trasformato in Rielezione meccanica). Pure all'interno un certo spazio è dedicato al candidato del centrodestra, specie nel confronto con il suo principale contendente, Massimo Moretuzzo (nella caricatura il candidato autonomista sostenuto anche dal centrosinistra e dal M5S è ritratto nei panni del líder mínimo, con il simbolo del suo Patto per l'autonomia sul basco, mentre Fedriga è "Sua Eccellenza", in divisa e con Sole delle Alpi, Alberto da Giussano, fiamma tricolore e bandierina forzista trasformati in distintivi). Tra i vari altri contenuti del numero, appare impagabile (e serissimo), tra i commenti sulle elezioni dei "vip del Friuli Venezia Giulia" (dall'ex candidato autonomista Sergio Cecotti, all'attuale candidato "terzopolista" Alessandro Maran fino a Francesca Mesiano dei Coma Cose), quello di "Armando della Pimpa": "Mi asterrò, come ho sempre fatto da quando ero ragazzo. Sono per l’ordine ma senza potere, fondato sulla pari dignità e perciò autentico".
Nelle otto pagine di Mataran (tutte da sfogliare con la massima attenzione, anche da chi non è parte di quella regione) però, non poteva mancare la seconda edizione del Salon des Refusés imaginaires, vale a dire la pagina dei simboli delle liste (regionali e comunali) "che non ce l'hanno fatta", non essendo arrivate sulle schede perché bocciate o abortite anzitempo, ma in realtà frutto esclusivo della creatività della squadra dei portatori di satira. Questa volta la tribuna è soprattutto per le elezioni regionali, cui sono dedicati ben sei dei dodici emblemi creati da Mataran; non vengono comunque trascurate le elezioni amministrative, fonte di ispirazione per le altre sei liste "farlocche". Come nel 2021, ciascun contrassegno - piazzato su un simulacro di scheda elettorale, rispettando i colori scelti in FVG per l'evento: azzurro per le elezioni regionali, arancione per quelle comunali - è accompagnato da una breve descrizione della lista e del motivo per cui il simbolo ("falso, ma non bugiardo", come tengono a sottolineare dalla redazione) non sarebbe stato sottoposto al giudizio di elettrici ed elettori.
Iniziando il viaggio "fantasimbolico" dalle elezioni regionali, il primo emblema a essere mostrato è quello dell'Österreichisch-Ungarische Volkspartei, vale a dire il "Partito Popolare Austro-Ungarico" su fondo giallo spicca l'aquila bicipite (impiegata anche dall'impero asburgico) cui è sovrapposto al centro uno scudo con l'alabarda triestina dorata, collocata sui colori della bandiera dell'Austria; al nome del partito scritto in carattere gotico fa da contrappunto la sigla collocata in basso, nel segmento bianco, con la V rossa e quasi-3D mutuata dal simbolo della Südtiroler Volkspartei (lo stesso nome, ovviamente, rimanda a quello della Svp). "Dopo una trionfante raccolta firme, forti dell’appoggio di molti triestini, ma non solo, il Partito Popolare Austro-Ungarico era pronto a presentarsi alle regionali con mire di vittoria: obiettivo fondante, l’annessione della Venezia Giulia all’Austria". Mataran peraltro informa pure del prematuro scioglimento della lista, dopo che qualcuno - cartina alla mano, evidentemente - aveva fatto notare che la provincia di Udine confina con l'Austria, ma la Venezia Giulia no.
Non appare legato a questioni storico-territoriali, ma a un evento atteso nelle prossime settimane il Partito degli Alpini con le mani legate. Dall'11 al 14 maggio, infatti, Udine ospiterà la 94esima adunata nazionale degli Alpini, quella che segue le polemiche legate a quella dello scorso anno (svoltasi a Rimini e San Marino) per i casi di molestie verbali e tattili segnalate da varie donne. Il fanta-partito - con le mani davvero legate al centro e la parola "Alpini" con lo stesso rilievo normalmente dato al cognome di Matteo Salvini nel simbolo della Lega (scelta probabilmente originata dal post dello scorso anno a sostegno degli Alpini, apparso sui canali social del segretario leghista) - aveva un programma impegnativo: "Legittima difesa e rispetto per il prossimo. Pene severe per i colpevoli di palpata al culo (tranne se 'mano morta involontaria'), carcere a ore per chi si ubriaca sforando il limite di 3.0 alcolico (valido solo i lunedì di febbraio), pena di morte per chi irride le penne nere (corvi e tacchini inclusi)". Troppo impegnativo forse: si apprende infatti che gli Alpini "hanno abbandonato la sfida elettorale, preferendo direttamente marciare su Udine".
Ben più etereo e leggero, con una sagoma di fatina alata (in stile Campanellino-Trilli di Peter Pan secondo Disney) in un cielo azzurrino con stelle, appare il simbolo della lista Noi siamo Friuli Venezia Giulia. Non c'è alcun riferimento grafico o testuale a idee politiche, in questo emblema, e non è affatto un caso: la lista, che sarebbe stata "ideata da Fedriga sotto l’effetto allucinogeno di due bacche di goji, [...] ricalcava il trend del brand regionale 'Io sono Friuli Venezia Giulia'", campagna pensata per il settore agroalimentare con tanto di merchandising. Per evitare posizionamenti territoriali e culturali limitanti, sarebbero stati "esclusi a priori i candidati friulani, triestini, sloveni e germanofoni", preferendo inserire in lista solo "persone neutre, identificabili nel concetto di 'Friuliveneziagiuliatuttoattaccato'". Il progetto elettorale sarebbe però sfumato perché nessun potenziale candidato aveva queste caratteristiche: "ciò che rimane di questa visione è un container pieno di felpe, penne e altri gadget personalizzati abbandonato nel Porto Vecchio di Trieste".
Si riconosce invece molto bene il simbolo che ha generato il contrassegno mai depositato di Foiba Italia: la bandierina che Cesare Priori aveva concepito per Forza Italia in questo caso si è tinta dei colori della bandiera jugoslava (con il blu al posto del verde e la stella della repubblica socialista nel mezzo). Foiba Italia sarebbe stato un "movimento bipartisan con l’obiettivo di far luce su tutte le foibe presenti in regione, nel resto d’Italia e nel mondo": si apprende infatti da Mataran che "studi indipendenti dimostrano a tutt'oggi l'operatività
di brigate titine nella Buse dai Veris a Udine, nel Grand Canyon e nella Fossa delle Marianne". Il programma prevedeva anche "la creazione del Semestre del Ricordo, perché un giorno è riduttivo, e campi rieducativi per storici coi brani di Cristicchi in filodiffusione" (con riferimento al musical Magazzino 18). Come mai il simbolo non è finito sulle schede? Semplice: "A forza di ricordare di ricordarsi si sono scordati di depositare la lista". Eh, lo fanno, lo fanno...
