venerdì 19 febbraio 2021

Ritorno alla Corte: a rischio il pasticcio di firme, esenzioni e simboli

Ai tempi del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari si è parlato molto - oltre che dei "correttivi" costituzionali per mitigare le storture legate alla riduzione - degli interventi sulla legge elettorale, magari da rivedere in senso proporzionale per evitare che le nuove Camere siano poco rappresentative. Da settimane però sulla legge elettorale è calato il silenzio, anche se 
sono spirati venti di elezioni. Se si votasse ora si applicherebbe il Rosatum-bis, modificato dalla legge n. 51/2019 per rendere il sistema del 2017 applicabile al Parlamento a ranghi ridotti (si sono definiti i nuovi collegi per distribuire 3/8 dei seggi nei collegi uninominali e 5/8 in quelli plurinominali); finora molte forze politiche avevano chiesto di cambiare le regole, ma ora - uscito di scena il governo Conte-bis e arrivato Mario Draghi a Palazzo Chigi - c'è chi dubita che l'attuale Parlamento si occuperà delle riforme costituzionali e metterà mano alla legge elettorale.
Su quest'ultima, però, non è da escludere che le Camere siano costrette a intervenire presto: martedì 23 febbraio, infatti, la Corte costituzionale dovrà esprimersi per la prima volta sull'incostituzionalità di un paio di punti della legge elettorale vigente, relativi al procedimento preparatorio ma molto rilevanti per determinare il quadro di candidature offerto agli elettori. Il giudizio nasce da un'ordinanza - l'atto di promovimento n. 157/2020 - emessa il 1° settembre 2020 dalla seconda sezione civile del Tribunale di Roma (nella persona della giudice Carmen Bifano) ma sfuggita all'attenzione dei più: all'origine c'era un ricorso presentato il 7 novembre 2019 da Riccardo Magi e dall'associazione +Europa (il partito) contro il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministero dell'interno. I ricorrenti - difesi dagli avvocati Beniamino Caravita di Toritto, Aulo Cossu e Andrea Mazziotti di Celso (ex deputato di Scelta civica, poi aderente a +E e ad Azione) avevano chiesto di accertare l'integrità del diritto di elettorato passivo - con riferimento alle prossime elezioni politiche, immaginando che si tengano con la vigente legge - in particolare considerando il modo in cui si dovrebbe applicare l'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera (d.P.R. n. 361/1957, modificato nel 2017), disposizione che regola la raccolta delle sottoscrizioni a sostegno delle candidature e le esenzioni da tale onere.
Arriva dunque finalmente davanti alla Corte costituzionale un problema enorme e più volte sollevato in questo sito: quello della raccolta firme e del modo in cui devono provvedervi i promotori delle liste che la legge non solleva da quel compito gravoso. Si chiedeva in particolare di considerare il numero di sottoscrittori da coinvolgere, i soggetti che possono provvedere all'autenticazione, ma pure una questione molto delicata, emersa nelle settimane che precedettero la presentazione delle candidature alle elezioni del 2018: una questione che ha a che vedere con l'obbligo di raccogliere le firme avendo già individuato (anche) i candidati dei collegi uninominali. Il che voleva dire implicitamente aver già deciso se correre da soli o apparentarsi con altre liste (e, nel caso, quali): un problema enorme, se considerato insieme ai "figli e figliastri" generati dal regime di esenzione dalla raccolta delle firme. Il punto è complesso e merita di essere analizzato con attenzione, insieme agli altri.
 

Sbarramento all'ingresso ed "emergenza permanente"

Il problema, in effetti, nasce dalla questione delle firme e si avvita intorno a questa, come sa bene +Europa. Com'è noto, Riccardo Magi è stato eletto deputato (come candidato del centrosinistra nel collegio 10 - Roma Gianicolense), ma non nelle liste di +Europa - Centro democratico, di cui pure era stato capolista nei tre collegi plurinominali del Lazio: la lista non ha raggiunto la soglia del 3% indicata dalla legge (si è fermata al 2,6%), dunque non ha avuto accesso alla distribuzione dei seggi attribuiti con il sistema proporzionale. Ciò, in concreto, significa che la lista di +Europa - Centro democratico, con solo tre deputati (oltre a Magi, Bruno Tabacci e Alessandro Fusacchia, eletto all'estero) e una senatrice (Emma Bonino), non è riuscita a formare un gruppo parlamentare alla Camera e al Senato a inizio legislatura: è questa la condizione che l'art. 18-bis, comma 2 - così come modificato dal Rosatum-bis - pone per esentare un partito dalla raccolta firme per presentare liste alle elezioni successive.
In varie occasioni, però, +Europa e Radicali italiani (di cui era ed è espressione Magi) hanno lamentato vari gravi difetti del sistema vigente di presentazione delle candidature, parlando di vero e proprio "sbarramento all'ingresso", incompatibile con la Costituzione sotto più profili. Non riuscendo a ottenere miglioramenti delle norme in aula, si è cercata un'altra via per tentare di far intervenire la Corte costituzionale: in particolare, col ricorso al giudice civile monocratico, si è scelto di battere ancora la via dell'azione di accertamento della consistenza del diritto di elettorato, non legata all'urgenza di una consultazione vicina ma guardando esclusivamente al futuro. Questa strada- sia pure dal lato attivo, quindi prestando attenzione soprattutto alla libertà e uguaglianza del voto - aveva già consentito di sottoporre alla Consulta le questioni di costituzionalità relative alla "legge Calderoli" e all'Italicum, decise con le sentenze nn. 1/2014 e 35/2017 che accolsero le censure relative ad alcune norme delle due leggi elettorali.
Non furono, in realtà, sentenze pronunciate a cuor leggero e la dottrina non reagì in modo unanime. Per un numero rilevante di studiose e studiosi, infatti, non si sarebbe dovuti arrivare ad alcuna pronuncia di merito (anzi, la questione non sarebbe dovuta arrivare alla Consulta): si era detto che la causa era stata instaurata al solo scopo di sottoporre alla Corte la questione di costituzionalità, il che era come dire che non c'era alla base nessuna lite o che si trattava di una richiesta solo astratta di accertare l'effettività di un diritto, un modo per aggirare l'impossibilità di accedere direttamente alla Corte costituzionale (ciò è previsto solo per i giudizi instaurati dalle Regioni o dallo Stato). Questo fu ripetuto con più forza per l'Italicum: quando erano iniziate le cause all'interno delle quali si era chiesto di accertare l'integrità o la lesione del diritto di voto - magari dopo essersi interrogati sulla costituzionalità di alcune norme - la nuova legge elettorale non era mai stata applicata, quindi ogni giudizio sull'eventuale lesione del diritto di voto sarebbe stato astratto, privo di ogni concretezza. 
