domenica 12 luglio 2020

1992, Gremmo porta la Lega alpina lumbarda in Senato (con De Paoli)

Si sono viste le ragioni che avevano portato Roberto Gremmo a varare, alla fine del 1991, il progetto politico della Lega alpina, ovviamente partendo dal suo Piemont ma estendendosi innanzitutto in Lombardia, grazie all'apporto di Pierangelo Brivio, cognato di Umberto Bossi da tempo in rotta irreversibile con lui. L'idea di tenere insieme i Popoli Alpini di un territorio vasto "da Aosta a Trieste, da Torino a Bolzano, da Milano ad Udine [...] con le sue vallate, i picchi, i fiumi, il Po che fa da sbarramento" (come scritto da Gremmo in Contro Roma) era alla base di tutto: il disegno era ambizioso, ma intanto si poteva iniziare da ciò che era più a portata di mano. 
In effetti il raggio d'azione di Gremmo si stava allargando (al disegno di Lega alpina, per esempio, stava guardando con interesse anche Paolo Primon, che nel 1989 era stato tra i fondatori della Lega Nord in Trentino ma in seguito avrebbe abbandonato il partito e avrebbe fondato la sua Lega del Tridente) ma, soprattutto, parlare di Lega alpina consentiva una piena integrazione della Valle d'Aosta (in cui Gremmo aveva già una base, dopo l'elezione in consiglio regionale nel 1988) e la possibilità di espandersi in Lombardia, peraltro sfruttando il traino che ormai la parola "Lega" aveva acquisito nei primi anni di attività politica di Bossi e compagni.
Corriere della Sera, 11 ottobre 1991, pagg. 2 e 3
In effetti Roberto Gremmo non era l'unico ad avere compreso il potenziale attrattivo di quella parola. Una manciata di settimane prima, l'11 ottobre, i giornali davano molto spazio alla prima seria frattura all'interno della Lega Nord, resa concreta dalla nascita di un gruppo autonomo nel consiglio regionale lombardo che raccoglieva 4 eletti leghisti (ma dovevano essere 6) su 15, incluso colui che fino a quel momento era stato il capogruppo, Franco Castellazzi. Alla base del dissidio c'erano rilevanti differenze di vedute tra Castellazzi e Bossi, il quale pochi giorni prima - alla prima Dieta federale di Mantova, il 29 settembre - aveva ingiunto ai consiglieri della Lega Nord di lasciare ogni organo e poltrona in regione (soprattutto in seguito al patto istituzionale favorito dal Psi e stipulato con i partiti che guidavano la politica regionale in quel periodo) e in ogni provincia. Proprio Castellazzi - che era anche presidente della Lega Lombarda - sosteneva che fosse necessario entrare a poco a poco nelle istituzioni, senza combattere pregiudizialmente con tutte le forze politiche che detenevano il potere (e magari anche senza pensare alla secessione); per Bossi, invece, "da una parte c'è la Lega, dall'altra tutti gli altri" e, nel pretendere le dimissioni dei leghisti dagli organi di "sottogoverno", aveva addirittura parlato di "partito delle poltrone", riferendosi soprattutto al gruppo regionale della Lega. Col passare dei giorni, erano emerse distanze anche sul modo di intendere la leadership nel partito e la frattura si era aggravata, fino allo strappo (che sembrava) definitivo.
Il fatto era che i fuoriusciti - nonché espulsi - dalla Lega Nord avevano subito manifestato l'intenzione di chiamare "Lega" il loro nuovo gruppo ("è ormai il simbolo della lotta al sistema partitocratico") e Bossi si era immediatamente opposto, ritenendo che quel nome spettasse solo al suo partito. Il 28 novembre Castellazzi presentò pubblicamente la sua nuova formazione, chiamandola Lega autonomista federalista e per la democrazia diretta; nella chiara impossibilità di costringere l'intero nome nel contrassegno, si optò per il più semplice Lega nuova, disponendo le lettere di "Lega" intorno a una croce rossa di San Giorgio. Sul piano programmatico, il partito puntava a un'Italia federale, con l'elezione diretta di tutti i vertici degli esecutivi a ogni livello (nonché a un uso più marcato degli strumenti referendari). In effetti nei giorni successivi il gruppo creato da Castellazzi si sarebbe dimezzato a causa di defezioni "di ritorno" e il partito sarebbe durato meno di un anno (sui giornali si sarebbe parlato di fine del progetto politico già il 15 settembre 1992), ma nel frattempo aveva aderito al gruppo anche Pier Gianni Prosperini, eletto nel 1990 in consiglio comunale a Milano con la Lega Nord e che, dopo l'elezione a sindaco di Gianpiero Borghini, sarebbe pure diventato assessore all'educazione, protezione civile e lavori pubblici.