Merita almeno un mezzo minuto di raccoglimento (anche solo per aguzzare lo sguardo o far riposare gli occhi) il simbolo della fantalista Semplicemente noi, tentativo veramente falso ma drammaticamente verosimile di creare un progetto elettorale comune per l'area sinistra. E se "il nome della lista unica di Sinistra era stato approvato rapidamente, dopo sole ventidue riunioni", oggetto della discordia è stato proprio il contrassegno elettorale, perché "doveva contenere tutte le anime, le idee, le minoranze minorizzate, le maggioranze relative, il mondo del lavoro, le famiglie arcobaleno, i non-giovani, l’ambiente, la pace, gli atei vegani, i preti etero, la Bisiacaria!" Non è dato sapere se il simbolo svelato da Mataran sia l'ultima versione disponibile - si favoleggia circa l'esistenza di un simbolo pieno di "pulci" disposte a spirale in cerchi concentrici, tanto affollato quanto illeggibile - mentre si sa che "il grafico, disperato, si è iscritto agli anarcoinsurrezionalisti e non se n’è fatto nulla". La sua opera, in compenso, ora può essere utilizzata come esempio di come non si fa un contrassegno elettorale, come strumento alternativo per provare la vista e, soprattutto, come test per scoprire quali simboli e di quali partiti sono contenuti nel cerchio. 
L'ultimo fantaemblema legato alle regionali era Fradis dal Friûl (Fratelli del Friuli, in furlan), "formazione capeggiata da nostalgici del Duce e portatori di Ray-Ban con i colletti alzati". Il simbolo di base, ovviamente, è quello ufficiale di Fratelli d'Italia, con il nome modificato e la parte destra della fascetta tricolore con i colori della comunità friulana (azzurro e giallo), ma la massima attenzione dev'essere prestata all'elemento che sta in basso, in campo bianco: un pignarûl tricolore (dunque una catasta da bruciare, con tanto di persona sulla sommità, con i due corni della fiamma tricolore sovrapposti ai lati). Quell'immagine "unisce il nazionalismo italiano a quello friulano: non un controsenso, sostengono, basta saper intonare Faccetta nera in marilenghe" (cioè in furlan, "lingua madre"). Il cammino della lista verso le schede, tuttavia, sarebbe stato bloccato dal senatore Roberto Menia in persona (ora in Fratelli d'Italia, dopo la sua militanza in Msi, an, Pdl e Fli): si apprende da Mataran che lui, "salito appositamente da Roma", avrebbe "spezzato le reni ai promotori ululando 'Prima gli italiani!".
Esaurita la pagina relativa alle elezioni regionali, il gruppo di Mataran ha dato giusta attenzione anche alle competizioni in alcuni dei comuni chiamati al voto (in fondo l'esperimento dei "simboli non presentati" era nato proprio così). Si parte dall'unico ex capoluogo di provincia coinvolto dalle elezioni, dunque Udine: lì si era immaginata la Lista civica dei Magnifici Rettori, generata evidentemente dal fatto che, dopo il doppio mandato da sindaco di Furio Honsell (2008-2018), il centrosinistra ha scelto di rivolgersi a un altro ex rettore dell'Università di Udine, Alberto Felice De Toni. La redazione ha dunque avuto gioco facile a immaginare come "sogno proibito del centrosinistra udinese" la presentazione di "un'intera lista di rettori universitari". Preparato il simbolo (sullo stile di un sigillo antico di ateneo, con all'interno l'aquila friulana di Uniud dotata di fascia tricolore) e raccolte "le adesioni di De Toni, Honsell e Donatella Rettore, l'unione è sfumata dopo l'altolà del Terzo Polo, che ha minacciato di rompere la coalizione se in ogni lista non ci fosse stato almeno uno sceicco arabo o un socio di Confindustria". Neanche con i simboli farlocchi si può stare tranquilli...
Uno stile più moderno connota il simbolo pensato per la fantalista Guardiani della Scalinata, concepita per Fogliano Redipuglia. La scalinata, protagonista del nome e del contrassegno, è ovviamente quella del Sacrario militare di Redipuglia, finita in passato al centro di varie polemiche dopo che nel 2017 il rapper Justin Owusu l'aveva usata come location per un filmato (nel 2020 era stato condannato per vilipendio) e si erano accese varie proteste. Si apprende dunque che la fantalista aveva pensato di organizzare "picchetti 24 h su 24 presso il Sacrario militare di Redipuglia allo scopo di prevenire episodi di vilipendio", risultato da ottenere anche con l'ausilio di "polizia privata munita di spray e tirapugni, videocamere a raggi X, trappola del masso rotolante, buco di lava". La lista tuttavia sarebbe stata addirittura esclusa, per una sorta di contrappasso ironico: avrebbe infatti "organizzato lo shooting fotografico elettorale proprio davanti alla scalinata", per cui "tutti i candidati sono stati iscritti nel registro degli indagati per vilipendio".
Nel comune di Sacile, invece, si sono perse le tracce del Movimento Osei Liberi, legato inevitabilmente alla tradizionale Sagra dei Osei di settembre, in cui si espongono e vendono uccelli da canto. La fantalista sarebbe stata concepita dagli animalisti locali, dopo che i loro predecessori per decenni avevano chiesto "alla città di rinunciare alla sagra e valorizzare altre antiche tradizioni del territorio non speciste, tipo i pagamenti in nero" (correndo voci incontrollate e certamente menzognere secondo le quali, trattandosi di un territorio ricco e ampiamente produttivo, in passato la gimcana antitasse era stata uno sport diffuso). Il simbolo è stato realizzato in modo pregevole, con la sagoma di un volatile in fuga da una gabbia aperta, collocata al posto del tamburo e della cupola del tempo di San Liberale (a sua volta ispirato allo Sposalizio della Vergine di Raffaello). Il problema, qui, sarebbe stato legato al nome della lista, che sarebbe stato "travisato sui social", attirando "solo coppie di scambisti dal vicino Veneto". Inevitabile, a quel punto, l'intervento della forza pubblica : pare che le attività di raccolta firme siano state interrotte e la piccola folla presente sia stata "sgomberata dai carabinieri con l’uso di una scacciacani, specista anch’essa". Un'operazione contro il voto di scambio (anzi, lo scambio prima del voto).
