sabato 12 gennaio 2019

Il simbolo del Pd alle europee: "non un dogma" o "patrimonio"?

Contrariamente a quanto detto ieri, non è affatto scontato che alle elezioni europee il simbolo del Partito democratico sia presente, in maniera più o meno riconoscibile. Dal 2008 in avanti nessun appuntamento elettorale nazionale si era svolto senza che l'emblema disegnato da Nicola Storto fosse regolarmente presente sulle schede: in quello stesso anno, con Walter Veltroni segretario e candidato alla guida del governo (e con il nome scritto anche sul contrassegno); alle europee del 2009, con la reggenza di Dario Franceschini; alle politiche del 2013, con segretario Pierluigi Bersani; alle europee dell'anno dopo, con Matteo Renzi segretario (senza il suo nome, ma con il riferimento al Pse); alle politiche del 2018, con Renzi ancora alla guida del partito giusto per qualche mese.
A prescindere dalla leadership e dalle altre vicende del partito, dunque, il simbolo è stata una costante delle competizioni elettorali nazionali (e, si potrebbe dire con buona tranquillità, anche regionali) dei dieci anni precedenti. Ci si apprestava a ritenere del tutto normale la presenza dell'emblema dem anche questa volta, magari con un leggero ritocco in chiave europea o per marcare l'appartenenza al socialismo europeo, ma di colpo quella normalità è stata messa in discussione. 


Le posizioni in campo

A far partire, quasi all'improvviso, il dibattito hanno provveduto le dichiarazioni che Nicola Zingaretti, candidato alla segreteria del partito, ha rilasciato a Simone Canettieri del Messaggero:
Le europee potrebbero essere la tomba del Pd. 
"Dovremo costruire una nuova piattaforma per cambiare l’Europa. Serve una lista forte, unitaria e aperta".
Lista aperta significa che non sarà una lista del Pd?
«Dobbiamo aprirci e allargarci, aggregare forze culturali, economiche e sociali per dare un’idea che c’è un’Europa da rifondare. Loro, i leghisti, vogliono picconare l’Europa noi rifondarla». 
Il simbolo del Pd sarà un dogma per la lista delle europee o se ne potrà fare a meno? 
«Non è un dogma, ma questo poi lo decideremo. Dobbiamo ripartire dal Pd come promotore di una lista ampia, con il protagonismo degli intellettuali del mondo della ricerca e della scuola, del mondo del lavoro, dei giovani e dell’associazionismo».
All'AdnKronos che gli chiedeva se la proposta di ZIngaretti, con tanto di uso non scontato del simbolo, potesse essere un passo verso il suo Fronte Repubblicano, l'ex ministro Carlo Calenda ha seccamente risposto "Sì", specificando però che la questione del simbolo è "secondaria" e che il progetto della lista europeista unitaria lo appassiona molto di più della discussione sulla permanenza o meno dei rispettivi emblemi nel contrassegno complessivo. A un soggetto più ampio rispetto all'attuale Pd guarda anche Matteo Richetti: "Come con l'Ulivo, nel dare forma alla coalizione ci fu una gradualità anche rispetto alla presenza dei partiti. Credo si possa immaginare un simbolo nuovo che contenga le forze politiche che lo compongono ma non solo, anche movimenti e dinamiche associative. Ma il simbolo va di pari passo con il progetto: se il progetto è nuovo e ampio, sarebbe improbabile pensare a non modificare e innovare la forma oltre che la sostanza".
Non sembra proprio questa l'idea di Maurizio Martina, attuale segretario reggente del Pd e candidato a sua volta alla segreteria. A lui l'idea della "lista aperta" non dispiace affatto, ma precisa:
Per me il simbolo del Partito Democratico è un patrimonio di cui andare orgogliosi. Esprime l'impegno di migliaia di persone che si battono per un'Italia più giusta. Il punto non è rinunciarvi ma metterlo al servizio insieme ad altri per una grande battaglia per la nuova Europa contro i nazionalpopulisti di casa nostra.

