venerdì 31 dicembre 2021

Dal Patto al gonfalone: Giuliano Bianucci tra comunicazione e simboli

A volte il simbolo e l'immagine di un partito o di un movimento si possono immaginare con calma, avendo davanti vari mesi di tempo per preparare tutto a dovere e se le elezioni - anche anticipate - arrivano più o meno quando è previsto. Altre volte la situazione precipita in modo imprevisto da un giorno all'altro: le liste vanno riempite entro una settimana o poco più e si deve trovare un simbolo in fretta, cercando di creare qualcosa che abbia un senso, sia riconoscibile e magari risulti gradevole. Prima, durante e dopo, naturalmente, c'è un'intera campagna elettorale da pensare, progettare e attuare, comunicando le persone, il partito e, ovviamente, il simbolo e il patrimonio di idee che porta con sé (quando ancora ne esisteva uno). 
Ha vissuto a lungo tutto ciò Giuliano Bianucci, da oltre trent'anni impegnato nella comunicazione istituzionale e sociale: nel 1989 ha fondato l'agenzia M&C - Marketing & Comunicazione e da allora si è occupato di un gran numero di progetti (tuttora è direttore di DentroTutti, progetto educativo-sociale di SmemoLab), ma aveva incrociato la politica già alcuni anni addietro. Dopo le prime esperienze, con l'arrivo dei '90 Bianucci ha "inventato" la comunicazione per Mariotto Segni, proprio nella fase in cui - come si racconta bene nel documentario di Antonio Plescia e Giacomo Visco Comandini Andate al mare. La disfatta della Prima Repubblica (2020), cui Bianucci ha contribuito con una testimonianza e molto materiale - tra referendum elettorali e il Patto per la riforma sembrava davvero che si potesse cambiare in meglio la politica italiana. Le elezioni del 1994 non diedero proprio il risultato sperato, ma il rapporto tra il comunicatore e il politico sarebbe proseguito, di Patto in Patto. 
Alla fine del 1993, nel frattempo, Bianucci aveva iniziato a occuparsi del Partito popolare italiano: seguì prima quello unitario che aveva appena smesso di chiamarsi Democrazia cristiana (anzi, l'adattamento del simbolo lo curò proprio lui), poi quello che si schierò con Gerardo Bianco una volta scoppiato lo scontro politico-giudiziario con Rocco Buttiglione. Proprio Giuliano Bianucci è il principale artefice grafico del simbolo dello scudo nel gonfalone, che dal 1995 al 2002 - al di là delle variazioni intervenute - ha caratterizzato quell'avventura politica e l'anno scorso è tornato alla ribalta grazie a Ciriaco e Giuseppe De Mita (dopo che per quasi quindici anni l'uso era stato custodito solo da ciò che restava dei Popolari di Moncalieri, che peraltro continuano a fregiarsene con orgoglio). La nascita di quell'emblema merita di essere raccontata, così come molte altre storie di politica e comunicazione che Bianucci ha vissuto in prima persona e che hanno molto da trasmettere e da insegnare. Anche a chi vuole fare comunicazione o ne ha bisogno oggi.


Giuliano Bianucci nel 1992 al PalaEur (prima della manifestazione)
e oggi (fotogramma dal documentario Andate al mare)