Se Sacile è famosa anche per la fiera dei volatili, San Daniele del  Friuli certamente lo è per i prosciutti. Il dato di base è che alle elezioni del 2-3 aprile Lega e Fratelli d'Italia non sosterranno lo stesso candidato. Si è così immaginata la lista Prosciutto-Meloni, nel senso che il fantacandidato di Fdi sarebbe stato tale Italo Prosciutto, "picchiatore del Msi negli anni '80, poi in doppiopetto con An e oggi meloniano di ferro", ma ritenuto "troppo moderato" dai leghisti, perché "lo scorso carnevale si è mascherato da Minni e non da Hermann Göring come faceva abitualmente. La difesa di Fdi, ovvero che seppur vestito da Minni salutava romanamente, non ha ricucito lo strappo". In luogo della fiamma, nel contrassegno - non arrivato sulla scheda, non si sa perché - ci sono due prosciutti, uno verde e uno rosso.
Più che per il cibo, Fiume Veneto (in provincia di Pordenone, a dispetto di quanto suggerirebbe il nome) negli ultimi anni ha fatto parlare di se per l'apertura - nel 2019 - di uno dei depositi di smistamento di Amazon. Dev'essere quindi venuto facile immaginare che pensasse di tentare "la scalata politica" del comune addirittura il fondatore del colosso dell'e-commerce, Jeff Bezos (magari non di persona, non essendo lui cittadino italiano, ma attraverso un fiduciario). Ecco dunque partorita l'idea della lista bezos for river veneto (ispirata al marchio di Amazon, nelle minuscole, nei colori usati e nella freccia), con alcuni punti programmatici di rilievo: "conversione di tutti i cittadini in operai, aumento a 36 ore lavorative giornaliere, inglesizzazione di Pescincanna in Fishinrod". I disguidi, tuttavia, possono sempre capitare: "a causa dello smarrimento di un codice, il pacco con la lista dei candidati è rimasto bloccato in un Amazon Locker" e non si potrà nemmeno chiedere l'annullamento del voto
Resterebbe da dire dell'ultimo "simbolo fantastico" concepito, quello di Verità per eni, immaginato in corsa a Fiumicello Villa Vicentina, ma c'è poco da spiegare (o meglio, ce ne sarebbe parecchio), molto da pensare e ben di più di cui indignarsi (e non certo per la satira di Mataran). Se a qualcuno sfuggisse il senso del cane a sei zampe di Luigi Broggini (rifinito da Giuseppe Guzzi), trasformato in Anubi mentre spara fiamme da tergo, della presenza di un marchio ben riconoscibile nel nome della lista e di un chiaro riferimento ad Amnesty International nella parte inferiore, basti ricordare che Fiumicello è il comune in cui è cresciuto Giulio Regeni: altro non serve dire.  

Conclusa la carrellata dei "simboli fantastici" offerta quest'anno da Mataran, resta da prestare l'attenzione che merita all'ultima pagina della pubblicazione. Questa, infatti, è interamente occupata da una tavola intitolata "FriulVotaziaGiulia" e che rende un chiaro omaggio a Benito Jacovitti, artista italiano del fumetto scomparso nel 1997 e di cui quest'anno si celebra il centenario della nascita. La tavola riprende in tutto e per tutto lo stile del maestro (ed è possibile identificare alcune citazioni dallo storico manifesto Così si vota realizzato nel 1975 da Jacovitti per la Spes - Dc) ed è stata offerta ai lettori di Mataran da Luca Salvagno, "erede grafico ufficiale" dello stesso Jacovitti. Che si apprezzi o meno quello stile di disegno, si è di fronte a un vero capolavoro che merita di essere riconosciuto e apprezzato, con il tempo necessario a concentrarsi sulla ricerca dei dettagli e dei particolari che rendono ricca quella pagina. E visto che all'interno non mancano i tradizionali cartelli jacovitteschi, chi scrive non può fare a meno di esprimere una sua convinzione: se nei seggi elettorali, invece del solito manifesto contenente il richiamo alle principali disposizioni penali legate alle elezioni e che quasi nessuno guarda, venisse esposto il cartello con la scritta imperiosa ed enigmatica "È quasi vietato sbarbaganare le pitinicchie", questo riceverebbe molta più attenzione. Chissà come si scrive quella frase jacovittesca in furlan...

sabato 25 marzo 2023

Voto nei comuni piccoli, le Camere ci riprovano (con liti sul ballottaggio)

Le elezioni regionali in Lombardia e Lazio celebrate il 12-13 febbraio, quelle in Friuli Venezia Giulia fissate per il 2-3 aprile e le amministrative che si terranno nelle altre regioni il 14-15 maggio hanno posto parzialmente in ombra - ma nemmeno troppo - il percorso parlamentare di un disegno di legge di una certa rilevanza, volto a intervenire sulle norme che regolano le elezioni amministrative nei comuni fino a 15milabitanti. Chi segue con attenzione questo sito dovrebbe avere una sensazione di déjà vu (e, volendo, di déjà entendu): nella scorsa legislatura si erano infatti già discussi alcuni testi in materia. 
Il disegno di legge in questione riprende il testo che era già stato approvato dal Senato nel 2021 e che si era impantanato alla Camera senza concludere il suo iter parlamentare; la proposta, tuttavia, era finita per qualche manciata di ore nell'occhio del ciclone perché a Palazzo Madama era stato presentato (prima in commissione e poi in aula) un emendamento che puntava a modificare sensibilmente il sistema elettorale dettato per i comuni superiori, assegnando la vittoria già al primo turno alla persona candidata che avesse raggiunto almeno il 40% dei voti validi (estendendo, dunque, il "rito siciliano" a tutta l'Italia a statuto ordinario). Gli emendamenti sono stari ritirati, il progetto di legge è stato approvato a Palazzo Madama così com'era e ora toccherà alla Camera esprimersi, ma è molto probabile che la questione torni in discussione presto: sembra dunque il caso di parlare in modo ampio dei testi e delle proposte in discussione, 

Piccoli comuni, dove eravamo rimasti: quorum di validità...