Le ragioni di qualunque scelta

Se queste, a grandi linee, sono le idee che si sono confrontate ieri, occorre cercare di comprenderne le ragioni, a partire da quelle di Nicola Zingaretti. Il fatto che lui parli della necessità di una "nuova piattaforma per cambiare l'Europa", che dia luogo tra l'altro a "una lista forte, unitaria e aperta", già prefigura la necessità o il desiderio di costruire qualcosa di nuovo o comunque di diverso, che certamente possa contenere il Pd e probabilmente essere guidato da questo, ma con un certo livello di discontinuità, magari anche grafica. Se l'intento di Zingaretti, infatti, è di "aggregare forze culturali, economiche e sociali" in una lista caratterizzata dal "protagonismo degli intellettuali, del mondo della ricerca e della scuola, del mondo del lavoro, dei giovani e dell’associazionismo", è tutto meno che scontato che le persone provenienti da quei mondi - e che a questi, verosimilmente, ritorneranno in seguito - accettino di candidarsi sotto un simbolo dichiaratamente di partito; ancor meno scontato è che possibili candidati ed elettori vogliano legarsi all'emblema del Pd, legato a posizioni e persone (attuali o del passato) con le quali è legittimo identificarsi, ma da cui è altrettanto legittimo volersi distanziare.
Al problema delle nuove forze che si vogliono attrarre nell'ambito della lista, si aggiunge - anche se nel discorso di Zingaretti non è evidente - quello dei gruppi che potrebbero essere interessati a riavvicinarsi ai dem dopo essersene allontanate per le ragioni più diverse nei mesi precedenti: quel riavvicinamento - più che dei dirigenti, degli elettori, cioè di coloro che determinano davvero l'esito del voto - potrebbe essere più difficile se rimanesse lo stesso simbolo abbandonato relativamente poco tempo prima, evocando più le ragioni per cui si era presa la porta rispetto a quelle che potrebbero far tornare indietro.
La posizione di Maurizio Martina, per parte sua, fa leva esplicitamente su un aspetto e, probabilmente, implicitamente su un altro. Rivendicare la capacità del simbolo di evocare "l'impegno di migliaia di persone che si battono per un'Italia più giusta" significa individuare in quell'emblema qualcosa di più della semplice natura di segno distintivo, di marchio, cioè ritenere che il logo riesca effettivamente a riassumere e trasmettere i valori dem che dovrebbero unire militanti, dirigenti e candidati. Ciò potrebbe essere vero, anche solo per la durata della vita del simbolo: presentato il 21 novembre 2007, l'emblema del Pd resiste da oltre 11 anni. Molto meno, ovviamente, rispetto a quelli storici di Pci e Dc, un po' meno dell'albero-quercia passato dal Pds ai Ds, abbastanza meno rispetto all'Ulivo ancora presente in miniatura - obtorto collo e contro il volere del suo creatore Andrea Rauch - all'interno del logo del Pd, anche se qui il conto si complica: è vero che l'Ulivo è apparso sulle schede elettorali nazionali nel 1996, nel 2001, nel 2004 (Uniti nell'Ulivo) e nel 2006, ma bisogna ammettere che tra un'elezione e l'altra i singoli partiti prendevano puntualmente il sopravvento. In ogni caso, la vita del simbolo del Pd è già più lunga di quello del Ppi (nelle sue varie versioni) e della Margherita, per non parlare dell'Unione, finita prestissimo - e senza troppi rimpianti, a quanto pare - nel dimenticatoio.
Se questo discorso appariva abbastanza esplicito, nelle parole di Martina sul valore del simbolo e sull'opportunità di "metterlo al servizio" della battaglia per l'Europa si può leggere sottotraccia anche un'altra considerazione, legata piuttosto alla riconoscibilità. Ogni cambio di rotta, infatti, porta con sé il rischio di non essere riconosciuti dagli elettori meno attenti alle vicende politiche. Un rischio che, come sottolineano anche gli studiosi dell'opinione pubblica quali Renato Mannheimer, è decisamente sfumato rispetto al passato, quando cambiare un simbolo sottolineava anche un cambio di idea sui valori; quel rischio tuttavia esiste, soprattutto se si crede - come Martina - che nell'emblema di partito ci sia ancora un messaggio da esprimere, magari non forte come un tempo ma pur sempre presente.
Certo è che da tempo, nei comuni sotto i 15mila abitanti, il simbolo del Pd è una vera rarità. La legge elettorale ci mette del suo, visto che obbliga chi si candida a sindaco a essere sostenuto da una sola lista: se si può contare su una coalizione di centrosinistra. piuttosto che inserire la "pulce" del simbolo nel contrassegno assieme ad altre e rischiare di renderle illeggibili, si preferisce evocare anche solo cromaticamente il logo nazionale o puntare su sempreverdi simboli civici o territoriali, maggiormente in grado di unire. Se questo "gioco a nascondino" dura ormai da anni, è inutile negare che in varie situazioni si è scelto di non utilizzare il simbolo del Pd anche per non farsi identificare con i suoi dirigenti nazionali o perché si è temuto che potesse apportare più danno che beneficio, soprattutto in certi periodi difficili (e questo, indubbiamente, lo è), oppure lo si è accantonato per trovare qualcosa che unisse davvero tutta la coalizione e potesse raccogliere i voti degli elettori. Un po' quello che, mutatis mutandis, ha in mente Zingaretti.
Certamente non è facile trovare un elemento grafico unificante: le ultime europee ricordano il caso della lista L'altra Europa con Tsipras, riuscita quasi incredibilmente a superare la soglia del 4% (impresa fallita più volte dalla sinistra in precedenza e pure in seguito) anche grazie a un po' di voti in uscita dal Pd, ma il contrassegno era tutto letterale, senza riferimenti figurativi. Anche se il deposito dei simboli al Ministero dell'interno è previsto per il 7 e l'8 aprile, quindi c'è ancora tempo, si tratta pur sempre di meno di tre mesi e sarebbe opportuno trovare una soluzione - qualunque sia - con un po' di anticipo rispetto a quei giorni, per far conoscere l'eventuale simbolo nuovo agli elettori e farli abituare: i marchi politici di Lega e MoVimento 5 Stelle, infatti, non avranno certo bisogno di presentazione e i loro elettori non faticheranno a individuarli.

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