* * *

Giuliano, come e quando sei arrivato a occuparti di comunicazione politica?
Ci sono arrivato occupandomi di comunicazione sociale. Nella seconda metà degli anni '70 ero un giovane giornalista in cerca di avventure, così cercai di capire che cos'avrei potuto fare da grande. Ero appunto appena diventato giornalista, ma mi sono accorto via via che quel mondo mi faceva schifo, non era per me: pensai allora che avrei potuto spostare leggermente il tiro e fare il comunalista, cioè il comunicatore delle cose utili. Ho iniziato così a lavorare sulla comunicazione pubblica, sulla comunicazione di servizio e istituzionale, legata alla cittadinanza responsabile. Era ormai la fine degli anni '70 e io in seguito ho sempre fatto il comunicatore sociale.
Giovanni Goria
D'accordo, ma la politica?
Arriva qualche anno dopo, come conseguenza del lavoro che avevo fatto fino a quel momento. A metà degli anni '80, infatti, vari sindaci con cui avevo collaborato negli anni precedenti avevano fatto carriera, entrando chi in un consiglio regionale, chi in Parlamento. Alla fine degli anni Settanta avevo conosciuto Giovanni Goria che, dopo i suoi inizi ad Asti, nella prima metà degli anni '80 aveva ottenuto incarichi sempre più importanti: ho iniziato a seguirlo nel 1986 e ho girato con lui in lungo e in largo fino al 1989. 
Dunque prima, durante e dopo il suo incarico di presidente del Consiglio.
Sì, in particolare sono stato direttore del suo progetto "Europa '92", il suo strumento di comunicazione che mettemmo in piedi subito dopo la fine della sua esperienza di governo e che lui utilizzò per la sua campagna elettorale alle europee del 1989. 
Materiali prodotti da Bianucci nell'ambito del progetto Europa '92
Quella campagna era iniziata sotto i peggiori auspici per lui: pensava che, come ex presidente del Consiglio, sarebbe stato messo al primo posto in lista nella circoscrizione Nord-Ovest, ma come capolista il partito guidato da Arnaldo Forlani impose quello di Mino Martinazzoli, allora capogruppo Dc alla Camera. A Gianni era stato tirato un trabocchetto incredibile dalla Dc: volevano mettere fuori gioco quel quarantacinquenne di successo prima rovinasse gli equilibri delle correnti. Lui accettò comunque la candidatura al secondo posto, trovandosi come terzo addirittura Roberto Formigoni, allora deputato alla prima legislatura. "Se non ce la facciamo, siamo fottuti": con questa nostra consapevolezza, Gianni e io ci impegnammo anima e corpo in una campagna porta a porta in tutta la circoscrizione; creammo perfino un house organ con il quale ci occupammo di rapporto Nord-Sud, ambiente, comunicazione pubblica, infrastrutture e modernizzazione. Credo che il 90% di quei materiali potrebbero essere considerati di estrema attualità ancora oggi.
Non male, ma anche poco consolante, visto che significa che non è cambiato praticamente nulla...
Già... in ogni caso mettemmo in piedi questo progetto e con noi lavoravano persone di altissimo livello, come Carlo Borgomeo, che ora è presidente della Fondazione Con il Sud e allora aveva già contributo alla nascita della legge n. 44 del 1986, per promuovere l'imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno. Si trattò dunque di un'operazione centrata sulla persona di Giovanni Goria e dette i suoi frutti: alle europee di quell'anno lui nella sua circoscrizione ottenne 640.824 preferenze, molte di più delle 466.217 ottenute dal capolista imposto Martinazzoli, battuto persino da Formigoni, anche se di poco più di 2mila preferenze. Soprattutto, però, i voti raccolti da Gianni erano stati molti di più dei 531.682 ricevuti da Giulio Andreotti nella circoscrizione Nord-Est, dei 429.130 ottenuti da Forlani nel Centro e dei 364.541 di Emilio Colombo al Sud. Un record assoluto, tanto più che nessuno era mai riuscito a battere Andreotti...
Beh, aveva di che essere soddisfatto, di fronte a quei numeri che parlavano chiaro.
E non fu l'unica soddisfazione, credimi. Devi sapere che, ancora prima che Gianni diventasse presidente del Consiglio, Emilio Giannelli - che, ben prima di approdare al Corriere della Sera, allora era uno dei vignettisti della Repubblica - aveva preso l'abitudine di ritrarlo con capelli, sopracciglia, baffi e barba, ma senza volto, occhi e bocca. Ormai quello era diventato un motivo ricorrente [al punto che quelle vignette qualcuno le ritagliava e le faceva avere al ministro, a volte persino rilegate a libro: il fondo Goria presso la sua fondazione conserva tutto questo, ndb] e quando Gianni divenne presidente del Consiglio, una volta mi scrisse "Devi venire a Roma e farmi rifare la faccia da Forattini", perché aveva scambiato Giannelli per Giorgio Forattini, che allora era il disegnatore di satira di punta sempre della Repubblica.
Dalla Repubblica del 21 giugno 1989, pagina 5
Dopo il risultato delle europee, Giannelli fece una vignetta con Goria che saltellava e finalmente aveva recuperato il suo volto, accanto a un Andreotti piuttosto piccolo che se ne andava scornato: accanto al primo c'era la scritta "Massimo", vicino al secondo si leggeva "Minimo". Ricordo che ritagliai la vignetta e la mandai a Gianni, scrivendo: "Missione compiuta. Adesso ti lascio, altrimenti divento il tuo portaborse!". 
Ed è stato così? Non hai più lavorato per lui?
Non ho più lavorato per lui, anche se in realtà abbiamo continuato a vederci con piacere; pochi anni dopo, purtroppo, Gianni si è ammalato ed è iniziata la tragedia. Nel frattempo, però, del lavoro che avevo fatto con Goria si era accorto anche Mariotto Segni, così un giorno mi contattò e mi chiese di incontrarci per espormi il suo problema: "Vede, Bianucci, io dovrei scrivere una lettera...". Io, che non capivo, ribattei: "Onorevole, scriviamo pure questa lettera, ma dov'è il problema?". E lui: "Che vorrei scrivere a un milione di persone, ma non ci sono soldi! Siamo poveri, eppure abbiamo tante idee e tanto seguito...".
Un ottimo inizio, non c'è che dire...
Già, ma io mi sono innamorato del progetto e del personaggio, così mi sono trasferito definitivamente a Roma per seguire a tempo pieno l'avventura referendaria.
Cosa ti ha fatto innamorare del personaggio?
Il fatto che si sentiva che Mario Segni, quello che diceva, lo pensava. Ricorda che io vivevo di pane e politica praticamente da sempre, ero piuttosto giovane ma ormai frequentavo l'ambiente da molti anni, per cui riconoscevo i politici immediatamente: ho capito che questo personaggio aveva in sé dei valori profetici, di cambiamento. Tieni presente che io ero tra i ragazzi che volevano cambiare il mondo e sono rimasto così anche ora, anche se sono un po' fuori età...
Pensi che, senza il lavoro fatto per Goria, avresti continuato a occuparti di comunicazione sociale, ma non di comunicazione politica in senso stretto?
In realtà non penso che sarebbe andata così: probabilmente sarebbero arrivate altre persone e altre occasioni, come in effetti è successo. Penso soprattutto al lavoro con Silvia Costa per il Partito popolare italiano, una sinergia perfetta che ha funzionato anche nelle condizioni più difficili, e abbiamo collaborato con tantissime persone...
Torniamo a Segni e alla sua lettera da mandare a un milione di italiani.
Quel primo incontro si colloca circa tra la fine del 1990 e l'inizio del 1991. Il 9 e il 10 giugno 1991, come ricorderai, si tenne il referendum che, abrogando parti della legge elettorale per la Camera, di fatto aveva ridotto a una sola le preferenze che si potevano esprimere.
Segni aveva depositato la richiesta un anno prima con Willer Bordon, Aldo De Matteo, Alberto Michelini, Augusto Barbera e Cesare San Mauro. La Corte costituzionale aveva ammesso solo quel quesito, non quelli condivisi coi radicali, volti a rendere maggioritarie le leggi elettorali per il Senato (eliminando anche le multicandidature) e per i comuni sopra i 5mila abitanti. 
Subito dopo la vittoria del 9 giugno
Esatto. Durante la campagna evitammo
 accuratamente di parlare di preferenze: scegliemmo invece slogan diretti e semplici contro la partitocrazia. Più di due elettori su tre andarono a votare e oltre il 95% di loro votò "Sì". Si cercò di capitalizzare subito il risultato ottenuto e si presentarono di nuovo le richieste per tenere i due referendum elettorali che la Corte aveva bocciato a febbraio, rivedendoli secondo le indicazioni contenute in quella sentenza. 
Vero: fu raccolto circa un milione e mezzo di firme, tre volte in più di quelle che erano necessarie. 
Di nuovo al lavoro verso il Patto
(in primo piano si vede Giuliano Bianucci)
A quel punto, visti i numeri che hai appena ricordato, era naturale guardare alle elezioni politiche, che si sarebbero comunque tenute nella primavera del 1992, per cercare di cogliere quell'opportunità di cambiamento che la gente offriva e allo stesso tempo chiedeva. Si costituì così il "Comitato 9 giugno", che aveva sede a Roma al numero 3 di largo del Nazareno, un minuto a piedi dall'attuale sede del Partito democratico. L'ufficio di presidenza era presieduto da Segni; con lui c'erano alcuni dei presentatori che hai citato, cioè Barbera, De Matteo e San Mauro, ma trovavi anche altri politici come Alfredo Biondi e Ottavio Lavaggi, futuri eletti come l'ex giornalista Rai Mauro Dutto, nonché figure di rilievo come Giulia Rodano, Mariella Gramaglia e Toni Muzi Falconi, segretario del comitato. C'erano poi tre garanti di pregio, il costituzionalista Paolo Barile, l'imprenditore Franco Morganti e lo storico Pietro Scoppola, già senatore indipendente per la Dc ma in seguito voce critica all'interno di quel mondo.
Il logo scelto per il Patto 
Di cosa erano garanti?
Di "un patto fra gli elettori e candidati appartenenti a diversi partiti", cioè chi si era impegnato per le battaglie referendarie nei mesi precedenti e aveva aderito al progetto del "Comitato 9 giugno": se ricordo bene, l'idea l'aveva lanciata Scoppola e poi si continuò a lavorare su quella. In sostanza, ognuno di quei candidati si presentava nella lista del suo partito, ma si era impegnato, in caso di elezione, a sostenere i referendum elettorali in ogni occasione, a promuovere in Parlamento una riforma elettorale che permettesse di eleggere le nuove Camere in prevalenza con il sistema maggioritario uninominale (e solo in parte minore con il sistema proporzionale), mentre per comuni, province e regioni avrebbero dovuto sostenere il sistema maggioritario con elezione diretta del sindaco o del presidente. In pratica, avrebbero dovuto condurre in Parlamento le stesse battaglie che il comitato stava portando avanti con i referendum, che si sarebbero comunque votati nel 1993: nel patto c'erano altri obiettivi, come la riduzione dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto e la formazione di "governi di legislatura legittimati dai cittadini". 
I candidati che avevano sottoscritto il patto e fossero diventati parlamentari avrebbero dovuto onorare tutti questi impegni, anche a costo di andare contro i rispettivi partiti o di non votare la fiducia al governo; i garanti servivano proprio a controllare che quel patto venisse rispettato.
Nacque lì, dunque, l'idea del Patto che in pratica ha accompagnato Segni per tutta la sua vita politica.
Esattamente. Per lanciare il comitato e intercettare il consenso nato intorno ai referendum, arrivando alle persone e invitandole a restare in contatto con il Comitato 9 giugno e a sostenerne l'attività con un contributo, preparai un'ottavina, cioè un opuscolo promozionale di otto pagine a colori. Lo intitolammo Un Patto per cambiare l'Italia e riuscimmo a farlo arrivare nelle edicole, pubblicizzandolo sui giornali, nei giorni che precedevano le elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992: ricordo che finì allegato persino ai due settimanali generalisti più diffusi, Panorama e L'Espresso
Pubblicità tratta da L'Unità, 4 aprile 1992
In quelle otto pagine gli elettori trovavano il contenuto del patto, le testimonianze grafiche e di cronaca della battaglia referendaria, ma soprattutto i nomi di tutti coloro che, alla Camera o al Senato, in ogni circoscrizione o collegio, avevano aderito: accanto a ognuno di loro c'era il partito che li candidava, ma lo slogan era per tutti "Usa la preferenza unica. Scegli nelle liste dei partiti i candidati del Patto". Era una campagna elettorale trasversale, per un partito che non c'era, come si diceva spesso a Samarcanda da Santoro, che però contava su oltre trecento candidati alla Camera e oltre cento al Senato, tra uomini e donne. 
Una campagna trasversale e transpartitica, insomma.
Sì, ma perché appunto contava l'adesione a quel progetto, a prescindere dal simbolo di partito sotto al quale ci si candidava. Per questo in copertina lanciammo un messaggio chiaro: "Ogni voto ai candidati del patto è un voto per l'Italia che cambia". Anche il logo blu che avevo elaborato per quell'occasione voleva esprimere quel concetto: ogni lettera della parola "Patto" era inserita in un settore di un emiciclo parlamentare stilizzato, per far intendere che i nostri candidati potevano collocarsi dove volevano nell'aula; allo stesso tempo, quasi ogni partito aveva candidati che avevano sottoscritto il Patto.
Ho provato a fare i conti. Di quel lunghissimo elenco furono eletti 122 deputati e 40 senatori, presentatisi soprattutto con il Pds e la Dc: davvero non male per un partito che non c'era. O forse un po' sì: tra i contrassegni depositati per le elezioni del 1992, dal 21 al 23 febbraio di quell'anno, ho ritrovato quello del Patto per la riforma, chiaramente antesignano di quello che avevi ideato per il materiale di propaganda del patto sulle riforme elettorali. Qualcuno aveva davvero avuto l'idea di candidarsi?