Occorre innanzitutto fare un passo indietro e capire di quale progetto di legge si stia parlando. Ci si riferisce, in particolare, al disegno di legge n. 379, rubricato "Modifiche al testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, e alla legge 25 marzo 1993, n. 81, concernenti il computo dei votanti per la validità delle elezioni comunali e il numero delle sottoscrizioni per la presentazione dei candidati alle medesime elezioni" e presentato il 28 novembre 2022 da 22 tra senatrici e senatori della Lega per Salvini premier: prima firmataria risulta essere Daisy Pirovano.
Il fatto che la proposta risulti "monocolore", tuttavia, non deve trarre in inganno. Il testo del ddl, infatti, è esattamente identico a quello che l'aula di Palazzo Madama aveva approvato il 26 maggio del 2021, con un voto pressoché unanime: questo sito se n'era occupato a fondo, sia all'indomani dell'esame al Senato, sia nei primi mesi in cui il testo era rimasto impantanato alla Camera, completando il passaggio in commissione ma di fatto senza arrivare all'esame dell'aula di Montecitorio. Pure in quell'occasione il proponente, Luigi Augussori, era leghista, ma tutti i membri della commissione Affari costituzionali furono adeguatamente sensibilizzati sui problemi elettorali legati ai piccoli comuni (del resto nella discussione era confluito anche un ddl del Pd) e si era trovato un accordo più che ragionevole. In questa legislatura Augussori non è tornato in Parlamento (peraltro era stato candidato alla Camera), ma considerando che Daisy Pirovano nel 2021 era stata relatrice del testo a Palazzo Madama, sembra naturale che proprio lei - che tra l'altro è tuttora sindaca di Misano di Gera d'Adda - abbia ripresentato il disegno di legge. Proprio l'approvazione da parte del Senato nella legislatura precedente, tra l'altro, ha consentito di invocare l'art. 81 del regolamento senatoriale: il 23 febbraio, infatti, l'aula di Palazzo Madama ha votato a favore della dichiarazione d'urgenza per quel ddl, aprendo la strada alla procedura abbreviata, conclusasi in effetti il 1° marzo. Va segnalato che la procedura d'urgenza ha avuto anche l'appoggio del MoVimento 5 Stelle e del Partito democratico: non a caso per il Pd è intervenuto in commissione e in aula Dario Parrini, che nella scorsa legislatura era stato presidente della commissione Affari costituzionali e da quella posizione aveva accompagnato l'iter del disegno di legge (e, tra l'altro, aveva accettato insieme ad Augussori di rispondere per I simboli della discordia ad alcune domande, per commentare le norme che si volevano introdurre: chi scrive è grato a entrambi).   
In questa legislatura come nella precedente, l'attenzione si è concentrata soprattutto sul destino delle elezioni amministrative nei comuni fino a 15mila abitanti in base all'affluenza e alla composizione del corpo elettorale. In particolare, l'idea era di rendere stabili le misure eccezionali introdotte nel 2021 e nel 2022 con i rispettivi "decreti elezioni", prevedendo che qualora alle elezioni in un comune "inferiore" concorra una sola lista (perché ne è stata presentata e ammessa una sola o perché solo una di quelle presentate è stata ritenuta ammissibile), i suoi candidati siano tutti eletti in consiglio comunale purché i votanti siano pari almeno al 40% degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune; il calcolo, peraltro, va fatto togliendo dal corpo elettorale da considerare gli elettori iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero che non hanno votato in quell'occasione. Entrambe le misure prendono atto di alcuni fenomeni che affliggono da tempo i comuni più piccoli (e anche alcuni medio-piccoli). 
In quei luoghi, innanzitutto, oltre a un astensionismo crescente - che, com'è noto, colpisce tutta l'Italia - si registra una sempre minore disponibilità di persone a candidarsi e ad assumere responsabilità amministrative: sempre più di frequente, dunque, si creano le condizioni per avere competizioni con una sola lista, nelle quali il rischio che l'affluenza restasse anche di poco sotto il 50% renderebbe più che probabile - con le norme "ordinarie", al di là delle eccezioni degli ultimi due anni - il commissariamento dei comuni stessi. Quel rischio sarebbe ancor più a portata di mano nei comuni piccoli che hanno tra i loro cittadini un alto numero di persone che risiedono all'estero e ben difficilmente tornerebbero nel luogo di residenza per votare: non a caso, il ddl Augussori originario si era occupato innanzitutto della situazione degli iscritti Aire, ovviamente conservando loro il diritto di voto, ma ritenendo ragionevole non considerarli nel corpo elettorale "concreto" ai fini della determinazione del quorum.
Per le elezioni del 2023 queste norme varranno in forza di un nuovo intervento una tantum, inserito questa volta nel "decreto milleproroghe" (d.l. n. 198/2022, come convertito e modificato dalla legge n. 14/2023), precisamente all'art. 2, comma 7-ter. Per il futuro, tuttavia, sarebbe davvero importante che la norma venisse modificata una volta per tutte, tenendo conto delle situazioni concrete che si affrontano nei comuni, soprattutto quelli piccoli o medio-piccoli. Ne è sembrata consapevole - anche per la sua contemporanea vita da sindaca - Daisy Pirovano, che all'aula del Senato ha proposto uno spunto di riflessione: "interroghiamoci se noi, come classe politica, abbiamo qualche responsabilità in più rispetto ai nostri amministratori locali, che lavorano in condizioni veramente critiche e con sempre più difficoltà. Mi riferisco a responsabilità per il fatto che i cittadini si stiano allontanando sempre di più dalla politica anche sui territori. Sempre meno cittadini, infatti, si rendono disponibili a ricoprire il ruolo di sindaco; se così non fosse, il provvedimento cui facciamo riferimento non sarebbe necessario, perché vorrebbe dire che non c'è una lista unica che si candida alle elezioni comunali. È diventato necessario e urgente, infatti, risolvere i problemi degli enti locali e noi non siamo ancora riusciti a farlo in tutti gli aspetti della problematica".