Giusto per semplificare le cose, coloro che alla fine del 1991 lasciarono la Lega nuova di Castellazzi - Gisberto Magri e Virgilio Castellucchio - a gennaio del 1992 fondarono a loro volta un gruppo denominato Lega per la Lombardia libera: presto sarebbe diventato un simbolo, con "Lombardia" e "libera" parte di altre espressioni ma più evidenti delle altre parole del fregio (ma sempre più piccole di "Lega", ovviamente). La parola "Lega", insomma, faceva gola a più soggetti e, per Roberto Gremmo, il fatto che altre persone anche di un certo peso avessero scelto di allontanarsi dalla Lega Nord permetteva di pensare di nuovo a un disegno autonomista diverso da quello proposto fino a quel momento da Umberto Bossi.
Il 9 gennaio, in ogni caso, il capo dello stato Francesco Cossiga e il presidente del Consiglio Giulio Andreotti raggiunsero l'accordo per tornare alle urne il 5 e il 6 aprile 1992: i simboli si sarebbero dovuti consegnare al Viminale dalle ore 8 del 21 febbraio alle ore 16 del 23 febbraio, dunque l'inizio della campagna elettorale si avvicinava sempre di più. "Dario Barattin - ricordava Gremmo in Contro Roma - ha passato una settimana davanti al Ministero degli Interni per depositare il nostro simbolo: i gregari di Bossi credevano fosse il solito Piemont e ci hanno sottovalutato". A dire il vero, il simbolo dell'Union piemonteisa (anzi, quello di Piemont Union Autonomia) era stato comunque depositato, ma più per depistare gli interessati per far loro credere che quel simbolo sarebbe stato il prescelto che per la reale intenzione di usarlo. 
Per completare il depistaggio, Gremmo aveva scelto di depositare per il Senato - oltre ai simboli su fondo azzurro che sarebbero stati usati in Piemonte e Lombardia, comunque denominati "Lega alpina Piemont" - anche altri sei emblemi, stavolta con scritte ed elementi grafici azzurri su fondo bianco, con varie combinazioni testuali (Autonomia lumbarda, Piemont autonomia, Autonomia Piemont, Autonomia Lega, Piemont Lega Alpina) accompagnate alle montagne o al profilo del Piemonte (proprio la "bistecca" del Piemont autonomista schierato nel 1987 da Gipo Farassino e Renzo Rabellino). Se anche non glieli avessero ammessi tutti, gli avversari - intanto avrebbero dovuto arrovellarsi per capire quale emblema Gremmo e Brivio avrebbero potuto utilizzare alle elezioni del 5-6 aprile.
In effetti in bacheca finirono anche i contrassegni di coloro che avevano abbandonato il Carroccio, cioè della Lega per la Lombardia libera e della Lega nuova. Quest'ultimo, tuttavia, si sapeva già che non sarebbe finito sulla scheda elettorale, perché nel frattempo Franco Castellazzi aveva stipulato un accordo con i socialdemocratici di Antonio Cariglia: alla Camera i candidati neoleghisti sarebbero stati inclusi nelle liste del Psdi, mentre al Senato nelle regioni in cui la presenza dei seguaci di Castellazzi era più forte sarebbe stato usato un contrassegno specifico, che sotto al simbolo del sole nascente conteneva anche il riferimento testuale a Lega nuova.
Nessun dubbio, invece, sul simbolo della Lega Nord (il primo in assoluto a essere depositato), che fece il suo debutto a colori alle elezioni nazionali, con una curiosa ed evidente duplicazione della statua del guerriero di Legnano per la presenza di un'enorme "pulce", tra l'altro evidenziata in rosso, della Lega lombarda (ovviamente per essere certi di non dover raccogliere le firme, motivo per cui il contrassegno stesso fu depositato a nome della Lega lombarda e non della Lega Nord): non era una novità naturalmente, ma in passato - alle regionali e alle europee - effettivamente di "pulci" (quindi di miniature del simbolo già rappresentato in Parlamento) si era trattato. La vera novità destinata a durare, casomai, era costituita dal cambio di carattere, con l'avvento della font Optima, mai più abbandonata per il nome del partito. Fu peraltro depositata anche una seconda versione, che inseriva per il solo Senato i riferimenti al Nord. al Centro e al Sud.