In realtà no, nessuno aveva intenzione di fare la lista. Alla fine si era deciso di depositare il simbolo semplicemente per mettere una bandierina sull'idea di "patto per la riforma", per dire che qualcuno era già arrivato lì, che eravamo stati i primi.



Un manifesto del referendum 1991;
in alto il simbolo del gruppo Giannini, 

in basso quello del gruppo Segni
Non va dimenticato che solo pochi giorni prima aveva preso forma il progetto di una Lista referendum guidata dall'amministrativista Massimo Severo Giannini (che nel 1991 era stato tra i fondatori del Comitato per la riforma democratica, presentatore dei referendum sulle nomine bancarie, sugli interventi straordinari nel Mezzogiorno, sull'abolizione del ministero delle partecipazioni statali), presentata col sostegno dei radicali. Non solo era un disegno che pescava quasi nello stesso bacino di elettori concorrente del progetto "trasversale" di Segni, ma il simbolo scelto schierava un enorme "Si" e  il riferimento al referendumsolo alcuni tra i promotori e sostenitori della consultazione del 1991 avevano aderito, per cui chi aveva sottoscritto il patto di Segni vide quella scelta come un'appropriazione indebita. 
Anche per questo, se non altro per rivendicare la primogenitura (e magari tentare una minima azione di disturbo), Segni fece presentare, oltre a quello del Patto per la riforma, il simbolo Italia del Sì - Riforma elettorale: nella semplicità del bianco e nero emergeva il "Si" centrale, riprendeva proprio l'elemento principale dei manifesti dell'anno prima, mentre le altre scritte utilizzavano lo stesso carattere del futuro Patto, cioè un Futura ExtraBold. Il simbolo fu depositato anche come marchio proprio dalla M&C di Bianucci (l'originale in effetti era blu, giusto un po' più chiaro dell'emiciclo poi usato per il Patto). ma al ministero dell'interno venne presentato dopo quello di Giannini: i suoi rappresentanti erano in fila da giorni davanti al Viminale, visto che in caso di simboli simili nuovi vale la regola "chi prima arriva, meglio alloggia". L'emblema di Segni, dunque, fu bocciato, ma tutti i giornali di allora parlarono della "disfida del Si".