 

... e ritorno delle firme "sotto i mille"

Oltre alla norma che dovrebbe mitigare il quorum di validità delle elezioni nei comuni inferiori (e prevenire un discreto numero di commissariamenti per affluenza inevitabilmente molto bassa), il disegno di legge intende modificare un dettaglio specifico delle norme relative alle elezioni amministrative nei microcomuni, in particolari quelli fino a mille abitanti. Come sa molto bene chi segue con attenzione questo sito, in particolare la rubrica "Sotto i mille" curata da Massimo Bosso, a partire dal 1993 in quei comuni le liste si presentano senza necessità di essere sottoscritte dal corpo elettorale. Lo si fece allora per non ingessare la competizione in comunità piccolissime (e per evitare al loro interno situazioni sgradevoli); di certo non si immaginava che la possibilità di presentare liste senza firme avrebbe attirato in comuni piccolissimi e ignoti ai più prima forze politiche in cerca di radicamento, poi gruppi di candidati del tutto estranei a quei paesini e, non di rado, con interessi ben diversi dal concorrere per sperare di amministrare i comuni.
La discussione avviata nella scorsa legislatura aveva individuato come soluzione a questo problema (emerso nella sua gravità dopo i casi limite emersi negli ultimi anni, in particolare quello di Carbone nel 2020) la richiesta di un numero minimo e contenuto di firme pure in quei comuni: non meno di 15 e non oltre 30 nei comuni con popolazione 751 e 1000 abitanti; non meno di 10 e non più di 20 nei comuni con popolazione tra 501 e 750 abitanti; non meno di 5 e da non più di 10 sottoscrizioni, infine, nei comuni con popolazione fino a 500 abitanti. Pur trattandosi di un numero oggettivamente limitato di sottoscrizioni (al fine di evitare un aggravio eccessivo del procedimento preparatorio e di scongiurare ulteriori rischi di presentazioni di un'unica lista), la necessità di raccoglierle in loco (e la difficoltà di farlo su un numero così ridotto di abitanti) dovrebbe essere sufficiente a scoraggiare l'azione di chi, completamente estraneo al paese, volesse presentare comunque una lista di extra muros.
Questo fenomeno, come si sa, riguarda solo i comuni piccolissimi, presenti in tutte le regioni ma concentrati soprattutto in alcune di esse, così come il fenomeno si presenta in particolare in alcune zone d'Italia (tra l'altro con accenti diversi a seconda del territorio, non sempre compresi da chiunque). Ciò spiega, probabilmente, perché anche in quest'occasione nel dibattito pubblico questo punto sia stato considerato con meno attenzione rispetto alle istanze relative al quorum di validità delle elezioni. La questione, tuttavia, ha una sua rilevanza e, a differenza delle misure per salvare la validità delle elezioni in presenza di una sola lista, non è stata anticipata - correttamente - da nessun altro intervento normativo, dunque occorre necessariamente l'approvazione del disegno di legge anche alla Camera perché le norme possano entrare in vigore. Essendo assai improbabile che a Montecitorio il procedimento si chiuda nei prossimi giorni, ciò significa che le elezioni "sotto i mille" che si svolgeranno il 14-15 maggio 2023 potrebbero essere le ultime senza la raccolta firme, di fatto chiudendo un trentennio che ha portato un gran numero di casi di studio interessanti per i #drogatidipolitica (soprattutto in Piemonte, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata), ma anche significative storture che è giusto che trovino una fine.

Vincere al primo turno con il 40%? E con quanti simboli?

Proprio oggi, trent'anni fa, veniva approvata definitivamente la legge n. 81/1993, che introdusse il sistema maggioritario in tutte le elezioni amministrative, prevedendo il ballottaggio - oltre che per le province - per i comuni sopra i 15mila abitanti (l'approvazione, tra l'altro, intervenne in tempo utile per evitare che si svolgesse uno dei referendum presentati dal Comitato per la riforma elettorale nel 1991). D'improvviso, tuttavia, nei giorni scorsi si era materializzata per due volte, nel giro di poche ore, la possibilità che quel trentennio si concludesse a breve. 
Dopo che il 28 febbraio la relatrice del disegno di legge - la leghista Nicoletta Spelgatti - aveva ottenuto che il termine per depositare gli emendamenti in commissione Affari costituzionali fosse molto ravvicinato (scadeva alle 18 di quello stesso giorno), le proposte di modifica sono state infatti solo due: una del leghista Paolo Tosato, volta a prevedere per le elezioni nei comuni "inferiori" l'invio di comunicazioni - tramite messaggi sui cellulari, sulla posta elettronica o sull'app IO - per informare "sulla data di svolgimento delle consultazioni e sulla durata delle operazioni di voto" (valutando poi l'estensione alle altre consultazioni elettorali e referendarie); l'altra presentata da Licia Ronzulli, Mario Occhiuto, Adriano Paroli e Daniela Ternullo, tutte e tutti di Forza Italia. Proprio questo è stato il primo "emendamento della discordia", essendo espressamente volto a intervenire sull'elezione del sindaco nei comuni con più di 15mila abitanti (modificando l'articolo 72 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali): l'idea era di prevedere, al posto della vittoria al primo turno per il candidato sindaco che ottenga almeno il 50% dei voti validi, la proclamazione del "candidato che ottiene il maggior numero di voti validi, a condizione che abbia conseguito almeno il 40 per cento dei voti validi. Qualora due candidati abbiano entrambi conseguito un risultato pari o superiore al 40 per cento dei voti validi, è proclamato eletto sindaco il candidato che abbia conseguito il maggior numero di voti validi. In caso di parità di voti, è proclamato eletto sindaco il candidato collegato con la lista o con il gruppo di liste per l'elezione del consiglio comunale che ha conseguito la maggiore cifra elettorale complessiva. A parità di cifra elettorale, è proclamato eletto sindaco il candidato più anziano di età". Si tratta del medesimo testo dell'art. 3, comma 4 della legge regionale siciliana 15 settembre 1997, n. 35, così come modificata dalla legge regionale n. 17/2016, che ha appunto introdotto la possibilità di evitare il ballottaggio qualora almeno un aspirante sindaco abbia ottenuto il 40% dei voti; non a caso, tra l'altro, una delle proponenti - Daniela Ternullo - è siciliana.