Si sa che le cose non andarono così: la Corte costituzionale in entrambi i casi (seguendo pure il ragionamento della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 12060/2013, che aveva portato la Consulta a esprimersi sulla legge elettorale del 2005) aveva ritenuto che le questioni fossero ammissibili. Giudicare sulla pienezza del diritto di elettorato (in quel caso attivo) non si esauriva nel decidere sull'illegittimità costituzionale delle norme censurate; soprattutto, il giudice delle leggi aveva precisato che le leggi elettorali di "organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo" non potevano di fatto essere sottratte al controllo di costituzionalità, non potendo tollerarsi l'esistenza di "zone franche" (o "grigie") nell'ordinamento.
Non stupisce che le difese di Magi e di +Europa abbiano seguito la stessa linea, stavolta dal lato passivo dell'elettorato: si è chiesto di accertare "la concreta volontà delle legge" circa il "diritto... di presentarsi alle prossime elezioni in situazione di parità con gli altri soggetti politici, e al fine di poter svolgere le elezioni in una situazione non inficiata da palesi vizi, tali da mettere a repentaglio la tenuta del risultato elettorale e il rispetto dei principi derivanti dal modello di democrazia rappresentativa". Per parte sua l'Avvocatura dello Stato, difendendo la Presidenza del Consiglio e il Viminale, ha lamentato che le richieste dei ricorrenti si fondavano su "situazioni meramente ipotetiche quale lo scioglimento anticipato delle Camere" e miravano solo a portare le questioni davanti alla Consulta. In più, per la difesa erariale di fatto si stava chiedendo alla Corte di violare la discrezionalità del Parlamento: si voleva che estendesse una disciplina speciale (quella delle esenzioni e dei regimi agevolati una tantum di raccolta firme) senza che la Costituzione obbligasse a fare ciò.
La giudice del Tribunale di Roma in primis ha confermato che toccava a lei occuparsi della lite: l'elettorato passivo - in base all'art. 51 Cost. e ai lavori alla Costituente - è "strumento d'esercizio della sovranità popolare" e "conseguenza dell'universalità del voto personale, segreto, diretto e universale", dunque del diritto di elettorato attivo (per il quale si era già stabilito che toccasse al giudice civile valutare la pienezza o la lesione). Si tratta di un "diritto politico fondamentale, riconosciuto e garantito ad ogni cittadino con i caratteri propri dell'inviolabilità ex art. 2 della Costituzione, e dunque intangibile nel suo contenuto di valore": dovendo accertare la pienezza del diritto di elettorato passivo anche in costanza dell'onere di raccogliere le firme (si vedrà come), tocca al giudice civile pronunciarsi, non alle Giunte delle Camere. Nell'ordinanza si è ricordato che "anche solo l'incertezza oggettiva in ordine al contenuto di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti [...] viene ritenuta essa stessa una lesione, in questo senso non potenziale ma attuale e concreta, e pertanto meritevole di un accertamento". Voler accertare l'integrità del diritto di candidarsi alle elezioni con certi modi di raccolta di firme o con altre condizioni e, ove si sospettino lesioni, chiedere di rivolgersi alla Corte costituzionale per cercare di riportare nella legittimità le procedure di candidatura (perché si possano svolgere secondo Costituzione in ogni momento) prova già "l'attualità e concretezza dell'interesse dei ricorrenti ad un accertamento giurisdizionale del diritto di candidarsi alle elezioni [...] con le richieste modalità, ritenute conformi a Costituzione", potendosi sollevare la questione di legittimità se si ritenesse quel diritto "escluso dalle norme vigenti".
La giudice, poi, ha rimarcato un altro profilo grave: la costante situazione di "incertezza circa natura, contenuto e modalità degli oneri cui è condizionato l'esercizio del diritto [...] di partecipare alle elezioni per il rinnovo della Camera [...], storicamente ed oggettivamente determinato dalla sistematica ma non prevedibile e ovviamente non coercibile approvazione, in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento, di norme, relativamente a tali oneri, derogatorie rispetto a quelle vigenti, ma con dichiarata efficacia limitata alle elezioni, appunto, immediatamente successive". Di fatto ha detto che dal 2006 per le elezioni politiche si vota in uno stato di "eccezione permanente" (come qui si era già segnalato mesi fa, snocciolando la stessa successione di tagli ed esenzioni impietosamente citata nell'ordinanza): "sistematicamente solo in prossimità del decreto di scioglimento delle Camere [...] sono state adottate norme speciali" (con decreto-legge, legge di conversione dello stesso o addirittura - nel 2018 - la legge di bilancio) per tagliare il numero delle firme richieste o ampliare la platea dei soggetti esenti dalla raccolta firme, a volte persino innestandosi su norme derogatorie già previste. Proprio tale sequenza di modifiche proverebbe "le difficoltà praticamente implicate dalla disciplina 'ordinaria' altrimenti applicabile" (non si spiegherebbero le ricorrenti norme di favore "in zona Cesarini") e pure che l'azione di accertamento presso i giudici civili è il solo mezzo a disposizione per rimuovere la "lesione del diritto di elettorato passivo" che già è provocata da "un'incertezza così oggettiva, vasta e protratta nel tempo, relativamente alle condizioni del suo esercizio" (sul punto si cita la sentenza del 6 novembre 2012 della Corte europea dei diritti umani, caso Ekoglasnost contro Bulgaria).

Il (non) problema della rilevanza e i principi 

Come chi studia il diritto costituzionale sa bene, una questione di legittimità costituzionale può essere sottoposta alla Corte solo se - una volta esclusa la possibilità di interpretare in modo certamente conforme alla Costituzione il testo normativo su cui si hanno dubbi - quella stessa questione è rilevante (riguardando una norma da applicare per forza nel caso che il giudice ha davanti a sé) e non manifestamente infondata (quando il sospetto che tale norma sia incostituzionale è almeno verosimile). Qui la rilevanza è evidenteil giudizio davanti al Tribunale di Roma non può essere definito senza che quelle questioni siano risolte dalla Corte (e si ricorda che quella iniziata da Magi e da +Europa per la giudice è una lite vera, non uno stratagemma per interpellare direttamente la Consulta aggirando ciò che prevede la legge).  
Sul piano della non manifesta infondatezza, per il tribunale occorre innanzitutto tenere conto dei principi generali in materia elettorale deducibili dalle decisioni della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti umani. La Consulta (pure nelle sentenze del 2014 e del 2017) ha confermato l'ampia discrezionalità del legislatore nel determinare le regole dell'iter elettorale, ma queste sono comunque sottoposte al principio di proporzionalità e non manifesta irragionevolezza che si desume dall'art. 3 Cost.: non è possibile comprimere troppo i principi di democraticità, di necessaria rappresentatività delle Camere e dell'uguaglianza del voto (incluso l'elettorato passivo), come non si possono sacrificare troppo i principi di stabilità del governo e rapidità del processo decisionale (sulla stessa linea è la citata sentenza della Corte Edu - per la quale le limitazioni del diritto di voto e di candidarsi sono legittime solo se le norme che prevedono queste perseguono scopi legittimi, se quelle limitazioni non sono concretamente sproporzionate e se sono definite da norme chiare e prevedibili -  come pure la sentenza Saccomanno contro Italia del 3 marzo 2012, in cui si è marcato come il diritto di elettorato attivo e quello passivo siano strettamente correlati).
