Il 18 gennaio, per i cattolici in politica, non sarà un giorno come un altro: giusto un quarto di secolo addietro, in due luoghi piuttosto vicini del centro di Roma, si consumava in modo ufficiale l'inizio della diaspora. Nel pomeriggio, la Democrazia cristiana guidata da Mino Martinazzoli teneva la sua ultima assemblea di iscritti presso l'istituto Luigi Sturzo di via delle Coppelle (quattro minuti a piedi da Palazzo Madama, dieci dalla sede storica di Piazza del Gesù): lì scelse il nuovo nome di Partito popolare italiano, in ossequio alla formazione cattolica fondata nel 1919 - giusto cent'anni fa - dal sacerdote cui era intitolato il luogo scelto per la "nuova nascita". Al mattino, invece, a 500 metri di distanza, presso il Grand Hotel de la Minerve (a due passi dal Pantheon, quattro minuti a piedi da Piazza del Gesù e cinque dal Senato) il gruppo di dirigenti e iscritti democristiani che aveva scelto di stare nel centrodestra, guidato da Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella, si era riunito denominandosi Centro cristiano democratico.
La scissione richiese tempo per completarsi: gli organi della Dc si riunirono tra il 22 e il 29 gennaio per deliberare sul cambio di nome (ma nessuno convocò un congresso, cosa che avrebbe lasciato strascichi giuridico-politici e generato infiniti tentativi di "tornare alla Dc"); il simbolo del Ccd - fondo blu, vela gonfiata da destra, con bordo tricolore e scudo crociato "negativo" impresso sopra - fu "varato" il giorno 23, mentre ci volle un'altra settimana per definire gli aspetti patrimoniali (il 30 gennaio Rosa Jervolino Russo per il Ppi e Francesco D'Onofrio per il Ccd firmarono il famoso accordo con cui, pur non essendo giuridicamente dovuto, al neonato gruppo della vela fu riconosciuto il 15% del patrimonio, il comodato per sei mesi della sede Dc di Via delle Botteghe oscure e il versamento di un miliardo di lire).
Ancora più dolorosa sarebbe stata la frattura litigiosa - dentro e fuori dalle aule del tribunale di Roma - del 1995, una lotta interna al Ppi esplosa l'11 marzo e la cui fase acuta sarebbe durata quattro mesi, chiusi solo in parte dagli "accordi di Cannes" tra Rocco Buttiglione (futuro leader dei Cristiani democratici uniti, Cdu) e Gerardo Bianco (segretario del Ppi) con cui le parti si sarebbero divisi nomi, simboli, testate e dipendenti (mentre la co-gestione del patrimonio sarebbe proseguita fino al 2002, con tanto di giallo finale sulla "sparizione" di molti immobili). Tra il 1993 (anno in cui Martinazzoli iniziò il suo percorso di rinnovo) e il 1995, la stessa Chiesa italiana prese atto della fine dell'unità politico-partitica e, attraverso l'allora presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, avallò la scelta che inaugurò la presenza dei cattolici in quasi tutti i partiti, al fine di instillare i loro valori nelle varie posizioni a confronto.
Proprio quella frammentazione, destinata ad acuirsi con il tempo, avrebbe però portato nell'area cattolica italiana un crescente "disorientamento politico, la difficoltà a individuare forze e soggetti politici che sappiano farsi carico delle istanze culturali e sociali che provengono da quel mondo ideale e valoriale". E' questa la consapevolezza di Giorgio Merlo, giornalista e politico di lungo corso, che ha vissuto tutta quella stagione politica con le sue varie militanze conseguenti (Dc, Ppi, Ulivo, Margherita, Pd) e che alla fine del 2017 ha pubblicato una riflessione sotto forma di breve saggio, Cattolici senza partito? (per i tipi della romana Edizioni Lavoro, 13 euro). Sa che la Dc non torna (al di là dei citati tentativi degli irriducibili) perché è stata frutto di una precisa esperienza storica, ha contribuito - nel bene e nel male - alla vita del Paese ma è andata in mille pezzi; sa però anche che "in politica un vuoto è destinato prima o poi a essere colmato". Il problema, ovviamente, è "come".
In un contesto di forte personalizzazione della politica (iniziata con il sistema maggioritario e proseguita ben oltre) e di successo dei populismi sotto varie forme, Merlo fa emergere tutto "il tormento della 'generazione del Concilio'" - così lo descrive nella sua prefazione Guido Bodrato, storico esponente della sinistra Dc e tra i fondatori dei Popolari di Bianco, di cui lui stesso schizzò il simbolo, prima che un grafico lo sistemasse - vale a dire dei cattolici che "credono nell'autonomia della politica", che non chiedono un nuovo, impossibile partito (unico) di cattolici ma faticano a riconoscersi nelle forze rimaste in campo in una politica che "sembra senz'anima". La stessa fatica, per inciso, che avvertono molti elettori di sinistra.