In commissione, a quel punto, il clima si è decisamente arroventato, in un modo che probabilmente non traspare del tutto dal resoconto sommario. Se l'emendamento Tosato è stato ritirato dopo che la sottosegretaria all'interno Wanda Ferro (Fdi) ha fatto notare che "sarebbe impossibile organizzare in breve tempo, e senza ulteriori oneri per il bilancio statale, il sistema di messaggistica per le informazioni sulle operazioni di voto" (in compenso il senatore leghista ha rielaborato il testo trasformandolo in un ordine del giorno presentato in assemblea e poi accolto dal governo), le vere tensioni si sono registrate sull'emendamento forzista. Molto duro è stato il commento di Dario Parrini (Pd): a suo dire, infatti, l'emendamento avrebbe inciso "in modo significativo sul sistema di elezione dei sindaci, modificando surrettiziamente un disegno di legge di portata circoscritta, su cui è stata deliberata la procedura d'urgenza anche con il contributo dell'opposizione". Come dire: non solo questo intervento non c'entra nulla con il testo del disegno di legge (al punto che non dovrebbe essere ammesso), ma Pd e M5S non accetteranno mai che una modifica così rilevante abbia di fatto una "corsia preferenziale" grazie alla procedura d'urgenza che quelle stesse opposizioni hanno appoggiato, evidentemente solo con riguardo al tema originario del disegno di legge. 
Sembra poi opportuno non trascurare un passaggio dell'intervento della sottosegretaria Ferro: lei infatti, pur rimettendosi alle scelte della commissione, riteneva necessario "un ulteriore approfondimento, in quanto la norma potrebbe risultare in contrasto con la disposizione del testo unico sugli enti locali sull'attribuzione del premio di maggioranza". Il riferimento è all'art. 73, comma 10 del Tuel, per cui in caso di sindaco eletto al primo turno, "alla lista o al gruppo di liste a lui collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, ma abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate abbia superato il 50 per cento dei voti validi": è probabile che Ferro, verosimilmente su indicazione del Viminale, abbia segnalato il fatto che un candidato sindaco può ben ottenere un consenso maggiore della sua coalizione, per cui se un aspirante sindaco ottenesse il 40,5% dei voti ma la sua coalizione ottenesse meno del 40% il premio non scatterebbe. Da una parte questo sarebbe ragionevole, per non distorcere eccessivamente l'esito del voto con l'attribuzione del premio; dall'altra, sarebbe inevitabile il livello assai minore di stabilità della nuova amministrazione comunale in quelle condizioni. L'osservazione offerta da Ferro, poi, deriva forse anche dal fatto che la legge elettorale siciliana per le elezioni comunali prevede comunque l'assegnazione del 60% dei seggi alla lista/coalizione legata al nuovo sindaco, senza richiedere che - in caso di vittoria al primo turno - la lista o la coalizione abbiano ottenuto almeno il 40% dei voti (nemmeno in Sicilia, invece, il premio scatta se un'altra lista o coalizione ha ottenuto almeno il 50% dei voti).  
Si è registrato l'intervento del presidente della I commissione, Alberto Balboni (Fdi), il quale sosteneva che l'emendamento forzista fosse proponibile "in base a valutazioni strettamente giuridiche, in quanto il disegno di legge apporta modifiche anche all'articolo 3 della legge n. 81 del 1993, con riferimento al numero di sottoscrizioni per la presentazione delle liste nelle elezioni di tutti i Comuni e non solo di quelli di piccole dimensioni" e interviene, con l'art. 1, sul testo unico sugli enti locali. Se quest'ultima affermazione è vera (ma la rubrica del disegno di legge era ben delimitata e non pare del tutto ragionevole considerarla superabile con un semplice emendamento, tra l'altro in un procedimento accelerato), appare del tutto fuori luogo il primo argomento speso dal presidente: è vero che l'art. 2 sostituisce l'intera disposizione che stabilisce le varie "forchette" di firme richieste a seconda della popolazione dei comuni, ma basta confrontare il testo vigente dell'art. 3, comma 1 della legge n. 81/1993 e il testo proposto dal ddl Pirovano per rendersi conto che, al di là dell'aggiunta delle firme nei comuni fino a mille abitanti, le altre "forchette" sono assolutamente identiche.
La senatrice Ternullo ha comunque scelto di ritirare l'emendamento, pur condividendo - com'era inevitabile attendersi - le tesi di Balboni sulla sua proponibilità e facendo notare che la norma proposta è già applicata ai comuni "superiori" della Sicilia (anche se, come si è già detto, la lista/coalizione legata al nuovo sindaco otterrebbe comunque il 60% dei seggi, pur avendo ottenuto meno del 40%). Parrini ha apprezzato, anche per la necessità di inquadrare le modifiche alla disciplina elettorale (e non solo) degli enti locali in una riforma complessiva del Tuel, valutando con cura l'impatto di ogni modifica proposta.
Se la mattina del 1° marzo il ddl ha terminato il suo percorso in commissione, alle 13 scadeva il termine per presentare gli emendamenti in assemblea: proprio in quella sede, l'emendamento ritirato in commissione è stato riproposto, con due differenze non trascurabili. La prima consisteva nella precisazione che alla lista/coalizione legata al sindaco eletto a primo turno spettava comunque il 60% dei seggi: un tentativo di intervenire sul profilo critico segnalato da Wanda Ferro, ma forse non nel modo migliore (l'emendamento non interveniva per abrogare l'art. 73, comma 10 del Tuel, in contrasto con il contenuto della proposta di modifica). La seconda novità riguardava i firmatari: oltre al forzista Paroli, c'erano il leghista Tosato e Marco Lisei di Fratelli d'Italia, come a dire che in questo caso erano tutti e tre i partiti principali della coalizione di centrodestra a farsi carico di una proposta che all'inizio era essenzialmente di Forza Italia. Non si trattava di esponenti di primo piano (quindi l'esposizione non era eccessiva), ma il dato non era irrilevante.
Su queste basi, la polemica dev'essere stata notevole: nel suo articolo del 2 marzo per il manifesto sulla questione, Andrea Fabozzi ha segnalato che Pd, Alleanza Verdi e Sinistra e M5S si sono rivolti al presidente del Senato Ignazio La Russa, "avvertendo che se questa grave scorrettezza fosse passata 'non concederemo mai più una procedura di emergenza'", citando le parole di Parrini. Di fatto, quando dopo le 18 in aula a Palazzo Madama è iniziata la discussione sul ddl, l'emendamento era già stato ritirato. 
"Il buonsenso e il senso del pudore sono diffusi anche nella maggioranza", ha commentato in aula la senatrice M5S Barbara Floridia, confermando con le sue parole che in commissione e nei corridoi del Senato la discussione doveva essere stata molto più accesa di quanto poteva trasparire dai resoconti: "Dopo un'attenta e appassionata opposizione in Commissione, dove con un blitz stava per essere presentato un emendamento vergogna, per fortuna in maniera corretta - come correttamente si era mossa e si è mossa oggi l'opposizione - la maggioranza ha ritirato un emendamento che, a nostro avviso, era inopportuno presentare a questo provvedimento". 