Circa la presentazione delle candidature, la sentenza n. 83/1992 della Corte costituzionale ricordò che la raccolta firme aveva i fini di evitare la dispersione dei voti e le lotte elettorali esacerbate per infastidire altri: serviva a dare una "dimostrazione di seria consistenza e di un minimo di consenso", requisito che dal 1976 si è considerato soddisfatto pure da alcuni soggetti già rappresentati in Parlamento (per questo esentati dalla raccolta firme); la sentenza n. 394/2006 ricordò invece che il valore delle autenticazioni delle firme concorre a realizzare l'interesse a un esercizio del diritto di voto regolare, libero ed efficace, evitando "un'abnorme proliferazione di candidature palesemente prive di seguito o, peggio, volte artatamente a disorientare l'elettorato". Rilevano poi i contenuti del Codice di buona condotta in materia elettorale, elaborato dalla Commissione di Venezia e approvato nel 2003 dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e dal Congresso dei poteri locali e regionali d'Europa: "se le regole [elettorali] cambiano spesso - si legge - l'elettore può essere disorientato e non comprenderle, soprattutto se presentano una certa complessità", finendo per credere che il diritto elettorale "sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manipolano in loro favore, e che il voto dell'elettore non sia quindi l'elemento che decide il risultato dello scrutinio"; si sconsigliano le revisioni ripetute delle norme elettorali o compiute a meno di un anno dal nuovo voto. La Corte Edu non ha censurato la richiesta di un numero anche consistente di firme in appoggio alle candidature (è legittimo assicurarsi che partecipino alle elezioni "formazioni politiche stabili, sufficientemente rappresentative della società" e che le spese siano contenute); inasprire duramente le condizioni per presentare le liste alla vigilia di uno scrutinio è però stato ritenuto sproporzionato e incompatibile con l'ordine democratico.

Meno firme, più autenticatori e più esenzioni? 

Tre delle quattro richieste del ricorso si concentravano sulle disposizioni dettate solo con riferimento alle elezioni politiche del 2018 sul numero di firme da raccogliere, sulla loro autenticazione e quelle sull'estensione delle esenzioni: alla loro luce, per i ricorrenti le corrispondenti norme ordinarie non possono che essere contrarie alla Costituzione. Si considerano l'art. 1, comma 1123, della legge n. 205/2017 (legge di bilancio 2018), con cui si era ridotto a un quarto il numero delle sottoscrizioni necessarie per presentare una lista alle elezioni del 2018; l'art. 6, comma 7 della legge n. 165/2017 (il Rosatum-bis) che, sempre per quelle sole elezioni, permetteva l'autenticazione delle firme anche agli avvocati abilitati al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori (i cassazionisti); quanto alla parte dell'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera che esenta dalla raccolta firme solo le liste dei partiti che all'inizio della legislatura hanno formato un gruppo in entrambe le Camere, la si è messa a confronto con le disposizioni del Rosatum-bis, per le quali alle sole elezioni del 2018 erano esonerati pure i partiti che avevano almeno un gruppo alla data del 15 aprile 2017. Scartata la possibilità di interpretare in modo conforme alla Costituzione le disposizioni "ordinarie" (lo esclude la stessa giudice del tribunale), i ricorrenti hanno chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale per contestare l'applicabilità una tantum alle elezioni politiche del 2018 delle norme di favore, ritenendo che questo violi gli artt. 1, 3, 48, 49 e 51 Cost., chiedendo dunque un ampliamento della norma che si può desumere dal testo. 
Sul punto relativo al numero delle firme da raccogliere - quello più importante in tema del citato "sbarramento all'ingresso", che interessa di certo partiti, movimenti e gruppi esterni al Parlamento, ma anche coloro che hanno eletto rappresentanti senza riuscire a ottenere un gruppo in ogni Camera - i ricorrenti sostengono che la richiesta di raccogliere "in pochi giorni [...] un numero di firme degli elettori troppo elevato" sarebbe "sproporzionata ed irragionevole rispetto all'esigenza di 'tutela dell'ordinato svolgimento delle operazioni elettorali' cui essa" appare preordinata dalla stessa Consulta (sentt. nn. 83/1992 e 394/2006). Numeri alla mano, la richiesta di almeno 1500 firme per collegio plurinominale, senza il dimezzamento previsto per le elezioni anticipate, comportava - con la prima versione del Rosatum-bis, a seggi non ancora ridotti - l'obbligo di raccogliere almeno 94.500 firme su 63 collegi plurinominali: un partito che alle ultime elezioni avesse raggiunto la soglia del 3% (pari, in base ai consensi espressi nel 2018, a poco più di 985.000 voti) avrebbe dovuto raccogliere un numero di firme pari a poco meno del 10% del suo elettorato, un dato ritenuto irragionevole. 
I ricorrenti si sono concentrati anche sull'estensione una tantum agli avvocati cassazionisti del potere di autenticazione delle firme, che per Magi e +Europa è "irragionevole e discriminatoria perché disciplina in modo diverso situazioni identiche", cioè quelle delle scorse e delle prossime elezioni; non è poi stata trascurata la questione delle esenzioni dalla raccolta delle firme, trattata in modo altrettanto irragionevole tra l'esonero "ordinario" (riservato ora a soli cinque soggetti: M5S, Pd, Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia, più la Svp)  

Coalizioni, firme ed esenzioni: un cortocircuito che resta

L'aspetto più delicato del ricorso presentato da Magi e da +Europa, tuttavia, riguardava un meccanismo peculiare del Rosatum-bis, che interessa le liste intenzionate a coalizzarsi e non esonerate dalla raccolta delle sottoscrizioni. I ricorrenti chiedevano che gli artt. 18-bis e 20 del d.P.R. n. 361/1957 (modificato nel 2017) fossero interpretati nel senso di garantire il diritto a raccogliere le firme solo sulle liste da presentare nei collegi plurinominali, senza dover indicare nei moduli pure i nomi delle persone candidate nei collegi uninominali; se il testo non l'avesse consentito, avrebbero voluto investire la Corte costituzionale della questione, sempre sulla base degli artt. 1, 3, 48, 49 e 51 Cost.