In compenso, proprio la Lega Nord in quell'occasione tentò una poderosa operazione di difesa dei propri pretesi diritti sul nome "Lega" e sul concetto che esprimeva. Al Viminale, infatti, il 21 febbraio si presentarono tra i primi - anche facendo a cazzotti con i Verdi federalisti per difendere la posizione - Francesco Speroni, Luigi Moretti e Bruno Canti e inondarono letteralmente i tavoli dei funzionari di ben 71 contrassegni, quasi tutti uguali tra loro, tutti caratterizzati dalla parola "Lega" nelle combinazioni più varie (Lega italiana, Leghe autonomiste, Lega democristiana, Lega comunista, Lega socialista, Lega popolare lombarda, Lega delle Regioni e così via) e tutti relativi ad associazioni di cui era presidente Giuseppe Leoni, primo deputato della Lega Lombarda; tra quei simboli a scritta nera su fondo bianco, c'era perfino una Lega alpina Piemonte, giusto per dare diretto fastidio a Roberto Gremmo. 
Il Viminale, tuttavia, bocciò tutti gli emblemi fatti presentare da Leoni (tranne il primo, con la dicitura Lega Lombardia libera), ritenendo che violassero le norme in materia di deposito dei contrassegni, in particolare la disposizione per cui "all'atto del deposito del contrassegno deve essere indicata la denominazione del partito o del gruppo politico organizzato". Leoni impugnò l'esclusione - tra l'altro facendosi difendere da Cesare Crosta, avvocato, già magistrato della Corte dei conti, nonché fondatore del Partito monarchico nazionale e rifondatore del Fronte dell'Uomo qualunque, ma soprattutto fondatore della Lega centroe coordinatore della Lega italia federale proprio per conto di Bossi - sostenendo che i nomi dei soggetti collettivi depositanti erano sempre stati indicati e non doveva essere un problema il fatto che tutti questi fossero presieduti dalla stessa persona (cioè lui), che dunque aveva firmato tutte le deleghe al deposito dei contrassegni. L'Ufficio elettorale nazionale presso la Cassazione, tuttavia, il 28 febbraio confermò l'esclusione: una stessa persona poteva presentare più contrassegni in nome dello stesso partito per evitare tentativi di imitazione, ma la legge voleva evitare - anche se non era scritto a chiare lettere - "che una stessa persona [potesse] assumere la rappresentanza di più partiti o gruppi politici organizzati per la elementare considerazione che ciascuno partito o gruppo politico si pone, di fronte al corpo elettorale, come un'entità concorrente, contrapposta o alternativa rispetto alle altre organizzazioni politiche". Insomma, per i giudici non era consentito che la stessa persona fosse leader di più gruppi politici organizzati.
Nel medesimo giorno, gli stessi magistrati respinsero anche l'opposizione con Umberto Bossi aveva contestato l'ammissione dei simboli di Gremmo, del cartello Psdi - Lega nuova, nonché della Lega casalinghe - Pensionati, della Lega d'azione meridionale di Giancarlo Cito e persino della Lega delle Leghe che era stata fondata un paio di settimane prima da Domenico Pittella, Angelo Manna e nella quale era confluita anche la Lega nazional popolare di Stefano Delle Chiaie. Per Bossi l'uso del "logogramma 'Lega'" da parte del Carroccio doveva godere di "una duplice e invincibile assoluta priorità", sia perché il contrassegno era stato depositato prima degli altri, sia perché lui utilizzava il nome da una decina di anni ed era in Parlamento dal 1987; le altre "pseudo-leghe" proliferate nel frattempo sembravano "costituite al solo fine di trarre in inganno l'elettorato e per ciò solo [erano] meritevoli di immediato rigetto". 