Non ha condiviso la definizione di "emendamento vergogna" (probabilmente - ci si permette di dire - dettata non tanto dal contenuto, ma dal modo e dalle circostanze in cui era stato presentato) Massimiliano Romeo (Lega): "Per una volta che un leghista prende ad esempio la Sicilia, ci saremmo aspettati almeno un minimo di riconoscenza". Il capogruppo della Lega ha segnalato l'emendamento è stato ritirato nella consapevolezza "del fatto che la procedura d'urgenza su questo provvedimento è stata votata anche dall'opposizione e in segno di rispetto per un accordo che era stato preso da tutti" e non era il caso di forzare la mano. Ha però anche ribadito che la maggioranza vuole arrivare all'elezione del sindaco al primo turno con il 40% nei comuni "superiori": non a caso, proprio Romeo è primo firmatario di una proposta che, nell'intervenire sulle elezioni provinciali, prevede proprio l'elezione al primo turno del sindaco con almeno il 40%; la stessa idea è contenuta in un altro ddl a prima firma, guarda caso, di Licia Ronzulli. Per Romeo si tratta di una riforma importante perché può "aiutare a risparmiare risorse e a dare maggiore certezza, anche in vista della partecipazione dei cittadini alle elezioni, che sappiamo in molti casi al secondo turno essere assolutamente minimale".
Il ritiro del secondo emendamento, però, non ha chiuso la polemica in materia. Per Ivan Scalfarotto (Italia viva) la maggioranza aveva tentato un "colpo di mano [...] con un emendamento agganciato a un provvedimento completamente diverso [...]. Approfittando della procedura accelerata per recuperare un vecchio disegno di legge, infila all'interno di questo piccolo disegno di legge un carico da 90, una norma grandissima, che va addirittura a modificare la legge elettorale per i sindaci: una vera e propria riforma istituzionale fatta attraverso l'uso surrettizio e fraudolento di una procedura semplificata accordata da tutti", senza la proclamata ampia condivisione in materia di riforme.
"Chi si definisce terzo polo non può che essere preoccupato del fatto che potrebbe non esserci un ballottaggio nelle elezioni dei Comuni" ha ribattuto a Scalfarotto il forzista Adriano Paroli, ricordando il dibattito già iniziato in I commissione sui disegni di legge Romeo e Ronzulli (con varie audizioni di esperti) e la pratica della vittoria al primo turno con il 40% già "rodata" in Sicilia, "dove non mi sembra che nessuno faccia le barricate, che nessuno la ritenga incostituzionale e [...] una legge vergogna". Paroli ha riconosciuto i meriti della legge del 1993, ma "un tagliando bisogna farlo": "ci troviamo, sempre più spesso, ad avere il candidato sindaco eletto al ballottaggio con meno voti di quelli ottenuti da un altro candidato sindaco al primo turno. È un'anomalia che non può lasciarci indifferenti. Così come non può lasciarci indifferenti il fatto che l'astensionismo, soprattutto nel secondo turno, sta aumentando continuamente. È necessario dare più importanza al primo turno, ma senza eliminare il ballottaggio", disinnescando "chi si candida in mezzo, pensando di arrivare al ballottaggio e di vendere i propri voti - lo dico chiaramente - al miglior offerente o a chi ha più possibilità di vincere"; più avanti ha precisato di fare riferimento non tanto a partiti presenti in aula, ma "a tante liste civiche inventate, dove i candidati prendono il 6 per cento e poi lo vendono al ballottaggio". L'intervento di Paroli - sindaco di Brescia dal 2008 al 2013, sconfitto al ballottaggio alla sua seconda candidatura - è stato significativo, anche perché ha messo in luce che il primo emendamento (a prima firma di Ronzulli) era stato ritirato "poiché il Governo aveva chiesto una riformulazione": la richiesta in effetti era stata di un approfondimento, ma dovevano esserci stati altri contatti per precisare meglio i dubbi dell'esecutivo (ed forse alcuni dubbi erano rimasti, visto che per il senatore forzista era stata chiesta, anche se ciò non emerge dai resoconti, "anche rispetto all'emendamento presentato per l'Aula, una ulteriore riformulazione, sollevando delle preoccupazioni che [...] meritavano una risposta". Il ritiro del secondo emendamento sarebbe invece derivato dalla reazione delle opposizioni che, sempre secondo le parole dell'esponente di Forza Italia, avevano "ritenuto che vi fosse reato di lesa maestà". I toni non nascondono una certa antipatia, oltre che della persona che li ha usati, dell'intera coalizione per il meccanismo del ballottaggio: al di là di alcuni casi in cui il centrodestra è stato prevalente (a partire da Bologna 1999 con la vittoria di Giorgio Guazzaloca) o determinante (per fare perdere il centrosinistra, di solito contro il M5S, come a Parma nel 2012), sono stati molto più frequenti i casi in cui il centrodestra è uscito male dal ballottaggio (per una sua scarsa capacità di richiamare i propri elettori al ballottaggio o per accordi intervenuti nel frattempo tra centrosinistra e forze escluse).