Giuliano, mi dicevi che ti eri innamorato della figura di Segni perché lui credeva in quello che diceva. Sbaglio se dico che in quel periodo, in cui tutto stava per andare o iniziava ad andare a catafascio, non era una cosa frequente o facile?
Devi tenere conto che in quel periodo, dopo che il muro di Berlino era crollato, la gente aveva davvero le scatole piene della politica; c'erano fortissimi fermenti "rivoluzionari", se mi lasci passare questa parola. C'era quindi un sentiment estremamente diffuso, in gran parte e in un primo tempo intercettato dalla Lega Nord di allora. Credo che l'avvento di Mario Segni abbia impedito al populismo di vincere in modo istituzionale: senza di lui penso che Bossi avrebbe avuto la strada spianata. Il voto ormai era in libertà: dopo il crollo del muro, si erano sgretolati anche il "fattore K" e la paura per i comunisti, quindi ciascuno a quel punto si sentiva libero di votare come meglio credeva, come hanno dimostrato le variazioni macroscopiche delle percentuali di voto ai partiti, sconvolgimenti avvenuti nel giro di poche settimane o pochi mesi.
Mi sembra interessante la lettura che dai sul ruolo di Segni in quel periodo, ma possiamo dire che non ha avuto molta fortuna, considerando com'era partito e il seguito che aveva avuto in quel periodo. Cos'è successo, secondo te?
Beh, innanzitutto possiamo dire che il movimento referendario in realtà era fragilissimo e la cosiddetta "società civile" in realtà non esisteva. Cioè, esistevano i fermenti tra la gente, i soldi che avevamo raccolto li avevamo ricevuti dalle persone che, con le cartoline distribuite con L'Espresso, ci mandavano i pochi risparmi che avevano; i famosi stakeholder, invece, non c'erano. Eravamo popolari, ma non c'era una struttura - al di là della mia M&C - e senza si fa fatica a costruire qualcosa di concreto e stabile. Pensare che il consenso, che c'era, potesse trasformarsi automaticamente in voti era stata un'illusione e ce ne accorgemmo con chiarezza quando si fece il Patto Segni.
Ne parliamo tra poco, ma prima dobbiamo passare attraverso il 
Movimento Popolari per la riforma, che in qualche modo dette un seguito all'esperienza elettorale del 1992.
Dopo le elezioni creammo una testata di cui ero direttore, L'Italia del 9 giugno, di fatto house organ del comitato: come ti dicevo, c'era da conservare la mobilitazione nata con il referendum del 1991, anche perché le firme erano già state raccolte, ma il giudizio della Corte costituzionale sull'ammissibilità sarebbe arrivato soltanto all'inizio del 1993. 
Alla fine di luglio lanciammo il primo appuntamento importante, che si sarebbe tenuto il 10 ottobre 1992 al Palaeur di Roma. Lì - davanti a 12mila persone convenute tutte lì, un risultato mai visto prima - sono nati effettivamente i Popolari per la riforma: da lì si doveva cominciare a costruire qualcosa di nuovo, in un momento in cui tra l'altro Mario era ancora formalmente parte della Democrazia cristiana. Se ne sarebbe andato alla fine di marzo del 1993, meno di un mese prima che si tenessero i referendum del 18 e 19 aprile. 

Quella volta andò a votare circa il 77% e il quesito per rendere maggioritaria l'elezione del Senato vide prevalere il Sì con quasi l'83%: fu un ennesimo segno della voglia di cambiamento che c'era tra la gente, si voleva davvero girare pagina, anche perché nel frattempo era iniziata "Mani pulite" e l'insofferenza e la rabbia verso la politica di cui parlavi prima erano di certo aumentate.
 

In teoria dovevamo avere il vento in poppa ma, come ti ho detto, non avevamo una vera struttura. Dico "avevamo" perché io, più che un semplice "comunicatore", facevo parte del gruppo di testa del Movimento. C'era Giuseppe Bicocchi, che purtroppo è morto da oltre dieci anni, c'era Diego Masi, c'era Massimo Fantola in Sardegna e pochi altri. Bene, un bel giorno, verso l'inizio del 1994, ricordo che Mario Segni andò a trovare Silvio Berlusconi a Porto Rotondo, con Bartolo Ciccardini; la sera tornò, ci trovò a casa sua, come ci aveva chiesto e ci comunicò che avrebbe costituito il Patto
Di "Patti" in effetti in quelle settimane se ne fecero due. Uno era il Patto di rinascita nazionale, per tutti appunto il Patto Segni, visto che sul simbolo si leggeva proprio quello: si trattava del secondo cognome in assoluto a comparire sulle schede elettorali, dopo quello di Marco Pannella. 
I colori del simbolo, come è facile vedere, sono praticamente gli stessi che avevamo scelto per i Popolari per la riforma: il blu per il fondo e il tricolore come elemento di richiamo nazionale. In più, il tricolore posto ad arco richiamava in qualche modo anche l'emiciclo che avevamo usato come emblema del patto per la riforma elettorale maggioritaria, stavolta tingendolo dei colori nazionali....
L'altro "Patto", invece, era il Patto per l'Italia, che nei collegi uninominali di Camera e Senato rappresentava la coalizione costruita soprattutto con il Partito popolare italiano, assieme ad altre forze minori (
il Partito repubblicano italiano e l'Unione liberaldemocratica di Valerio Zanone) e con l'adesione di singole persone.
Lì c'era ancora il tricolore, ma era costituito da tre striscette inizialmente separate che poi si intrecciavano e formavano la banda con i colori della bandiera, che si infilava sotto al profilo dell'Italia azzurra, il tutto su fondo blu Europa. Non era un caso che il tricolore fosse stato reso in quel modo: volevamo rendere l'idea delle tre componenti che si erano unite nel patto, quella repubblicana, quella popolare e liberaldemocratica e le sensibilità più vicine al mondo socialista, visto che come ricorderai si era unito al Patto anche Giuliano Amato. Qui la parola "Patto" riacquistava un'importanza centrale, resa in maiuscolo e nello stesso carattere che avevamo usato nel 1992.
Tieni presente però che già nell'autunno del 1993 [il 29 settembre i Popolari per la riforma avevano abbandonato Alleanza democratica, ndb] io e Diego Masi avevamo confezionato una pubblicazione "operativa" nell'ambito dei Popolari per la riforma, in vista delle elezioni amministrative previste per novembre. Quella era la seconda volta che si votava per eleggere direttamente il sindaco e il presidente della provincia; in quel turno erano interessati comuni di primo piano, come Roma, Venezia, Genova, Napoli e Palermo. Era dunque importante spiegare ai potenziali candidati come affrontare al meglio la campagna elettorale, specie per chi non lo aveva mai fatto o aveva poca dimestichezza con quelle circostanze: così delle "regole per la gestione delle elezioni" si occupò Diego Masi, mentre io in
 quella pubblicazione volli inserire alcuni "Suggerimenti per la comunicazione", nel tentativo di evitare il più possibile errori legati alle iniziative di ciascun candidato o ciascun gruppo. 
In quella sezione avevo inserito alcune simulazioni dei contrassegni elettorali che si potevano presentare, suggerendo anche alcune alternative al concetto di patto (proponendo "Alleanza per" o "Insieme per") e indicando persino il carattere da utilizzare (Franklin Gothic Heavy corsivo): almeno uno di quegli emblemi, il Patto per La Spezia, fu effettivamente utilizzato alle elezioni del 21 e 22 novembre. Quei simboli, in ogni caso, avevano già la struttura che avrebbe avuto il Patto per l'Italia, con il tricolore che si formava dalle tre strisce inizialmente separate; a sua volta, l'idea della striscia tricolore orizzontale viene direttamente dal logo dei Popolari per la riforma. 
Anzi, volendo andare ancora più indietro, il primo Patto comparso alle amministrative e riconducibile al nostro progetto risaliva a qualche mese prima: alle comunali di Milano tenutesi il 6 e 7 giugno, infatti, tra i candidati sindaci c'era Adriano Teso, figura molto impegnata nel mondo imprenditoriale. L'unica lista che aveva presentato a proprio sostegno si chiamava Patto con Milano, ovviamente a fondo blu: si leggevano bene tanto la parola chiave, quanto il riferimento alla città, richiamata anche da un dettaglio del biscione, peraltro qui accompagnato a un tocco tricolore e alle stelle d'Europa. Per non lasciare dubbi sulla posizione di Teso, sul suo materiale elettorale si poteva leggere la dicitura "Con noi c'è Mario Segni".   
Insomma l'idea del Patto e la sua grafica in realtà erano nate ben prima che, il 5 gennaio 1994, venisse presentato ufficialmente il simbolo del rassemblement che avrebbe dovuto portare Segni a Palazzo Chigi.
Esatto, il lavoro grafico era già partito e lo trasferimmo "armi e bagagli" nel Patto per l'Italia, dunque l'idea del Patto ampliata a tutto il territorio nazionale. Tornando al Patto Segni e all'operazione elettorale che si fece allora, fu una fine abbastanza misera, ma di un'esperienza che a suo modo era stata grandiosa. Parlo di fine misera soprattutto se consideri che il Patto per l'Italia vinse in pochissimi collegi uninominali, mentre il Patto Segni riuscì con fatica a superare la soglia del 4% dei voti alla Camera ed elesse tredici deputati in tutto. Tempo qualche giorno e quattro di loro passarono con Berlusconi, a partire dal futuro ministro delle finanze Giulio Tremonti, ma c'erano anche Alberto Michelini, Ernesto Stajano e Giuseppe Siciliani: di fatto, avevamo portato acqua al mulino del grande manovratore... 

