lunedì 27 dicembre 2021

Partito liberale europeo, il tribunale conferma: il nome va cambiato

Poco prima delle vacanze di Natale è arrivata la decisione del Tribunale di Roma sul contenzioso sorto tra il Partito liberale italiano e il Partito liberale europeo, almeno per quanto riguarda la sua fase cautelare. Nelle scorse settimane ci si era occupati del decreto, emesso inaudita altera parte (nelle ultime ore di apertura dei seggi per le elezioni amministrative 2021) su richiesta del Pli, con cui il giudice Fausto Basile aveva ordinato al Ple 
"la cessazione immediata dell’utilizzo del marchio figurativo e denominativo, nonché della denominazione sociale". Il 16 dicembre il sito dello studio che difende il Pli ha pubblicato l'ordinanza con cui tre giorni prima lo stesso giudice - della XVII sezione civile, specializzata in materia di impresa - ha in parte confermato il suo primo verdetto, sia pure solo con riferimento al nome, con una motivazione più ampia e dettagliata (anche se questo, come si ricordava, è solo il giudizio cautelare e non ancora quello di merito, la cui prima udienza - a quanto è dato conoscere, in base a pubbliche informazioni - sarebbe fissata nella seconda metà di maggio del 2022).
Innanzitutto, l'ordinanza citata permette di conoscere un po' meglio i termini della causa. In particolare il Pli, nel ricorso con cui aveva chiesto al tribunale di ordinare al Ple di smettere di usare il suo "marchio figurativo e denominativo" e comunque il suo nome perché questi avrebbero violato i marchi registrati dal Pli e il (diritto al) nome utilizzato dallo stesso, aveva rivendicato il deposito come marchio della denominazione "Partito liberale italiano" e di altri "marchi di famiglia" e di essere l'unico soggetto legittimato a farne uso, ritenendosi evidentemente leso dall'uso di un nome in buona parte simile da parte del Ple (di più, la presentazione da parte di quest'ultimo di candidature alle elezioni comunali e suppletive di ottobre avrebbe reso impossibile al Pli attendere i tempi ordinari della giustizia per ottenere un rimedio contro questi usi ritenuti indebiti).
Come si è detto, il giudice aveva emesso il provvedimento richiesto, sia pure non in prima battuta: in un primo tempo l'udienza era stata fissata per il 29 settembre, giorno in cui la difesa del Pli non aveva ancora ricevuto l'avviso di ricevimento della notifica del ricorso al Ple effettuata via posta, ma aveva insistito - in quel caso con successo - per l'emissione del decreto di inibitoria cautelare all'uso del nome (nei giorni successivi, peraltro, il Partito liberale italiano aveva depositato un altro ricorso, relativo al comportamento dei provider Aruba e Facebook, cui evidentemente - stando a quanto si comprende leggendo l'ordinanza - era stato chiesto di eseguire il decreto del giudice non mostrando più il nome del Ple, mentre lo stesso Partito liberale europeo avrebbe diffidato le stesse società affinché non ottemperassero alle richieste del Pli). 
Prima della nuova udienza si era poi costituito il Ple, chiedendo di revocare il decreto di inibitoria (perché la trattazione e decisione del caso spettava al giudice amministrativo, per altre ragioni formali o, comunque, perché le richieste del ricorrente non erano fondate) e di respingere le domande del Pli.  L'udienza, prevista  per il 14 ottobre, è stata poi rimandata al 1° dicembre (visto il ritardo con cui il Ple aveva appreso tanto del ricorso del Pli, quanto del decreto emesso a suo favore e senza aver ascoltato la controparte): solo in seguito a quella nuova udienza il magistrato si è riservato di decidere e ha emesso l'ordinanza che qui si ripercorre. 