Per la senatrice Ada Lopreiato (M5S), in ogni caso, quegli emendamenti non erano "un'espressione della democrazia", essendo volti "a farsi bastare i pochi cittadini pronti a votare". Nel suo intervento in aula, il dem Dario Parrini ha ribadito di considerare il doppio emendamento "un tentativo di colpo di mano davvero pessimo", a dispetto dei "ravvedimenti postprandiali": si è provato a "sfruttare la procedura d'urgenza data all'unanimità per un provvedimento di piccola portata, da tutti condiviso, per far passare una riforma elettorale del sistema di elezione dei sindaci nei Comuni sopra i 15.000 abitanti, che è una cosa [...] iperdivisiva e di portata molto grande". Ha poi contestato la tesi del centrodestra, in base alla quale l'affluenza ai ballottaggi è sempre minore rispetto al primo turno (poi il senatore di Fratelli d'Italia Costanzo Della Porta ha ricordato che "De Magistris fu eletto con il 25 per cento dei voti al ballottaggio", in realtà però nel 2011 ebbe il 27,5% al primo turno e una quota maggiore, anche rapportata ai voti del primo turno, al ballottaggio; al più si può dire che nel secondo turno l'affluenza è calata parecchio), ha ritenuto comunque sbagliata la scelta siciliana di accontentarsi del 40% al primo turno (scelta tra l'altro "provata in una Regione a statuto speciale, che non per caso è a statuto speciale"). Ha peraltro sottolineato un altro carattere fondamentale della riforma maggioritaria del 1993, messo in luce lo stesso giorno dal costituzional-comparatista ed ex parlamentare Stefano Ceccanti con queste parole: "La legge elettorale sui comuni è datata 25 marzo 1993. [...] Fu approvata a larghissima maggioranza. In questi tre decenni è rimasta sostanzialmente invariata. Ha consentito pacifiche alternanze tra le più varie maggioranze locali. Quando si è sentita la necessità di qualche variazione, ad esempio nella durata del mandato da 4 a 5 anni, si è sempre proceduto per larghissimo consenso. Mentre, purtroppo, per la legge elettorale nazionale si sono avute approvazioni a consenso ristretto e per fini di parte da parte delle maggioranze pro tempore, fin qui la legge comunale è sempre stata al riparo di queste forzature. Sarebbe bene per tutti che restasse così. Festeggiamo consensualmente il trentesimo compleanno mantenendo la differenza tra conflitto sulle politiche e consenso sulle regole: è utile a tutti anche per avviare il dialogo su altre riforme. Bene quindi il ritiro dell’emendamento che voleva limitare il ballottaggio e bene, soprattutto, che simili tentazioni siano accantonate per sempre".
Il fatto che buona parte del dibattito si sia svolto sulla questione del ballottaggio nei comuni "superiori" non poteva soddisfare la proponente del disegno di legge in questa legislatura, la leghista Daisy Pirovano: "Purtroppo anche oggi, per motivi diversi, i grandi Comuni hanno cercato di oscurare i piccoli. [...] Vi ricordo che i piccoli Comuni [...] sono il 54% del territorio del Paese - con riferimento ai Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti [...] - e rappresentano il 70% dei Comuni italiani. Stiamo parlando di una buona parte del territorio che merita la dovuta attenzione. [...] più il Comune è piccolo, più un amministratore locale (sindaco, assessore o consigliere) deve occuparsi di ogni genere di cosa: dal netturbino alle piccole e grandi manutenzioni; se non ci sono i soldi per gli eventi bisogna trovare il volontariato e sono i primi che devono dare il buon esempio. [...] Quindi, fare l'amministratore in un piccolo Comune è anche un grande peso e una grande responsabilità e lascia poco tempo alla vita privata. Siccome i cittadini vedono i loro amministratori, quando vi dicevo che l'affluenza al voto è inversamente proporzionale al numero degli abitanti, parlando delle comunali, ma poi passando alle politiche, è anche perché - come ben sappiamo - nelle comunali, soprattutto nei piccoli centri, c'è un rapporto diretto: i cittadini conoscono il loro sindaco, conoscono l'assessore e il consigliere e c'è uno scambio diretto. C'è un programma che i cittadini votano e non solo; in base alla legge che qui è stata approvata, i Comuni devono anche fare il rendiconto di fine mandato, che è un obbligo; e nel rendiconto di fine mandato bisogna dire ai cittadini che cosa è stato fatto nei cinque anni di amministrazione e poi i cittadini decideranno [...] se rivotare o meno i loro amministratori, in base a quello che hanno dimostrato di aver fatto rispetto alle promesse [...]. Questo impegno viene assunto in condizioni spesso critiche, perché i soldi sono sempre meno e le emergenze si susseguono [...]. Quindi, un cittadino ci pensa due volte prima di buttarsi nell'avventura, che pure è straordinaria, di fare il sindaco. Noi dobbiamo aiutare i Comuni per aiutare la gente a riavvicinarsi ai Comuni stessi".
Quanto alla questione della raccolta firme, Pirovano ha chiarito - per chi non avesse ancora compreso il senso della modifica normativa proposta - che la reintroduzione delle sottoscrizioni è stata chiesta "per evitare che ci siano liste cosiddette farlocche e, quindi, con candidati che non hanno niente a che vedere con la vita del Comune, che non abitano nel Comune e non hanno nemmeno in esso legami perché è lecito e capita che si candidino nelle liste persone di Comuni vicini, fra l'altro anche come sindaco; magari sono nati lì o lì hanno degli interessi. Però, purtroppo, è capitato e capita ancora che ci si approfitti del fatto che nei Comuni sotto i mille abitanti non ci sia una raccolta firme per candidarsi e a volte ci si candidi solo per avere dei permessi retribuiti, a volte semplicemente per mettere una bandierina in quel Comune, magari andare a fare un'opposizione, più o meno litigiosa, comunque per creare un po' di scompiglio o magari per un tornaconto personale. Quindi, il numero di firme è ridotto [...], ma almeno c'è qualcuno residente nel Comune che mette la propria firma per dire che una determinata lista è bene che si presenti".
Queste cose, come altre, sono ben note a chi segue questo sito e altri spazi simili. Non ci si sente dunque in colpa per aver dedicato un certo spazio alla questione dell'elezione al primo turno con il 40% dei voti, cosa che - tra l'altro - potrebbe aumentare i simboli o comunque non farli diminuire: un alto numero di liste civiche, paraciviche o personali potrebbe servire a tentare di raggiungere la soglia del 40% (in fondo non c'è la clausola di sterilizzazione per le liste che non partecipano al riparto dei seggi), anche se magari i seggi toccherebbero solo alle liste maggiori. Una scelta simile certamente non sarebbe di poco conto e dovrebbe essere il più possibile condivisa (e in modo palese, non come questa volta), oltre che frutto di discussioni approfondite. Restano però valide, per i comuni "inferiori", le considerazioni fatte in chiusura da Pirovano, che ci si sente di sottoscrivere: "sono tanti i motivi per cui bisogna ancora crederci, avere la voglia di fare l'amministratore in un piccolo Comune e fare il sindaco. La prima cosa, che abbiamo ancora da imparare dai nostri amministratori locali, è l'amore e il rispetto per la propria gente. Meno gioco politico, più fatti, più dialogo, più condivisione, per guardare quali sono veramente i problemi della nostra gente e perdere meno tempo, perché da casa certi spettacoli vi assicuro che anche dai sindaci non sono ben visti. Questo perché noi in Comune - dico noi per deformazione professionale - abbiamo poco tempo per litigare perché abbiamo tanti problemi da risolvere, fin quando non sarà il Parlamento e il Governo a risolverli per noi".