L'esperienza politica del Patto Segni, di fatto, conobbe una sonora battuta d'arresto dopo le elezioni politiche del 1994, anche se meno di tre mesi dopo la lista partecipò comunque alle elezioni europee con lo stesso simbolo - si aggiunse solo l'indicazione "Liberaldemocratici", per sottolineare l'adesione al Partito europeo dei liberali, democratici e riformatori (Eldr) 
- e riuscì a ottenere tre eletti; la percentuale, in compenso, era calata al 3,26% e non era facile parlare di successo. Bianucci non ruppe i rapporti con Segni (come si vedrà), ma da alcuni mesi aveva già iniziato a collaborare con il Partito popolare italiano; anzi, all'inizio era ancora la Democrazia cristiana che stava per compiere il suo passaggio - nel modo sbagliato, ma questa è un'altra, lunga storia, ben nota a chi segue questo sito - da Dc a Ppi. Fu l'inizio di un'avventura comunicativa molto interessante e stimolante, nemmeno lui forse immaginava quanto.   

Giuliano, alle elezioni politiche del 1994 tu avevi già iniziato a lavorare anche per la Democrazia cristiana che si era appena trasformata in Partito popolare italiano. Com'è iniziata quella collaborazione? 
Silvia Costa
Considera che, dopo la manifestazione del Palaeur, ero rimasto comunque la figura perno della comunicazione per Segni, visto che quella era come una famiglia; ma contemporaneamente avevo iniziato anche a lavorare con la Dc che stava per diventare Ppi. Tutto è successo in modo piuttosto naturale: capitava spesso che Segni chiedesse di scrivere a qualcuno dei leader democristiani per comunicare alcune cose; portando il messaggio al destinatario poteva succedere che mi si chiedesse di rispondere direttamente a Mario, in pratica mi scrivevo e mi rispondevo da solo. Allora facevo un po' da cabina di regia di tutti, anche con Giorgio La Malfa o con Valerio Zanone c'era un rapporto analogo: era un gruppo di lavoro molto corretto, con identiche sensibilità e gli stessi punti di vista. Silvia Costa è stata, oltre che fondamentale per me, la figura chiave di questo passaggio 
per la Dc-Ppi: tutti sapevano, in piena trasparenza, che in quel periodo lavoravo su più fronti.  
Una delle prime questioni di cui ti sei occupato, se non sbaglio, riguardava proprio l'adattamento del simbolo, anche se alla fine l'unico vero cambiamento - rispetto alla grafica elaborata dall'agenzia milanese Brandani e Guastalla nel 1992 - riguardò il nome. Ti risulta che qualcuno volesse cambiare altro, sul piano grafico?
No, non mi risulta, ma di quel periodo di avvicinamento alle elezioni ricordo soprattutto l'intenzione saldissima di Mino Martinazzoli sul cambio del nome. Un'idea che, tra l'altro, fu in gran parte imposta da Mario Segni: lui sosteneva con convinzione che, per proporre il Patto per l'Italia, occorreva dare un taglio netto con la Democrazia cristiana. Anche Martinazzoli voleva voltare pagina senza abbandonare il patrimonio ideale portato avanti fino a quel momento, così si arrivò al cambio di nome. Quel simbolo nuovo venne schierato per le elezioni politiche del 27 e 28 marzo del 1994 e lo utilizzammo subito dopo anche per le europee del 12 giugno. Sui manifesti di quella campagna elettorale come committente responsabile figura Alessandro Duce.
Già, il primo tesoriere del Partito popolare italiano, dopo essere diventato segretario amministrativo della Dc un attimo prima che si compisse il cambio di nome in Ppi. Meno di un anno dopo, al momento dello scontro tra Buttiglione e Bianco, si sarebbe schierato con il primo. Ma di quei giorni parleremo dopo. Com'è stato lavorare con quel Partito popolare, in sostanza all'inizio della Seconda Repubblica?
Io sento soprattutto di essere stato il compagno di viaggio delle persone con cui ho lavorato, non il grafico che realizzava qualcosa per conto di qualcuno. E quando si viaggia, ci sono gli spazi per osare. Penso per esempio alla campagna elettorale per le europee del 1994 di cui ti dicevo prima, un periodo in cui Berlusconi e le sue tv facevano quello che volevano: dal Garante per la radiodiffusione e l'editoria non arrivava alcun provvedimento, così reagimmo a modo nostro. Già al Popolo, allora diretto da Sergio Mattarella, si era sparato alto: il 26 maggio nell'ultima pagina, adibita a "controcopertina" si era messa la foto dell'allora garante, Giuseppe Santaniello, con l'invito al lettore "Garantisciti da solo"; tempo qualche ora e Santaniello minacciò un'azione legale, così il messaggio rimase, ma al posto della sua foto si mise quella di un cane da guardia addormentato. Quelle pagine con la foto del Garante, in compenso, le usammo per tappezzare la parete per una conferenza stampa che tenemmo il 9 giugno, tre giorni prima del voto: avevamo chiamato l'evento "Il Garante è uomo di Fede" e, tra l'altro, avevamo montato un filmato intitolato Silvio dalla A alla Z, che costruiva una "carrellata alfabetica berlusconiana" basata proprio su una sua pubblicazione di propaganda, intervallata dall'inevitabile "Minchia, signor tenente" di Giorgio Faletti. Quel giorno Fede aveva mandato addirittura tre troupes per riprendere quell'evento... anche questo succedeva in quel Partito popolare.
Pagine tratte dalla Stampa (12 e 24 marzo 1995)
Tempo qualche settimana e sarebbe diventato segretario Rocco Buttiglione, che a marzo dell'anno successivo sarebbe stato protagonista di una delle vicende partitiche più convulse e dolorose che la politica italiana ricordi: una frattura totale tra i fedeli alla linea del segretario, rimasto in minoranza ma deciso a non dimettersi, e coloro che la avversavano tenacemente, con colpi di scena e attacchi reciproci continui. 
Ricordo in quei giorni un clima da "caccia all'uomo" all'interno di Palazzo Cenci Bolognetti di Piazza del Gesù: succedeva sempre qualcosa, una situazione continuamente in movimento. Il gruppo che contrastava Buttiglione era chiuso al primo piano e di continuo arrivava gente, ora per darci sostegno, come Franco Marini, ora per infastidire e provocare, come Formigoni che scendeva dal terzo piano dove stava il gruppo di Rocco Buttiglione. 
Ricostruiamo quei dodici giorni di follia. L'8 marzo 1995 il segretario Rocco Buttiglione annunciò l'accordo del Ppi col centrodestra per le regionali del 23 aprile, ma sei giorni prima il partito aveva escluso accordi con An. L'11 marzo il Consiglio nazionale con tre voti di scarto bocciò la linea del segretario, su cui Buttiglione aveva posto la fiducia. Il giorno dopo lui ci ripensò: non si dimise e contestò il voto. il 16 marzo gli avversari di Buttiglione elessero come segretario Gerardo Bianco e il 18 marzo si rivolsero al tribunale di Roma per avere l'uso del simbolo. La mattina del 23 marzo il giudice Luigi Macioce decise: Buttiglione non poteva attuare la sua linea politica, battuta all'interno del partito, ma era ancora segretario e continuava a disporre del simbolo. Era come se ci fossero due partiti in uno e quello che non seguiva Buttiglione aveva bisogno di un nuovo emblema: com'è nato?  