La riflessione di Merlo è stata innescata dai recenti e reiterati stimoli di Gualtiero Bassetti, divenuto presidente della Cei dieci anni dopo la fine dell'incarico di Ruini. L'invito a dare una "nuova rappresentanza politica" ai cattolici in Italia, magari approfittando di una nuova prevalenza del sistema proporzionale nell'elezione del Parlamento (anche se la presenza della soglia di sbarramento certo non aiuta eventuali nuove formazioni ad approdare nelle aule), dovrebbe servire a far tramontare un'epoca di sempre maggiore irrilevanza degli stessi cattolici nella vita politica (fatta eccezione per le battaglie intorno ai "valori non negoziabili", peraltro spesso brandite in modo strumentale e con poca ragionevolezza) e, contemporaneamente, in cui manca una formazione autenticamente laica ma di ispirazione cristiana. Un'assenza pesante che, secondo Merlo, è frutto di una carenza di coraggio e della mancanza di una vera classe dirigente, ingredienti senza i quali quel vuoto non si colmerà: cosa non facile, in un'epoca di partiti personali o personalizzati, in cui non c'è spazio per aree che rivendicano autonomia di pensiero rispetto al leader (o in cui le continue scaramucce valoriali finiscono per logorare l'immagine del partito: Pd docet).
Ritiene di analizzare così Merlo l'evoluzione del cattolicesimo democratico:
Il passaggio dalla Dc al Ppi è insieme una risposta politica alla crisi della Democrazia cristiana e alla questione morale e il tentativo di riposizionare in un nuovo contesto una tradizione politica che giustamente ritenevamo ancora vitale. Come sempre, nei momenti più gravi e più tormentati della vita del paese, i cattolici democratici e i cattolici popolari non si sono chiusi in modo autoreferenziale, respingendo atteggiamenti attendisti o nostalgici. Si è cercato di guardare oltre, nella convinzione che fosse giusto riaffermare l'identità e l'originalità di un partito di ispirazione cristiana rispetto alle culture socialdemocratica e liberaldemocratica, attingendo sempre dal magistero degasperiano: e cioè, innovare la politica guardando all'interesse generale del paese. Questa è stata, nel bene e nel male, l'esperienza del Ppi dal 1993 al 2002 e questa è stata anche la scommessa che i Popolari hanno portato nella Margherita. La responsabilità che il Ppi si era assunto con un atto di discontinuità rispetto all'ultima Dc e di continuità rispetto al popolarismo non si è affatto esaurita nella stagione contemporanea, seppur molto diversa rispetto alle esperienze vissute nel passato recente e meno recente. La stessa esperienza del Ppi, seppur in parte bistrattata dalla vulgata storica e politica, è stata assai meno deludente di quanto possa registrare il semplice dato elettorale. E' un bilancio che certifica, tra mille difficoltà e mille fatiche, quella che si potrebbe definire come una "fedeltà creativa" ai valori del cattolicesimo democratico. E così fu anche per l'esperienza dell'Ulivo di Prodi che nacque anche per la tenace ricerca dei Popolari di offrire un contributo positivo alla crisi democratica del paese, allo scontro sociale in atto alla fine del 1994. E ancora, era immaginabile l'Ulivo senza i Popolari? Senza il contributo del riformismo cattolico, senza i valori fondanti di quel riformismo? [...] Si è accettato, anche in quella stagione - come, del resto, anche nella successiva fase della Margherita - di essere il lievito e il sale di una nuova fase politica, di una nuova stagione dell'impegno dei cristiani nei partiti e nella vita politica e istituzionale. Lo si è fatto avvertendo la necessità di una contaminazione con culture e sensibilità politiche diverse ma non per questo estranee o distanti. Lo si è fatto nella fedeltà più rigorosa e feconda alla nostra storia. Si è accettato, per dirla con Rosy Bindi, di "trafficare" e "scambiare" i nostri talenti per moltiplicarne il valore.
Per l'autore, l'impegno politico dei cattolici è "cercare di realizzare una sintesi tra la coerenza morale e la competenza professionale, attraverso le necessarie mediazioni, nel pieno rispetto della laicità della politica". Un approccio molto concreto, legato alle questioni poste dalla quotidianità e che richiedono progetti tangibili e realistici; un approccio "adulto", fondato sui valori senza blindarli in modo cieco, sulla responsabilità delle scelte, sull'intento di dare voce a ogni parte di una società in movimento. Pare non esserci nulla di simile nello scenario politico di oggi, in cui - a detta delle rilevazioni demoscopiche - ormai i cattolici votano come tutti gli altri, in un tempo di crisi non tanto della politica, ma dei partiti, che di questa sono stati per anni lo strumento principale, ma che non avevano mai abbandonato la loro fisionomia giuridica di associazioni di fatto, "all'interno delle quali spesso mancava una vera cittadinanza per i valori di trasparenza e di correttezza democratica che sono e restano alla base del nostro patto costituzionale". Non si poteva pensare che l'avvento dei partiti personali portasse miglioramenti da questo punto di vista, né ha aiutato la costante delegittimazione - sconfinata nell'accanimento - della politica in generale da parte di certa informazione (una delegittimazione che, alla fine, è in grado di colpire tutti, anche coloro che l'hanno cavalcata in passato).