Alcune questioni di rito

Si è in primis - e in modo condivisibile - escluso che a occuparsi delle lamentele del Pli dovesse essere il giudice amministrativo: benché a spingere il partito a chiedere una tutela cautelare (per evitare di vedere vanificato un eventuale provvedimento emesso successivamente) fosse stato l'uso elettorale del nome "Partito liberale europeo", la causa aveva a oggetto il "diritto al nome" (e all'uso di un segno distintivo), certamente spettante al giudice civile. 
Più delicata appariva la questione della competenza: secondo il Ple, infatti, non essendo stati registrati come marchi i segni di cui il Pli affermava la titolarità e  lamentava la lesione, non c'era motivo di assegnare la causa alla sezione specializzata in materia di impresa (invece che a una ordinaria). Per il giudice, invece, "per costante giurisprudenza, la competenza va individuata in base alla prospettazione della domanda, a prescindere dalla sua fondatezza o meno nel merito" e certamente il Pli aveva richiesto anche la tutela del segni depositati come marchi: il fatto che alcune di queste domande di marchio non siano state accolte non ha alcun riflesso sulla competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà  industriale, cui spetta conoscere "tutte le controversie sui diritti di proprietà industriale, titolati e non", incluse - come fissato dalla Corte di cassazione - "quelle relative al marchio di fatto non registrato", che ormai gode della stessa tutela giurisdizionale prevista per i segni registrati (in più, visto che il ricorso di cui si parla è stato presentato nel corso della causa di merito già pendente presso la sezione specializzata, è lo stesso codice di procedura civile a prevedere che delle domande cautelari collegate alla causa di merito si occupi lo stesso giudice, dunque la stessa sezione specializzata).
Il magistrato ha poi ribadito di aver fissato un'udienza prima delle elezioni, in modo da instaurare il contraddittorio prima di emettere il provvedimento inibitorio chiesto dal Pli; non essendo però andato a buon fine il tentativo di convocare entrambe le parti prima del voto, attendere ancora con l'inibitoria avrebbe significato comprometterne l'attuazione dell'inibitoria stessa (anche se, come si è visto, il decreto è stato depositato, dunque reso noto e conoscibile, quando ormai il turno elettorale del 3-4 ottobre era quasi terminato). Il ritardo con cui il Ple aveva ricevuto la notifica del ricorso non sarebbe stato poi imputabile al Pli (che avrebbe provveduto a spedire il plico entro il termine assegnato dal giudice e non era tenuto a segnalare l'urgenza della notifica); allo stesso modo, non avrebbe prodotto effetti sul decreto di inibitoria la notificazione del primo ricorso alla vecchia sede legale del Ple (invece che a quella attuale), posto che in ogni caso il contraddittorio è stato correttamente instaurato in seguito (con tanto di concessione di più tempo alle parti, soprattutto al Ple, per integrare le loro difese.

I profili di merito sui marchi...