In effetti nessuno voleva rinunciare completamente allo scudo, che era stato mantenuto persino quando si era deciso di lasciare da parte il nome della Democrazia cristiana; di certo, però, il simbolo doveva cambiare e anche lo scudo, almeno in parte. La genesi del nuovo simbolo fu interamente gestita da Silvia Costa per il partito e da me. Siamo partiti dall'idea dello scudo crociato e dal nome che ci si era dati un anno prima, quindi dalla natura di popolari, e ci siamo chiesti cosa avrebbe potuto rappresentare in modo laico quei concetti: è stato inevitabile pensare alla municipalità, cardine e monade della democrazia territoriale. Lo scudo certamente era simbolo della municipalità: immaginandolo vuoto, senza croce, di fatto rappresentava il bordo di uno stemma comunale, da riempire coi segni del territorio. Un altro segno classico dei comuni italiani era però il gonfalone e questo, immaginato bianco, era perfetto per potervi inserire lo scudo. Avevamo trovato due simboli che evocavano la stessa idea e, abbinandoli, di fatto avevamo creato qualcosa di nuovo in politica. Avevamo fatto anche altri ragionamenti, ma questa strada dello scudo vuoto nel gonfalone piacque a tutti e alla fine seguimmo quella. 
Tieni conto, poi, che non c'era solo da costruire il simbolo, ma anche la descrizione: dovevamo assolutamente evitare rischi di bocciature del contrassegno, ma questo conteneva pur sempre uno scudo e il rischio di un diniego c'era. Per questo, ricordo che nella descrizione evitammo di parlare di scudo, riferendoci piuttosto a uno "stemma araldico"...
Tempo fa, in effetti, Silvia Costa mi disse che Guido Bodrato, suo interlocutore politico, aveva chiesto proprio un simbolo non contestabile in sede elettorale, ma che mantenesse traccia dello scudo per essere riconoscibile; in quella sede, un vecchio militante esperto di questioni elettorali e che aveva familiarità col Viminale aveva segnalato che nella descrizione del simbolo non si sarebbe dovuto dire "campeggia uno scudo", ma avrebbe dovuto campeggiare qualcos'altro, appunto il gonfalone.
In ogni caso, problemi con quel contrassegno non ce ne furono.  
La prima volta in cui ho visto il nuovo simbolo comparire su un quotidiano è stato il 24 marzo, nelle pagine torinesi della Stampa: lì si dice che il "contro-logo della sinistra" - tra l'altro si parla di gagliardetto e non di gonfalone - era arrivato nella sede di via Carlo Alberto a Torino alle 19 e 30 "direttamente da Roma", portato da un assistente di Gianfranco Morgando, segretario regionale vicino a Bianco. Il fatto che poche ore dopo la decisione del tribunale di Roma il simbolo fosse pronto per la distribuzione mi fa pensare che non si fosse aspettata l'ordinanza del giudice per correre ai ripari.
In effetti no. Io e Silvia Costa pensavamo a tenere le redini della comunicazione anche in quei momenti così difficili e ci occupavamo anche della creazione del simbolo, procedendo per aggiustamenti successivi a colpi di fax tra gli uffici di piazza del Gesù che erano stati occupati e il mio studio di Milano di allora, dove il mio socio Mauro Del Corpo coi grafici preparava i materiali. 
Il clima in ogni caso era piuttosto caldo e produttivo, con punte di creatività notevole. Penso soprattutto a un adesivo che avevo fatto con i Giovani Popolari guidati allora da Francesco Sanna, tra l'altro divertendoci molto. C'era un verme/biscia con le sopracciglia che aveva in bocca un sigaro toscano [chiara stilizzazione di Buttiglione, ndb] e sopra avevamo scritto 
"Da Striscia la notizia a striscia in via dell'Anima": avevamo citato quell'episodio della fine del 1994 in cui il programma di Antonio Ricci aveva mostrato le immagini di Buttiglione colto mentre proponeva ad Antonio Tajani un'alleanza Ppi-Forza Italia e lo avevamo messo in connessione con gli eventi del 1995, dicendo senza mezzi termini che Buttiglione alleandosi col centrodestra era andato strisciando da Berlusconi, che allora abitava in via dell'Anima. Il messaggio, che indicammo con chiarezza sotto l'immagine, era che "i veri popolari non strisciano". Ricordo che distribuimmo quell'adesivo in un milione di copie ed ebbe una diffusione virale per quel periodo.
Ironia a parte, ovviamente in quella campagna una delle necessità più impellenti era riuscire a far riconoscere il simbolo a tutte le persone che fino a quel momento avevano votato per la Democrazia cristiana e, dal 1994, per il Partito popolare italiano.
In effetti non era una cosa scontata: nel nuovo emblema c'era la parola "Popolari", ma la usava anche Buttiglione nel suo simbolo combinato con Forza Italia ("il Polo popolare"); c'era soprattutto lo scudo, ma il bordo era piuttosto esile e soprattutto era senza la croce.
Dovevamo quindi trovare il modo di restituire la croce al simbolo che non poteva averla. Ci furono lunghi confronti tra Silvia Costa e me, finché parlando pensammo di utilizzare come slogan "Lo scudo c'è. La croce aggiungila tu": era un'idea forte, che anche Bianco apprezzò molto, perché puntava direttamente a coinvolgere l'elettore, che con il suo semplice gesto del voto poteva ricostruire il disegno che noi per sicurezza avevamo preferito non riproporre. Possiamo dire che il messaggio passò, perché riuscimmo a prendere quasi ovunque almeno il 6%, persino correndo da soli, e a volte andammo anche oltre il 10%.
C'era poi tutta un'immagine da costruire, una comunicazione nuova per il partito che naturalmente aveva 
una sua proposta politica e, soprattutto, un suo retroterra e una sua storia, ma bisognava cercare di riprenderli il più possibile. Ad esempio, decidemmo di scrivere nei manifesti "Liberi e forti" sopra al simbolo e "Popolari" sotto, così da collegarci direttamente al patrimonio ideale del Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo.
Una strategia comunicativa simile, del resto, fu utilizzata anche a livello locale. In Piemonte, per esempio, i popolari legati alla segreteria di Gerardo Bianco, guidati da Gianfranco Morgando, avevano prodotto un manifesto con lo slogan "Cambiamo simbolo per non cambiare idea", per chiarire che la trasformazione di quei popolari era solo grafica, non anche politica. Quel manifesto, tra l'altro, figura ancora all'interno del locale che era stato sede del Ppi a Moncalieri e tuttora ospita l'Associazione i Popolari - collegio 12 che dal 2006 ha registrato il simbolo del gonfalone come marchio.
Naturalmente quella storia politica e popolare doveva rivivere anche cercando di recuperare l'idea della croce almeno nelle nostre grafiche. Non a caso, tra il materiale di allora che ho ritrovato, ci sono anche vari schizzi con i quali avevo cercato di far rientrare la croce in qualche modo, cercandola di metterla in dialogo con il nuovo simbolo che avevamo dovuto escogitare.  
In quella prima campagna con il gonfalone ci eravamo persino inventati uno stratagemma carino, legato alla pratica diffusa già allora di affiggere i manifesti elettorali, oltre che nei posti più impensati, fuori dalle plance attribuite a ciascuna lista: noi avevamo prodotto delle strisce simili a quelle - solitamente gialle - che sono affisse dai comuni per contrassegnare le affissioni abusive e le attaccavamo sui manifesti che erano stati messi dove non dovevano stare. Nelle nostre strisce avevamo inserito espressamente il riferimento alla par condicio, di cui allora si parlava molto, e il simbolo del Ppi: in pratica, un'affissione abusiva su un'altra affissione abusiva... 
La mancanza della croce, però, era pesante e, dopo qualche settimana, riapparve nello scudo, sia pure sfumata: non a caso, nell'accordo del 14 luglio 1995 formalizzò il "patto di Cannes" del 24 giugno tra Buttiglione e Bianco, si sottolinea che il gruppo legato a Bianco avrebbe potuto usare il simbolo col gonfalone senza poterlo modificare neanche "nella intensità delle singole parti cromatiche ivi comprese le attuali sfumature". Nel 1996 ci fu qualche altro cambiamento: apparvero una sorta di ombra/spessore tricolore dello scudo e il nome nella parte inferiore del cerchio, coprendo un po' il gonfalone. 