Il Messaggero, 20 febbraio 1992, pagina 4
Addirittura, a riprova delle sue parole e della "improntitudine di alcuni gruppi" che sarebbero perfino arrivati alla "confessione del misfatto", l'avvocato della Lega Nord citò una dichiarazione di Roberto Gremmo riportata dal Messaggero il 20 febbraio 1992 (dunque alla vigilia del deposito dei contrassegni, mentre Dario Barattin era già in fila). Dopo avere ricordato la presenza dei due Piemont sulle schede in passato (nel 1987, anche se nell'intervista si parlò erroneamente delle regionali del 1990) che lui dovette subire, Gremmo disse di voler "restituire lo scherzo": "Ho cambiato nome al mio gruppo, non più Piemont ma Lega alpina Piemont. 'Lega' grosso così sul simbolo, tre vette di montagna e un alpino con penna sul cappello e picozza, la parola 'Lega' che vedi subito, che campeggia. Perché il voto, vede, non sarà per il signor Bossi, che se lo conoscessero non lo voterebbero, ma per le leghe. [...] Lega scritto in grande, così li costringerò a fare a metà con me, stavolta [...]. Eh sì, à la guerre comme à la guerre".
L'opposizione di Bossi tuttavia fu rigettata: era vero che il simbolo della Lega Nord era stato depositato per primo, ma per l'Ufficio elettorale nazionale non c'era identità o confondibilità perché non si tutelava il nome in sé ma il contrassegno (e il fatto stesso che nell'opposizione bossiana si parlasse di "logogramma" lasciava trasparire un interesse più per il simbolo che per la sola parola "Lega". In più, per i giudici (e per il Viminale) la parola "Lega" non era da considerarsi "elemento caratterizzante" del simbolo, "poiché 'lega' può significare associazione, alleanza, patto, accordo tra persone o gruppi ed in tanto può assumere un significato caratterizzante in quanto sia legato ad altro elementi idonei alla qualificazione o individuazione degli orientamenti o finalità politiche connesse al patto, accordo, alleanza ecc.". Se dunque la sola parola "Lega" non era elemento caratterizzante del simbolo del Carroccio, diventava facile dire che gli emblemi delle altre forze politiche additati da Bossi si differenziavano nettamente dal primo per le scritte e gli altri elementi grafici: nessuna confondibilità, dunque, poteva essere rilevata.
A quel punto, alla Lega Nord non restava altro da fare che prendere atto delle decisioni dell'Ufficio elettorale nazionale e depositare le proprie liste; altrettanto fecero le altre formazioni, a partire dalla Lega alpina Piemont e dalla Lega alpina Lumbarda, avendo in più l'onere di raccogliere le firme necessarie: Gremmo provvide in Piemonte e in Lombardia.  
Si mosse anche Pierangelo Brivio che, per potersi candidare, già all'inizio di gennaio si era dimesso dal consiglio regionale lombardo (gli era subentrata la persona più votata in lista dopo di lui, vale a dire la moglie, Angela Bossi, sorella di Umberto). Brivio si candidò con il simbolo che lo aveva portato in regione Lombardia, cioè Autonomia - Alleanza lombarda, mentre Gremmo si occupò anche della Lega alpina lumbarda, tanto che il capolista alla Camera per la circoscrizione Milano-Pavia fu proprio Dario Barattin (eletto per Piemont in consiglio comunale a Giaveno). Tra i candidati su cui Gremmo puntava in Lombardia c'era Franco Levi, giornalista, dalla lunga militanza radicale, la cui strada aveva incrociato di nuovo quella di Gremmo per molto tempo: questi era entrato in contatto con Pietro Bucalossi all'epoca delle liste locali presentate grazie alla "lista del melone" triestina proprio grazie a Levi, che insieme a Roberto Bernardelli e Bruno Capuccio collaboravano con l'ex ministro Bucalossi) e sempre Levi permise a Gremmo di ottenere la tessera da giornalista (dopo averlo fatto collaborare al giornale Noi cittadini) e con lui fondò in seguito una testata. ("Ho nitida nella mente - ricorda ora Gremmo - l'immagine di Franco Levi che si presentava ai comizi di Pier Gianni Prosperini [allora candidato nella lista Psdi - Lega nuova, ndb] portando la kippah con la piuma d'alpino". 