La questione oggettivamente è complessa e merita di essere spiegata, anche perché non è un caso che proprio questi ricorrenti l'abbiano sollevata: nel 2018 +Europa, quando era ancora più una lista che un partito, sperimentò su di sé il disastroso cortocircuito che la legge elettorale approvata in fretta e furia aveva creato, unendo gli effetti dell'esenzione "per pochi" dalla raccolta firme, delle norme sulla raccolta stessa e sulle coalizioni elettorali, in un cocktail assai indigesto. L'aveva già spiegato in un'intervista a I simboli della discordia Benedetto Della Vedova, quando nell'estate del 2019 aprì la campagna Ci metti la firma?, presentando il testo di una proposta di legge (redatta da Carmelo Palma per +E e da Francesco Alemanni per Europa Verde) che avrebbe dovuto risolvere anche quel garbuglio.
L'art. 18-bis, comma 1-bis, del testo unico Camera (introdotto con il Rosatum-bis) richiede che le liste collegate (in coalizione) presentino "il medesimo candidato nei collegi uninominali" e che l'indicazione dei candidati nei collegi uninominali sia "sottoscritta per accettazione dai rappresentanti [delegati a depositare le candidature] di tutte le liste tra loro collegate che presentano il candidato"; l'art. 14-bis, comma 2 prevede che il collegamento in coalizione tra partiti (e le rispettive liste) sia dichiarato "contestualmente al deposito del contrassegno" al Ministero dell'interno, deposito che avviene - lo precisa l'art. 15 - tra le ore 8 del 44° giorno e le ore 16 del 42° giorno precedente quello del voto. Da ultimo, l'art. 20 nella sua versione vigente - oltre a ricordare che le candidature e i fogli firmati dai sottoscrittori si presentano agli uffici elettorali tra il 35° e il 34° giorno prima del voto - precisa che le firme vanno raccolte "su appositi moduli riportanti [...] il nome, cognome, data e luogo di nascita dei candidati [...]". 
Per Magi e +Europa non c'era e non c'è motivo di indicare sui moduli per la raccolta firme, oltre ai candidati delle liste, anche i nomi dei candidati dei collegi uninominali: in base al testo di legge, non sarebbero i sottoscrittori a sostenere quelle candidature nei collegi uninominali, ma (per accettazione) i rappresentanti delle stesse forze coalizzate. Quando però il Ministero dell'interno ha pubblicato le Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature, che includevano anche il facsimile dei moduli per la presentazione delle liste, in quegli stessi moduli ha inserito pure i nomi delle persone candidate in ciascuno dei collegi uninominali presenti all'interno del singolo collegio plurinominale cui si riferisce la lista appoggiata dalla raccolta firme. 
All'inizio il governo era parso accogliere una lettura aperta alla firma delle sole liste, prima degli accordi di coalizione (in linea con l'ordine del giorno G/2941/11/1 del senatore Pd Stefano Collina): avrebbe persino "impropriamente suggerito" (così Benedetto Della Vedova ed Emma Bonino all'inizio di gennaio) di far presentare un emendamento alla legge di bilancio 2018 - il 101-quater.72 riformulato, a firma del deputato Pd Alan Ferrari - in cui inserire, con le previsioni di spesa per le nuove previsioni sulla trasparenza elettorale (giustificando l'inserimento nella legge di bilancio), sia la riduzione a un quarto delle firme richieste, sia la precisazione per cui tanto per le liste esenti dalla raccolta firme, quanto per quelle collegate a esse "l'indicazione dei candidati nei collegi uninominali è presentata separatamente dalla lista dei candidati nel collegio plurinominale, con la sola sottoscrizione" dei delegati delle liste coalizzate a presentare le candidature agli uffici elettorali. In Commissione Bilancio alla Camera, però, il 20 dicembre Forza Italia aprì il fuoco sull'emendamento Ferrari: Roberto Occhiuto parlò di una norma di spesa volta a legittimare firme raccolte "su 'fogli in bianco', privi cioè dell'indicazione delle candidature uninominali" e di "sottoscrizioni prive di contenuto"; critico sull'inserimento di disposizioni elettorali nella legge di bilancio fu pure Rocco Palese, come esponenti di altre forze politiche (Gianni Melilla per Mdp, Francesco Cariello per il M5s, Walter Rizzetto per Fratelli d'Italia, Barbara Saltamartini per la Lega Nord). Il presidente di commissione, Francesco Boccia, propose di eliminare il riferimento alla presentazione separata delle candidature, il dem Ettore Rosato condivise (per non rallentare il cammino della legge di bilancio) e l'emendamento "alleggerito" fu approvato, deludendo +Europa.  
In quanto nuova forza politica non rappresentata in Parlamento, +Europa nel 2018 doveva raccogliere le firme. Nelle ultime settimane di dicembre il soggetto politico guidato da Emma Bonino valutava la possibilità di aderire alla coalizione di centrosinistra, ma si scontrò con il problema quasi insormontabile delle date: gli accordi di coalizione si sarebbero dovuti definire tra il 19 e il 21 gennaio (unitamente al deposito dei contrassegni), mentre le liste si presentavano tra il 28 e il 29 gennaio. Fino al 21 gennaio, in teoria, le coalizioni sarebbero potute cambiare: le forze della coalizione (Pd, Insieme e Civica popolare) che, contando su un gruppo parlamentare, erano esonerate dalla raccolta firme avrebbero potuto decidere le candidature addirittura fino a poche ore prima del deposito presso gli uffici elettorali. Era invece un problema enorme per +Europa che, dovendo raccogliere le firme, avrebbe dovuto aspettare che i collegamenti fossero definiti e depositati presso il Viminale e che, di conseguenza, si decidessero le candidature di coalizione nei collegi uninominali e solo a quel punto avrebbe potuto cercare le firme (con tutte le candidature sui moduli): ciò voleva dire avere solo una settimana per raccoglierle, ottenere i relativi certificati di iscrizione alle liste elettorali e consegnare i documenti. Impossibile, in tali condizioni, ottenere 1500 firme in ogni collegio plurinominale; molto difficile raccoglierne anche solo 750 (come si era stabilito con l'approvazione del Rosatum-bis); non comunque alla portata di tutti ottenerne 375 (come si era ottenuto con l'emendamento alla legge di bilancio). 
Per questo, all'inizio del 2018, +Europa dichiarò che avrebbe partecipato alle elezioni fuori da ogni coalizione, così avrebbe potuto iniziare subito a raccogliere le firme, con la speranza di centrare l'obiettivo entro il 29 gennaio. Si trattava ovviamente di una scelta difficile, perché significava abbattere le proprie possibilità di entrare in Parlamento: occorreva per forza superare il 3%, essendo del tutto improbabile vincere seggi nei collegi uninominali, cosa che invece sarebbe stata più alla portata concordando candidature di collegio nella coalizione eventualmente scelta. In più, +Europa avrebbe dovuto indicare tutte le candidature da schierare anche nei collegi uninominali: Emma Bonino ammise che forse non c'erano abbastanza persone per coprire tutte le caselle (231 alla Camera, 116 al Senato), ma non c'era altra via d'uscita, perché i partiti esenti dalla raccolta firme volevano impiegare tutto il tempo a loro disposizione per determinare le candidature. Di fatto, avere esonerato dalla raccolta delle sottoscrizioni alcune forze politiche ha dato loro un potere di ricatto verso le forze obbligate a raccogliere le firme (oltre che conferire un indebito vantaggio a soggetti politici che magari in corso di legislatura avevano perso di consistenza); le liste che devono raccogliere le firme di fatto non sono messe invece nelle condizioni di coalizzarsi.