L'ultimo aggiustamento del simbolo è datato 1999, poco prima delle elezioni europee. Non c'era più il tricolore dello scudo, mentre il nome era finito in alto, "ritagliando" il gonfalone privato dell'ombra esterna (ombra che invece era comparsa sotto al nome), mentre un fascio di luce sembrava colpire proprio lo scudo.
Sì, la successione è stata proprio questa. Per quell'ultima versione del marchio, tra l'altro, avevo anche preparato un manuale per la sua corretta declinazione del nuovo emblema, immaginando i vari usi che se ne sarebbero potuti fare nel corso della vita del partito, nei manifesti con i vari slogan e in tante altre occasioni... 
Nel 2002, in ogni caso, l'esperienza politica del Ppi si è conclusa (quando il partito è confluito nella Margherita). La tua attività però è continuata: come?
Quello che avevo fatto nel corso degli anni precedenti mi aveva imposto, concretamente, come il primo comunicatore politico, nel senso che prima - se togli i casi di alcune figure alla Filippo Panseca o di certi consulenti di alcuni segretari di partito - la comunicazione politica non era un mestiere; la mia idea, in realtà, non era tanto di qualificarla come "mestiere", ma come modello di comunicazione continua, che andasse oltre il semplice dialogo con gli elettori. Di fatto avevo già iniziato a lavorare così con Goria e ho continuato, seguendo moltissime campagne elettorali (ho superato di parecchio il centinaio), in consultazioni di vario livello e proponendo ogni volta modelli ad hoc, tenendo la barra dell'innovazione.  
A un certo punto, nel 2005, la mia agenzia M&C ha deciso di impegnarsi sistematicamente - oltre che in altri settori, a partire dalla comunicazione sociale, pubblica e istituzionale - nel lavoro della comunicazione politica, in partnership con la società Hill&Knowlton: in particolare, abbiamo portato e portiamo avanti l'idea di una campagna elettorale come organizzazione e formazione, più che come slogan. Rimarcavamo quindi l'esigenza di darsi una struttura per la campagna, di pensare e studiare una comunicazione mirata per i vari segmenti dell'elettorato; si affrontava il tema delle risorse da reperire e da non disperdere e si guardava anche al "dopo elezioni", con uno sguardo necessariamente complessivo. 
In tutto questo, peraltro, hai continuato anche a seguire l'esperienza politica legata a Mariotto Segni.
Proprio così. A livello nazionale nel 1999 il Patto Segni propose nuovamente candidature [nel 1995 concorse alle regionali con Socialisti italiani e Alleanza democratica nel Patto dei democratici, mentre nel 1996 alcuni "pattisti" erano stati candidati nei collegi uninominali per il centrosinistra e nella quota proporzionale nelle liste di Rinnovamento italiano, ndb], puntando alle europee previste un paio di mesi dopo un nuovo referendum volto a eliminare la quota proporzionale dalla legge elettorale, quesito di cui Segni l'anno prima era stato tra i presentatori. Il quorum fu mancato per un soffio, ma tra gli italiani che si erano recati alle urne il "Sì" aveva vinto in misura schiacciante e con quello spirito si affrontò la campagna elettorale. 
Quella campagna fu fatta insieme a parte dei referendari [come Marco Taradash, ndb] e ad Alleanza nazionale, in quel momento interessata a un percorso distinto rispetto a quello berlusconiano: l'idea di tutti questi soggetti era di proporre un progetto liberaldemocratico e riformatore alternativo al centrosinistra. In più, visto che Romano Prodi aveva lanciato insieme a Di Pietro [altro sostenitore del referendum di aprile, ndb] i Democratici con l'asinello, Segni scelse di puntare sull'Elefantino e realizzammo il simbolo che conteneva tutto questo. L'esito elettorale di quell'alleanza però non fu felice e l'esperimento politico nel giro di qualche settimana fu abbandonato.
Poi tornò il tempo del Patto, sia pure in forma aggiornata: quella del Patto - Partito dei liberaldemocratici, nato nel 2003.
Esatto: fu, se vogliamo, un tentativo di riedizione dell'esperienza dell'inizio degli anni '90 e del suo sbocco elettorale del 1994: da allora riprendemmo il nucleo del nome messo in evidenza nel simbolo, il blu come colore di fondo, che continuava a richiamare l'Europa (anche grazie alle stelle che avevamo aggiunto) e l'area moderata, nonché il tricolore, stavolta interpretato come i conci di un arco. L'idea era la stessa del progetto precedente, cioè costruire un soggetto politico liberaldemocratico, alternativo alla sinistra ma distinto da Forza Italia. Anche quel tentativo si può considerare abbastanza abortito: del resto, l'appeal tanto di Segni quanto di Scognamiglio si era ormai ridotto di parecchio. 
Nel frattempo, però, era iniziata (nel 1999) l'avventura dei Riformatori sardi, oggettivamente più fortunata sul piano dei risultati, visto che nelle ultime legislature ha sempre ottenuto consiglieri regionali. Dal punto di vista cromatico appare decisamente imparentata con quella di Segni, anzi, sembra essere stata la base grafica dell'ultimo Patto.
Lì la figura di riferimento era ed è Massimo Fantola, che aveva partecipato ai primi comitati referendari, ai Popolari per la riforma e al Patto. Devo dire che qui ho avuto un ruolo minore: nei primi tempi ho preparato loro alcuni materiali, soprattutto per il loro sito, poi hanno imparato da soli e li ho lasciati andare avanti.
Mi sembra di capire che, dopo il Ppi e al di là delle esperienze con Segni, tu non abbia più avuto un ruolo di responsabilità completa della comunicazione di un partito. È così?
Esperienze analoghe a quelle che hai citato non ne ho avute in seguito. Ti segnalo però l'esperienza che ho avuto con Scelta civica nel 2013, in vista delle elezioni politiche. Se della campagna nazionale si occupavano altre persone, io ho seguito la campagna per la Lombardia e la Toscana: in quell'occasione ci siamo comportati come se fossimo un partito nel partito, preparando anche qui il manuale per i vari candidati. Partendo dal simbolo concepito per la lista [realizzato da Proforma, ndb], abbiamo costruito un'immagine coordinata, ma - coerentemente con quanto fatto in passato - abbiamo accompagnato i candidati in tutti i passaggi del loro percorso, preparandoli anche al rapporto con i media e agli interventi in pubblico; abbiamo dato loro supporto anche per i tanti adempimenti richiesti in una campagna elettorale, di cui spesso chi si presenta non è del tutto consapevole.
Oggi com'è il tuo modo di fare comunicazione politica ed elettorale?
Rimango fedele all'idea che il valore sia dato soprattutto dai contenuti e che sia necessario metterli al centro anche quando si comunica in ambito politico. Troppo spesso i social sono diventati forme di solipsismo che incitano a fare qualcosa, ma non costruiscono: non si parla dunque di contenuti. Penso che sia invece giusto e più produttivo continuare a cercare strade diverse, anche e soprattutto in territori - come la Toscana - che dopo molti anni appaiono politicamente contendibili. C'è bisogno di strumenti che, anche sulla Rete, raccontino e magari costruiscano comunità di territorio che possano andare oltre i partiti: in quel modo si possono creare luoghi pre-politici e immateriali che consentano comunque l'aggregazione di interessi e di valori. Di questo, per la mia esperienza, c'è bisogno davvero e su questo continuo a impegnarmi. In generale, credo che sia urgente una rivoluzione comportamentale nei modelli di comunicazione: occorre che partiti e candidati escano quanto prima dalla bolla di illusione dei social network e riprendano a dare peso ai contenuti, a investire in questo, perché solo così si potrà costruire realmente qualcosa di solido. 