Si arrivò dunque al voto, senza esclusioni di colpi tra Lega Nord e leghe anti-Lega. Il Carroccio ottenne l'8,65% alla Camera e l'8,2% al Senato, portando a casa 55 deputati e 25 senatori, un balzo enorme rispetto ai due parlamentari ottenuti nel 1987. Al Senato in Piemonte la Lega alpina Piemont ottenne 73297 voti (il 2,72%, a fronte del 15,57% della Lega Nord): lì il seggio fu solo sfiorato (ne ebbero uno i Verdi col 3,17%), ma i voti ottenuti erano superiori ai circa 67mila che avevano permesso ad Anna Sartoris nel 1990 di entrare nel consiglio regionale del Piemonte con Piemont Union Autonomia. Alla Camera invece a livello regionale arrivarono stranamente meno voti per la Lega alpina Piemont (69703), ma probabilmente influì la presenza - nella sola circoscrizione Torino-Novara-Vercelli - di una lista Piemont liber, che - simbolo con drapò tondo su fondo azzurro e la parola "Piemont" in grande evidenza - si portò via 11257 voti: difficile dire ora a chi fosse legata quella formazione (tutt'al più si può notare che vari suoi candidati sarebbero riapparsi in seguito nelle liste promosse dal gruppo di Renzo Rabellino).
La partita più interessante, tuttavia, si giocò in Lombardia per il Senato. Lì naturalmente la Lega Nord fece il pieno, con il 20,46% e 11 senatori sui 48 spettanti alla regione; l'Autonomia - Alleanza lombarda di Pierangelo Brivio dovette accontentarsi dello 0,58%, fecero un po' meglio quelli di Lega Lombardia libera (0,93%), ma rimasero senza seggi proprio come il Psdi - Lega nuova (nonostante la candidatura di Prosperini), fermo all'1,15%. La Lega alpina lumbarda, invece, staccò tutte le altre formazioni e ottenne 119.153 voti, pari al 2,12% (più della Lista Pannella, al suo esordio e ferma all'1,56%, e poco meno del Pli): quella percentuale fu sufficiente a far scattare l'eletto in Senato. Poteva sembrare un risultato trascurabile, a fronte degli ottanta parlamentari della Lega Nord, ma non era così, soprattutto per gli effetti che questo avrebbe prodotto nelle campagne elettorali successive: "Ci siamo portati a casa il 'simbolo' - scrisse ancora Gremmo in Contro Roma - niente più raccolte di firme snervanti e pericolose, niente più imboscate". L'approdo nelle aule parlamentari della Lega alpina, sia pure con un solo rappresentante, oltre a rappresentare un salto di qualità, era visto come un viatico per partecipare - a legislazione vigente e grazie allo stratagemma della "pulce" elaborato proprio da Gremmo - alle elezioni comunali, provinciali e soprattutto regionali senza dover più sottostare all'onere di raccogliere le firme, fonte di infinite difficoltà (se non di veri drammi politici) in passato per il gruppo di Gremmo e in generale per gli autonomisti.
Corriere della Sera, 8 aprile 1992, pagina 22
Bossi certamente era soddisfatto per i suoi ottanta parlamentari, ma se la prese senza mezzi termini con "quegli imbroglioni della Lega alpina lumbarda" e col ministero dell'interno per averne ammesso il simbolo. D'altra parte, anche Roberto Gremmo aveva sì un ottimo motivo per essere soddisfatto (lo si è visto), ma era convinto che il seggio ottenuto in Lombardia sarebbe andato a Franco Levi. Alla fine, invece, al suo posto fu eletto Elidio De Paoli, operaio in aspettativa, già consigliere provinciale dei Pensionati e assessore della provincia di Brescia. Proprio lui portò le firme necessarie per depositare le candidature nel bresciano e fu candidato lì, ma volle essere schierato anche nel collegio di Clusone, nel bergamasco (dove inizialmente Gremmo aveva pensato di candidare Levi, pensando forse che potesse avere una buona percentuale). E giusto a Clusone De Paoli fu eletto: non era stato il candidato della Lega alpina lumbarda a prendere più voti in Lombardia, ma il suo 3,5% ottenuto in provincia di Berghem lo fece risultare il candidato con la percentuale più alta nel proprio collegio e gli aprì le porte di Palazzo Madama. Sul momento Gremmo si concentrò soprattutto sull'elezione ottenuta dal suo simbolo e sulle sue ricadute in termini di firme da non raccogliere più; eppure, proprio l'elezione di De Paoli in seguito ebbe un ruolo non secondario nelle vicende politiche italiane, anche ben oltre quel 1992. Che, in ogni caso, avrebbe riservato altre sorprese, da raccontare a parte.

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