Il 4 gennaio 2018 il problema di +Europa fu risolto in una maniera sui generis, cioè con Bruno Tabacci che mise a disposizione il simbolo di Centro democratico e la relativa esenzione dalla raccolta firme: +Europa fu messa nelle stesse condizioni di Pd, Insieme e Civica popolare, dando più tempo per concertare le candidature senza l'ansia della raccolta firme. La questione giuridica di fondo, però, restava: il mancato superamento della soglia di sbarramento da parte della lista di +Europa - Centro democratico avrebbe riproposto il problema alle elezioni politiche successive. Anche per questo, l'11 giugno 2019 Riccardo Magi presentò un'interrogazione al ministro dell'interno in sede di question time, chiedendo cosa intendesse fare il governo per risolvere il problema legato al "combinato disposto" delle disposizioni sulle firme, sulle esenzioni e sulle coalizioni; rispose il giorno dopo direttamente l'allora titolare del ministero Matteo Salvini. Lui am
mise che quel segmento del procedimento elettorale preparatorio è "abbastanza complesso e sicuramente rivedibile", ma precisò che "ogni eventuale modifica alle attuali previsioni normative, come ad esempio quella volta alla riduzione del numero di sottoscrizioni a sostegno delle liste, o la modifica e lo scorporo delle due fattispecie [per le liste e per i candidati nei collegi uninominali], dovrà necessariamente passare attraverso un intervento legislativo". Di fatto, il Viminale non ha creduto di poter o voler interpretare in altro modo le disposizioni. Il ricorso di Magi e +Europa è stato presentato poche settimane dopo la risposta di Salvini al question time: questa deve avere consigliato di cercare un'altra via per rimuovere il problema, se si dovesse votare con il Rosatum-bis.
In realtà per la giudice "tutti i criteri ermeneutici concorrono nell'escludere la fondatezza dell'interpretazione dedotta dai ricorrenti", che consentiva di raccogliere le firme solo sulle liste senza aggiungere sul modulo anche, in caso di coalizione, i nomi dei candidati nei collegi uninominali. La prima parte dell'art. 18-bis, comma 1-bis del testo unico per la Camera collega espressamente "all'eventualità delle 'liste collegate tra loro' solo l'adempimento della 'presentazione del medesimo candidato nei collegi uninominali', il quale è evidentemente diverso" dall'adempimento della raccolta firme; lo stesso vale per l'indicazione del candidato comune di coalizione in ogni collegio uninominale, sottoscritta da tutti i rappresentanti delle liste collegate, che non sostituisce la firma da parte di elettrici ed elettori; sarebbe poi insuperabile l'espressione letterale dell'art. 18-bis, comma 1, che chiede di sottoscrivere la "dichiarazione di presentazione delle liste di candidati per l'attribuzione dei seggi nel collegio plurinominale, con l'indicazione dei candidati della lista nei collegi uninominali compresi nel collegio plurinominale". La presentazione delle liste nei collegi plurinominali sarebbe inscindibile, pure sul piano sistematico, da quella dei candidati nei collegi uninominali di quel territorio: le "concorrenti tipologie di assegnazione dei seggi della Camera" sarebbero "pensate come parti di un unico, complesso, sistema elettorale". 
Qui si condivide soprattutto la ragione che richiede che sullo stesso modulo siano indicate tanto le liste, quanto i candidati dei collegi uninominali (tanto delle liste che corrono da sole, quanto delle liste coalizzate):la giudice ha ricordato che "la funzione della raccolta delle sottoscrizioni degli elettori è [...] assicurare la partecipazione alla competizione elettorale solo di formazioni politiche che hanno effettivamente seguito nel corpo elettorale" (così la Corte costituzionale nelle citate sentenze del 1992 e del 2006), quindi "anche la previa ostentazione e conoscenza dei singoli candidati, comuni alla coalizione, nei collegi uninominali dei vari collegi plurinominali, costituisc[e] uno strumento a disposizione degli elettori, ai quali è chiesta la sottoscrizione della dichiarazione di presentazione delle candidature, per saggiare qualità ed orientamento della coalizione e delle formazioni che la compongono e poter, su tale base, decidere di promuoverne la partecipazione alla competizione elettorale". Per fare un esempio, che proposi altrove in quei primi giorni di gennaio del 2018, un elettore o un'elettrice avrebbe potuto voler firmare per +Europa sapendo che avrebbe sostenuto solo "candidati uninominali" suoi; avrebbe potuto non voler firmare "in bianco", senza sapere se la lista si sarebbe coalizzata (e con chi) o senza sapere chi sarebbe stato il candidato comune, come avrebbe potuto rifiutare il sostegno proprio perché si era scelto un candidato non gradito. Ciò basta a negare spazio a un'interpretazione dei testi che permetta di separare la raccolta delle firme per le liste dall'indicazione e dalla conoscibilità dei candidati (propri o comuni) nei collegi uninominali.
Alla fine della sua ordinanza, la giudice Bifano ha escluso espressamente una questione di legittimità costituzionale a proposito dell'art. 18-bis, comma 1-bis, ritenendo l'onere di indicare sul modulo della raccolta firme anche i nomi dei candidati dei collegi uninominali coerente "con il vigente sistema elettorale misto, in cui la componente proporzionale realizzata nei collegi plurinominali e quella maggioritaria realizzata nei collegi uninominali non sono scindibili", né si può pensare di differenziare la posizione delle liste che vogliono coalizzarsi rispetto a quella delle liste intenzionate a correre da sole. La norma, dunque, non è stata ritenuta anche solo potenzialmente irragionevole; come si vedrà, però, ha avuto un ruolo nello determinare il quadro che ha portato a interpellare la Corte.

Sospetta incostituzionalità: ecco perché

La giudice chiamata a esprimersi ha spiegato di voler tenere conto, in tutte le sue valutazioni, soprattutto della "dimensione temporale" e "numerica" e degli "effetti che, nell'insieme, il sistema delle norme in esame produce": uno sguardo complessivo che deve necessariamente tenere conto di vari profili contemporaneamente.