Il primo ringraziamento, dovuto e ovvio (ma non per questo da tralasciare) va a Giuliano Bianucci, per il tempo che ha dedicato alla ricostruzione della sua esperienza e dei suoi vari passaggi per il pubblico - occasionale o affezionato - di questo sito (e ringrazio Silvia Costa e Roberto Di Giovan Paolo per avermi messo in contatto con lui). Molti materiali visuali contenuti in questo articolo sono stati forniti dallo stesso Bianucci e gliene sono molto grato. Desidero in più ringraziare Antonio Tolone e la Biblioteca dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna (per aver cercato con pazienza la vignetta di Giannelli su Goria e Andreotti), Adriano Teso (per avermi inviato il simbolo del Patto con Milano), Giancarlo Chiapello e tutti i componenti dell'associazione I Popolari - Collegio 12 di Moncalieri (che hanno fornito l'immagine del loro manifesto, ricostruito per l'occasione), nonché Loredana Vivolo e Gennaro Salzano (per avermi permesso di recuperare l'immagine dell'adesivo "Da 'Striscia la notizia'...").

2 commenti:

  1. Grazie Gabriele per l'ottima ricostruzione che hai fatto di un periodo entusiamante della storia recente d'Italia. Siamo ancora i ragazzi che volevano cambiare il mondo (un po' invecchiati)

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    1. Grazie per il tempo, il racconto e i tanti spunti che sono emersi dalla conversazione. Davvero, è stato un piacere.

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