Ciò induce Merlo a ritenere necessaria una riforma "morale, politica e legislativa" dei partiti. Non è bastato, per contenere l'antipolitica, ridurre drasticamente, fino ad azzerarli, i rimborsi elettorali, imporre nuove forme di finanziamento e contribuzione volontaria o indiretta regolate in modo più puntuale e severo. Si è trattato di misure tardive (pur se necessarie), essendo innestato da tempo il qualunquismo che denigra la politica per intero e rischia - con l'antipolitica - di far saltare l'intero sistema. Eppure per l'autore senza partiti "si archivia la democrazia" e si corre il rischio di affidarsi a "uomini della provvidenza" chiamati a garantire o a riportare ordine nella società, oppure a gruppi di affari o di potere che vedono le istituzioni solo come luoghi in cui le loro decisioni devono essere ratificate. "Oggi il compito dei politici, dei partiti e della politica resta quello di dare l'esempio. Le parole e le promesse sono pari a zero. Servono, semmai, fatti trasparenti e atteggiamenti personali credibili che provengono dall'alto".
Anche il modello dei partiti personali, come negazione dell'impianto democratico e partecipativo che dovrebbero avere i partiti, sarebbe da archiviare ("quanti sono i partiti italiani che non riportano il cognome del leader nel simbolo? Pochi se non pochissimi", si chiede Merlo, anche se il Ppi e la Margherita in passato hanno finito per ospitare i nomi di Prodi e di Rutelli, sia pure solo alle elezioni); lo stesso Partito democratico, nato come "partito plurale" nato per farvi confluire "le grandi culture riformiste, democratiche e costituzionali del nostro paese", ha finito per trasformarsi in un partito del leader di turno, non diversamente dalle altre forze politiche. Occorre allora codificare per legge i principi di democraticità e trasparenza - cosa in parte già fatta - e renderli obbligatori, moralizzando allo stesso tempo l'intera vita pubblica (non solo i partiti o gli eletti); occorre però anche chiedersi "se i partiti, grandi o piccoli che siano fa poca differenza, possono fare a meno di una cultura che li ispira". La vera sfida per il futuro, probabilmente, è questa, per giunta in un contesto che non sembra capirla (come anche le elezioni del 2018, successive all'uscita del libro, hanno dimostrato) e riguarda anche l'area cattolica: "va ridata cittadinanza politica e culturale a un 'pensiero' che non può essere, ancora una volta, archiviato e banalizzato" anche perché, a dispetto della secolarizzazione, ha ancora una certa diffusione nel paese.
Ci sarebbe bisogno, secondo Merlo, di puntare sull'impegno per la pace, per la lotta alla povertà, che persegua realmente la giustizia sociale accanto allo sviluppo e si curi della famiglia come comunità di base, punti fondamentali del magistero della Chiesa che oggi sembrano lasciati nel dimenticatoio: lo si dovrebbe fare anche divisi, in questa circostanza, per poi magari approdare di nuovo a un partito in cui ritrovarsi. Non "un partito dei cattolici" (inteso "unico"), ma "di cattolici" che si riconoscono in un'ispirazione "cristiana, laica e chiaramente riformista". Avendo peraltro ben presente una frase di Mino Martinazzoli: "Se l'unità politica dei cattolici non è un dogma, non lo è neppure la diaspora", per cui non è da escludere che si riesca ad aggregare e costruire qualcosa a partire dai valori, cercando di evitare gli errori del passato: "le difficoltà attuali del Partito popolare - disse sempre Martinazzoli all'inizio del Terzo Millennio - derivano dal fatto che non siamo stati Popolari, ma solo ex democristiani. Non siamo stati capaci di rialimentare quel tragitto".
Per rilanciare il popolarismo cristiano nella nuova scena politica italiana, Merlo ne è convinto, sono necessari il recupero del "deficit di elaborazione politica e culturale" (per cui non si può ignorare il ruolo che hanno avuto figure come Sturzo, De Gasperi e Moro, che seppero guardare a una determinata parte della società, traendone però progetti per un intero paese) e, soprattutto, "uno scatto di fantasia e una forte discontinuità anche a livello organizzativo", il che si dovrebbe tradurre in "un processo di riaggregazione, capace di ricomporre un tessuto sociale oggi disperso e frantumato". Un'idea vissuta in prima persona: da mesi Giorgio Merlo è tra i dirigenti di una realtà al momento denominata "Rete bianca", cioè "un movimento politico e culturale nato con l'obietivo di favorire e promuovere la 'ricomposizione' di questa fetta di società", fatta di associazioni sparse per tutto il paese, fondate territorialmente e culturalmente. Non c'è ancora un simbolo definito e, soprattutto, non ci si deve interrogare sulla collocazione politica o su eventuali alleanze: "si sta con la propria identità e poi si deciderà in seguito". In questo senso, i cattolici possono "rinascere" alla politica senza partito, magari per prepararsi a costituirne uno, con una vera classe dirigente: con quale simbolo, è presto per dirlo, ma certamente non sarà il glorioso scudo crociato, che per la sua storia merita di riposare tranquillo, non più conteso a destra e a manca.
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