Si è detto che per la Camera servivano almeno 94500 firme su un totale di 63 collegi plurinominali (se il Parlamento è sciolto più di 120 giorni prima della fine della legislatura, le firme necessarie sono la metà) perché i partiti privi di gruppo originario alla Camera e al Senato potessero presentare liste in tutta l'Italia; la giudice però ha notato che "solo con decreto del Presidente della Repubblica da emanare, su proposta del Ministro dell'interno, contestualmente al decreto di convocazione dei comizi [...] e dunque da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 45° giorno antecedente quello della votazione [...] è compiuta, e dunque resa nota, l'assegnazione del numero dei seggi alle singole circoscrizioni nonché del numero complessivo di seggi da attribuire in ciascuna circoscrizione nei collegi plurinominali, compresi i seggi spettanti ai collegi uninominali" sempre sulla base dei risultati dell'ultimo censimento generale Istat. Se le candidature si presentano (come detto) tra il 35° e il 34° giorno precedenti la votazione e se il d.P.R. che assegna i seggi alle circoscrizioni è emesso l'ultimo giorno utile (come di solito accade), i partiti non esonerati dalla raccolta firme hanno solo undici giorni (dal 45° al 34°) per raccogliere 94500 firme (o 47250 firme, in caso di elezioni anticipate), ottenere i relativi certificati e depositare tutti i documenti.
Undici giorni, dunque, è il tempo effettivo a disposizione di una lista che corra senza coalizzarsi, per raccogliere le firme e gli altri documenti necessari (e sempre entro il 45° giorno prima del voto il Viminale deve pubblicare i fac simile per presentare le candidature: una lista, per non rischiare di preparare o usare dei moduli sbagliati, potrebbe dover attendere proprio quel giorno). In teoria l'art. 14 della legge n. 53/1990 (che indica chi può autenticare le sottoscrizioni e come) al comma 3 precisa che firme e autenticazioni non sono valide se risalgono a oltre 180 giorni prima del voto, ma nessun partito può davvero sfruttare quei sei mesi per la raccolta firme, specie se lo scioglimento è anticipato; anche ove la legislatura arrivasse al termine naturale, però, chi promuovesse una lista non potrebbe sapere con largo anticipo i giorni previsti per il voto, per determinare il periodo di validità delle sottoscrizioni e magari pure il numero delle firme (l'anticipo dello scioglimento potrebbe far scattare o meno il dimezzamento delle sottoscrizioni necessarie). Se poi una lista vuole coalizzarsi con altre ha ancora meno tempo, da dieci a otto giorni: la dichiarazione di collegamento si presenta tra il 44° e il 42° giorno precedente il voto (dopo l'emissione del decreto che attribuisce i seggi alle circoscrizioni) e solo da quel momento si potranno decidere le candidature di coalizione nei collegi uninominali, per poi poterle scrivere sui moduli. Il solo modo per raccogliere meno firme è presentare candidature in meno collegi plurinominali, ma questo fa drasticamente calare le possibilità di ottenere eletti (specie con riguardo alla soglia di sbarramento del 3%).
Per il tribunale di Roma ci sono molte firme da ottenere in molti collegi e in poco tempo, specie per le liste coalizzate non esonerate dalla raccolta delle sottoscrizioni, peraltro con regole stringenti sulle esenzioni. Molte pagine dell'ordinanza ripercorrono la storia delle norme sul procedimento elettorale preparatorio (come si fece anche su questo sito, con pochi esempi pratici). In base al testo originario del d.P.R. n. 361/1957, servivano solo 500 firme per ognuno dei 32 collegi (molto più ampi degli attuali), quindi a livello nazionale ne occorrevano 16000 (ma era più ristretta la platea degli autenticatori) e con più tempo per la raccolta; con l'avvento della legge n. 136/1976, il termine si riduceva da una ventina di giorni a 13, ma le firme erano calate a 350 (sempre su 32 ampi collegi) e per la prima volta furono esentati dalla raccolta delle sottoscrizioni i partiti con almeno un gruppo parlamentare (anche nato in corso di legislatura, magari per un partito sorto dopo il voto) o avevano corso alle elezioni precedenti ottenendo almeno un seggio. La citata legge n. 53/1990, oltre ad ampliare molto i soggetti in grado di autenticare le firme, estese l'esenzione ai partiti che avevano eletto almeno un eurodeputato alle ultime elezioni (purché usassero lo stesso contrassegno) e pure alle liste con contrassegno composito che includa il simbolo di un partito esonerato; nel 1991 il numero delle sottoscrizioni fu aumentato - in fondo la popolazione nel corso degli anni era cresciuta parecchio e la legge del 1990 aveva fatto lievitare le firme richieste alle amministrative - e sempre graduato in base al numero di abitanti dei vari collegi (e si ridusse agli attuali 11 giorni il termine effettivo per raccogliere le firme e depositarle), prevedendo però per la prima volta il dimezzamento delle firme in caso di scioglimento delle Camere anticipato di almeno quattro mesi. Le condizioni in ogni caso erano assai più favorevoli rispetto a oggi.
L'entrata in vigore della "legge Mattarella" richiese di raccogliere almeno 500 firme per presentare un candidato in ogni collegio uninominale, mentre ne occorrevano un numero variabile (ma comunque almeno 1500) nelle circoscrizioni della quota proporzionale: lì l'asticella si alzò un po', visto che non erano neanche previste esenzioni, ma le circoscrizioni erano ben più ampie che in passato e il compito non era così inaccessibile; in più la maggior parte dei seggi era assegnata con il sistema maggioritario e in quei collegi la candidatura era piuttosto alla portata; in ogni caso, nel 1994 si dimezzarono le firme per il voto anticipato. Il passaggio alla "legge Calderoli" nel 2005 mantenne intatto il numero di firme richiesto per le liste (non meno di 1500 nelle circoscrizioni meno popolose), come pure il tempo per la raccolta e il dimezzamento in caso di elezioni anticipate, ma reintrodusse le esenzioni (più ristrette che in passato ma più ampie rispetto a oggi, specie per le coalizioni, anche se l'ordinanza non la pensa così) e previde il collegamento tra liste (che però non richiedeva l'indicazione di candidature comuni). Anche allora, quindi, le condizioni della raccolta firme erano più favorevoli rispetto a quelle attuali. Con il 2006 iniziò però il periodo che ho chiamato di "emergenza permanente", con "sistematiche riduzioni 'transitorie' del numero delle sottoscrizioni, ovvero di ampliamento dell'ambito soggettivo del regime di relativa esenzione, in prossimità delle elezioni successive ma con disciplina limitata a queste ultime". Tali misure, una dopo l'altra, oltre a evidenziare "l'oggettiva, massima incertezza" sulle norme applicabili al procedimento elettorale preparatorio per chi voleva esercitare il diritto di elettorato passivo, hanno finito per dimostrare che l'accesso alle elezioni ogni volta è stato "evidentemente ritenuto eccessivamente ostacolato dalle norme ratione temporis vigenti".
Per la giudice il passaggio più interessante è però l'ultimo: la riduzione del 75% delle firme richieste operata con l'emendamento alla legge di bilancio 2018 è parsa paradigmatica dei "molteplici, intrinseci aspetti di irragionevolezza e contraddizione insiti della disciplina di accesso alla relativa candidatura attualmente vigente". Al di là del (criticato) inserimento della norma in una legge avente un oggetto del tutto diverso, la riduzione è stata motivata "anche in considerazione dei termini connessi alla nuova determinazione dei collegi elettorali", determinazione però già fatta quando la norma fu approvata; la riduzione, identica a quella stabilita una tantum per il voto politico del 2013, era comunque doppia rispetto alla previsione transitoria della nuova legge elettorale e al taglio del 2006. In più, posto che il regime della raccolta firme era più conveniente sotto la "legge Calderoli" rispetto a quello di oggi, la poderosa riduzione una tantum approvata alla fine del 2017 si era aggiunta ad altre due misure applicabili solo alle elezioni del 2018: la temporanea estensione dell'esenzione dalla raccolta firme e l'estensione agli avvocati cassazionisti del potere di autenticare le sottoscrizioni. La somma di tali misure, per il tribunale, indicherebbe che quando fu approvato il Rosatum-bis era "già acquisita ed anzi consolidata la consapevolezza della vessatorietà e concreta impraticabilità, per un'ampia platea di formazioni politiche, di una disciplina d'accesso alle candidature per rinnovo della Camera dei deputati" in cui convivessero ipotesi ristrette di esenzioni dalla raccolta firme, tante sottoscrizioni - dimezzate solo con lo scioglimento anticipato - da raccogliere in undici giorni (pure meno per chi vuole coalizzarsi).
Basterebbe ciò per dire, secondo la giudice, che il legislatore non ha scelto le misure "meno restrittive dei principi ed interessi a confronto" (per dirla con la sentenza n. 1/2014), ma quelle più restrittive sulla raccolta firme, al punto "da essere considerate, con le evidenti contraddizioni [...], inesigibili anche se di nuovo conio, e tali da essere [...] derogate al pari di quelle 'ordinarie' che le hanno precedute, a loro volta analogamente restrittive". Un "test di proporzionalità" negativo parrebbe non manifestamente infondato, circa "l'ambito soggettivo dell'onere di raccolta delle sottoscrizioni per la presentazione delle candidature" (il novero dei soggetti non esonerati) e il numero delle firme da raccogliere da parte delle liste singole e delle coalizioni, onere sproporzionato e irragionevole rispetto a chi è stato esentato dalla raccolta firme: sarebbe leso il diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost., aggiungendo l'art. 3 per la violazione del principio di uguaglianza) e si andrebbe oltre "l'interesse generale al regolare svolgimento della competizione elettorale" perché il voto sia libero (art. 48, comma 2 Cost.) e la rappresentatività ex art. 1 Cost. possa svolgersi in modo efficace. Un conto infatti è escludere le candidature inconsistenti, altro è "rendere [...] concretamente impraticabile la partecipazione alla competizione elettorale per tutte le formazioni politiche diverse da quelle non costituite in gruppi in entrambe le Camere all'inizio della legislatura": ciò rischia solo di perpetuare la presenza di chi era già in entrambe le Camere, peraltro senza una vera competizione con le forze rimaste fuori dal Parlamento. 
Il problema, quindi, non sarebbe l'aver previsto la raccolta di firme (pure in numero rilevante), né l'esenzione per certi soggetti e non per altri (risponderebbe alla stessa logica delle firme, evitare le candidature inconsistenti), ma "il congiunto e concreto effetto di una pluralità di limiti all'esercizio del diritto di candidarsi", cioè il cocktail esplosivo delle tante firme da raccogliere in territori ristretti, del pochissimo tempo effettivo per raccoglierle, dello scarsissimo numero di partiti esenti dalla raccolta firme (tra l'altro tocca ai regolamenti parlamentari indicare chi può formare un gruppo e a quali condizioni) e dell'incertezza dovuta alla prassi dell'emergenza continua che finisce per agevolare la partecipazione alle elezioni solo "nell'imminenza dello scioglimento delle Camere" (lasciando di fatto alle forze presenti in Parlamento la scelta di chi far partecipare alle elezioni immediatamente successive e chi no). Ciò farebbe poi ritenere non manifestamente infondato un sospetto di violazione dell'art. 117, comma 1 Cost. "per contrasto con i principi di buona condotta elettorale e di certezza delle regole elettorali", per la Corte di Strasburgo "fondamentali ai fini del rispetto dell'art. 3 del Protocollo I" della Cedu. La malapratica consolidata di intervenire sempre a fine legislatura nel modo già visto, infine, fa sorgere il sospetto che gli effetti sgradevoli del cocktail esplosivo, in grado di distorcere gli scopi delle sottoscrizioni o delle esenzioni, siano frutto di precise scelte, di certo contrarie allo spirito della Costituzione.
Quanto alla situazione difficile delle liste che vogliano coalizzarsi ma debbano raccogliere le firme, per la giudice Bifano non è legata a uno specifico sospetto di illegittimità costituzionale, ma rappresenta di certo l'ipotesi in cui il citato cocktail esplosivo di "limiti alla partecipazione alla competizione elettorale" produce il maggior numero di danni: il tempo a disposizione di quelle formazioni è ancora minore (a meno di rischiare di raccogliere le firme inserendo nei moduli informazioni ancora non certe, esponendosi al pericolo di dover ripartire daccapo qualora le candidature dei collegi uninominali cambiassero). L'ordinanza del tribunale di Roma non manca di fare un confronto con le norme di altri paesi: in nessuno degli ordinamenti presi in esame c'è una situazione simile a quella che si ha in Italia (non sono richieste firme, ne servono molte meno oppure c'è più tempo per raccoglierle).
Sulla base di quanto ricordato sin qui, la giudice del tribunale di Roma ha sollevato la questione di legittimità costituzionale - avendo come parametri costituzionali l'art. 1, comma 2, l'art. 3, l'art. 51, comma 1, l'art. 48, comma 2, e l'art. 117, comma 1, quest'ultimo con riferimento all'art. 3 del Protocollo 1 della Cedu - dell'art. 18-bis, commi 1 e 2 del testo unico per l'elezione della Camera. Per la prima disposizione il dubbio di costituzionalità riguarda la parte "in cui richiede per la presentazione delle candidature per il rinnovo della Camera dei deputati un numero minimo di 1500 sottoscrizioni per ogni collegio plurinominale, ovvero di 1500 ridotto della metà in caso di scioglimento della Camera dei deputati che ne anticipi la scadenza di oltre centoventi giorni"; nelle motivazioni si specifica che l'irragionevolezza emerge rispetto alla scelta, fatta per le elezioni del 2013 e del 2018, di ridurre il numero di firme a un quarto di quelle previste dalla disciplina ordinaria.
Per l'art. 18-bis, comma 2, invece, la questione riguarda la parte in cui la disposizione "limita l'esenzione dall'onere di raccolta delle sottoscrizioni ai partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere". Per fornire un riferimento che renderebbe più ragionevole la norma (tecnicamente si parla di tertium comparationis), nella motivazione la giudice ha ritenuto sproporzionato escludere dall'esonero dalla raccolta firme "i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere all'inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi, quale già prevista, al netto del superato riferimento temporale alla data di costituzione dei gruppi, dall'art. 2, comma 36, della legge 52/2015, in parte qua confermato dalla disposizione transitoria dell'art. 6, comma 1, della legge n. 165/2017". Nell'ordinanza si legge che "tali ultime disposizioni transitorie [...] manifestano, ed invero storicamente confermano, la concreta possibilità di una diversa, ma questa volta meno restrittiva e proporzionata allocazione dei sacrifici dei principi ed interessi di rilevanza costituzionale coinvolti dalla disciplina dell'onere di raccolta delle sottoscrizioni degli elettori cui condizionare la presentazione delle candidature per il rinnovo della Camera [...], assicurando ad essa contenuti non elusivi dei medesimi principi ed interessi". Restano legittimi sia l'onere di raccogliere le firme, sia l'esonero dalla raccolta per alcuni soggetti politici rappresentati in Parlamento, ma per la giudice non tutela (anzi stravolge) i principi costituzionali che costituiscono il fondamento di tali istituti il novero amplissimo dei soggetti obbligati a raccogliere le firme e il numero elevato (specie guardando al passato) di sottoscrizioni da raccogliere in molti territori limitati e in poco tempo, esponendo il diritto di elettorato passivo a "un sacrificio che appare verosimilmente sproporzionato ed irragionevole".
Personalmente mi colpisce - e non condivido in pieno - il fatto che la giudice abbia ritenuto di superare il riferimento temporale contenuto nelle previsioni del 2015 (e aggiornato nel 2017) richiedendo che un gruppo parlamentare sia costituito all'inizio della legislatura per poter concedere l'esenzione. Per quanto si tratti di una scelta in parte comprensibile, che cerca di premiare chi comunque si è sottoposto alle precedenti elezioni ed è riuscito a ottenere un risultato che ha permesso l'ingresso di una compagine qualificata di elette ed eletti almeno in una delle due Camere, è il caso di ricordare che il riferimento all'esistenza dei gruppi alla data del 1° gennaio 2014, contenuto nel c.d. Italicum, era già a una certa distanza dall'inizio della legislatura e serviva a fotografare la situazione di allora, onde evitare la nascita di altri gruppi "a fini di esenzione"; ancor più lontana dall'inizio della legislatura era la data del 15 aprile 2017, inserita al posto della precedente in sede di discussione del Rosatum-bis, per ragioni notoriamente politiche (si volevano evitare polemiche che sarebbero sorte se si fosse sbarrato l'accesso ad Articolo Uno). Nell'ordinanza manca quindi forse un minimo di spiegazione del motivo - in parte, come si è detto, intuibile - per cui sia stato scelto l'inizio della legislatura come momento rilevante per concedere l'esenzione: tale opzione, tra l'altro, non gioverebbe affatto a +Europa, che un gruppo parlamentare non l'ha mai avuto (ma ovviamente non è detto che l'incostituzionalità di una norma debba essere per forza corretta nel senso che più conviene a chi ha fatto emergere un profilo di illegittimità nel processo). 
Va detto che nel dispositivo dell'ordinanza non sono state indicate le c.d. "rime obbligate" che la Corte costituzionale dovrebbe seguire in un'eventuale sentenza di accoglimento delle questioni sottoposte. Sempre la giudice Bifano, peraltro, precisa proprio che la stessa Consulta nelle sentenze più recenti ha sostenuto che "di fronte alla violazione di diritti costituzionali, non può essere di ostacolo all'esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l'assenza di un'unica soluzione a 'rime obbligate' per ricondurre l'ordinamento al rispetto della Costituzione". Questo sempre in ossequio al principio che vuole evitare la presenza o persistenza di "zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale specie negli ambiti... in cui è più impellente l'esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore" (così sì legge nella sentenza n. 99/2019). Il legislatore conserva dunque la sua discrezionalità (come ha rimarcato anche la difesa erariale), ma la Corte può comunque intervenire "quando le scelte [...] adottate dal legislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il sistema legislativo consenta l'individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che siano tali da 'ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all'eliminazione di ingiustificabili incongruenze'.... essendo sufficiente che il 'sistema nel suo complesso offra alla Corte 'precisi punti di riferimento' e 'soluzioni già esistenti', ancorché non 'costituzionalmente obbligate'" (così la sentenza n. 40/2019). 
Sarebbe il sistema giuridico stesso, insomma, a offrire più opzioni per sostituire una norma ritenuta del tutto irragionevole: le sentenze citate in effetti riguardano la commisurazione delle pene, ma per la giudice proprio le citate sentenze costituzionali del 2014 e del 2017 in materia elettorale avevano il proposito esplicito di evitare "zone franche" proprio perché occorreva salvaguardare innanzitutto le garanzie costituzionali. E non si tratterebbe di un intervento indebito nella sfera del legislatore perché le opzioni che la Corte dovrebbe valutare per sostituire la norma irragionevole si ritroverebbero "nelle scelte che il legislatore ha già reiteramente compiuto", in particolare con la riduzione a un quarto delle firme operata prima delle elezioni del 2018 e del 2013, nonché con l'estensione dell'esenzione dalla raccolta delle sottoscrizioni ai partiti costituiti in gruppo in almeno una delle due Camere.
Non è invece stata sollevata alcuna questione a proposito della mancata inclusione stabile degli avvocati cassazionisti tra i soggetti abilitati ad autenticare le sottoscrizioni (secondo l'elenco che si trova all'art. 14 della legge n. 53/1990): in questo caso, infatti, l'analisi storica della disciplina ordinaria e transitoria sulla raccolta delle firme avrebbe mostrato "la natura del tutto estemporanea della specifica estensione soggettiva", insufficiente dunque per elevarla a regola. Tanto più - profilo su cui si concorda in pieno - che la platea dei soggetti autenticatori oggi è già amplissima. Per la giudice aver permesso agli avvocati cassazionisti di autenticare le firme solo per le elezioni politiche del 2018 resta una scelta "difficilmente comprensibile", ma non al punto da apparire manifestamente irragionevole.
La questione, assai delicata, passa dunque alla Corte costituzionale, con la consapevolezza che il contenuto della sua decisione - a prescindere dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale che potrà contenere oppure no - avrà comunque effetto sull'agenda del Parlamento nei due anni di legislatura rimanenti. Se i profili di incostituzionalità saranno accolti anche solo in parte, è probabile che le Camere colgano l'occasione per altri interventi; se non saranno accolti, è comunque assai probabile che la pronuncia contenga seri moniti sull'inopportunità di mantenere regole che creino il più volte lamentato "sbarramento all'ingresso", per cui il Parlamento potrebbe voler intervenire ugualmente per rimediare. In un caso o nell'altro, sarà questione di volontà.

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