Nella parte dell'ordinanza dedicata al merito, il giudice ha ritenuto opportuno distinguere le argomentazioni legate alla tutela dei marchi e quelle in materia di tutela del (diritto al) nome/simbolo del partito, partendo dalle considerazioni in materia di segni distintivi.
Da una parte, il magistrato ha rilevato che - in base alle ricerche del Ple, ma che chiunque può svolgere sulla banca dati dell'Ufficio italiano brevetti e marchi, al punto che se ne era già parlato su questo sito mesi fa) di alcuni segni rivendicati come marchio dal Pli è stata rifiutata la registrazione (inclusi il simbolo attuale del Pli e quello del partito negli anni '80, citati espressamente nel ricorso). Questo fatto, secondo il Ple, doveva conferire ai segni rivendicati dal Pli la natura di meri marchi di fatto, "inidonei a conferire al titolare i diritti di esclusiva" e che per giunta sarebbero stati privi di carattere distintivo, essendo formati da parole di uso comune e "facenti chiaramente riferimento alla dottrina politica liberale", non potendosi immaginare il monopolio dell'uso della parola "liberale" in capo al Pli. Per quest'ultimo partito, tuttavia, se il rigetto delle domande di marchio dipendeva - ipotesi che chi scrive ha già trattato da tempo in sede scientifica e su questo stesso sito, immaginandola anche proprio con riferimento al caso che ora si tratta - dalla consolidata posizione del Ministero dell'interno contraria alla registrazione come marchio dei segni con significazione politica aventi le caratteristiche tipiche dei contrassegni elettorali (inclusa la forma rotonda), quei segni meritavano comunque tutela come marchi di fatto, tra l'altro noti da tempo.
Per il giudice chiamato a dirimere questa controversia, anche sulla base dei precedenti in materia di conflitto tra partiti, la tutela basata sulla disciplina dei segni distintivi contenuta nel codice della proprietà industriale opera solo ove "il soggetto politico svolga attività di carattere commerciale", cioè "volta a soddisfare esigenze di carattere prevalentemente economico: ciò è comunque possibile, ben potendo i partiti "
svolgere anche attività di stampo commerciale, legate ad attività editoriali, nonché di comunicazione, propaganda e merchandising, sfruttando la notorietà del segno", così come dal 1992 la registrazione di un segno come marchio non è più preclusa a chi non sia un imprenditore (ed è ragionevole che un partito possa voler registrare un segno notorio a questo riconducibile, così da "impedire a terzi di impiegare segni identici o simili nell'attività economica"). Questo basterebbe, secondo la dottrina che il giudice ha ritenuto di citare, per far ritenere "ancora più solida la protezione del nome dei partiti politici contro gli usi usurpativi in senso ampio, volti cioè a sfruttare economicamente la carica suggestiva della notorietà delle associazioni stesse".
Premesso ciò, il giudice non ha ritenuto di confermare la parte del decreto che inibiva al Ple l'uso del "marchio figurativo e denominativo": il fatto che dei segni espressamente menzionati dal Pli nel suo ricorso sia stata rifiutata la registrazione non esclude una tutela di questi "anche quali marchi di fatto", ma questa per il magistrato si può avere solo in presenza di un uso di quei segni "che comporti notorietà" e deve trattarsi di un uso "idoneo", cioè "effettivo" e avvenuto "nell'ambito di un'attività commerciale volta a soddisfare esigenze di carattere prevalentemente economico del partito politico". Il Pli, in particolare, non avrebbe documentato - pur nella sommarietà dell'istruttoria - usi in ambito economico dei segni di cui chiedeva la tutela almeno come marchi di fatto, non avendo valore sotto questo profilo l'uso praticato e la notorietà acquisita dal simbolo in ambito politico-culturale (né sarebbe stato documentato alcun uso economico del nome o del simbolo del Ple)
Quanto ai marchi effettivamente registrati dal Pli ("Alleanza liberale e democratica per l'Europa ALDE", "Alleanza liberale e democratica per l'Italia ALDI", "Alleanza liberale per l'Europa ALE", "Alleanza liberale per l'Italia ALI", "Liberali italiani”, "Futuro liberale", "Rivoluzione liberale" e "Liberali per l'Italia", il tribunale ha riconosciuto la presenza costante della parola "liberale", come nel nome del Ple, ma a un esame sommario di confondibilità "apprezzata in termini non analitici, ma globali e sintetici" ha escluso - in modo condivisibile - ogni rischio di confusione per gli elettori tra i segni di cui è titolare il Partito liberale italiano e il segno di cui si fregia il Ple. Non si poteva certo immaginare un titolo esclusivo sull'aggettivo "liberale" a favore del Pli o di qualunque altro partito, il che si trasformerebbe in un'esclusiva su "una particolare dottrina politica tradizionale": gli stessi marchi registrati dal Pli, essendo tutti imperniati quasi soltanto sull'aggettivo "liberale", sarebbero qualificabili come "marchi deboli" (un concetto che in questo sito si era già evocato nell'articolo precedente sulla vicenda), marchi cioè dalla scarsa capacità distintiva e "rispetto ai quali qualunque modifica rilevante risulta idonea ad escludere la confondibilità dei segni". 
Quanto alla domanda di marchio relativa al segno verbale "Partito liberale europeo", depositata dal Pli il 26 marzo 2021 - dopo la costituzione del Ple (datata 24 novembre 2020) e dopo le prime iniziative del partito aventi una certa visibilità - e tuttora sotto esame, il giudice è stato netto: sarebbe "evidente l'assenza dei requisiti di registrabilità" del marchio "Partito liberale europeo", non essendo stata presentata la domanda dall'avente diritto, mancando la novità del marchio e, in ogni caso, trattandosi di "domanda di registrazione depositata in evidente mala fede solo dopo l’adozione di tale denominazione da parte del neocostituito Ple".
Tutto questo ha fatto ritenere al giudice che la domanda del Pli quanto al diritto di marchio sarebbe risultata presumibilmente infondata (sul piano, dunque, del fumus boni iuris), dunque non c'era motivo di accordare la tutela anticipata sulla base dell'art. 20 del codice della proprietà industriale (dunque con il diritto del titolare di un marchio di vietare l'uso economico e potenzialmente confusorio di un segno identico o simile), né di imporre al Ple di smettere di usare il "marchio figurativo e denominativo" (non essendoci stato alcun uso "idoneo" di questo tipo).

... e i profili sul "diritto al nome"

Caduti i profili di tutela sul fronte del "diritto al marchio", sono invece stati riconosciuti validi quelli in tema di "diritto al nome", per cui l'ordinanza ha inibito al Partito liberale europeo l'uso "in ogni forma e con qualsiasi mezzo, anche all'interno del simbolo e tramite la rete internet, della denominazione 'Partito liberale europeo'". Si sa che quel "diritto al nome", anche per un soggetto collettivo organizzato, si fonda sugli articoli 6 e 7 (soprattutto il secondo) del codice civile e ha lo scopo di "impedire a terzi di appropriarsi del nome, con pregiudizio alla capacità della denominazione di individuare esclusivamente l'ente che l'abbia legittimamente adottato per primo". L'associazione - anche in forma di partito - che adotta un nome, in altre parole, ha diritto di non vederlo utilizzato da altri soggetti collettivi (onde evitare che sorgano confusioni e che il potenziale identificativo di quello stesso nome si sgretoli), così come ha diritto di agire in giudizio per ottenere che l'uso indebito del nome cessi, così da "proteggere quel complesso di valori e finalità perseguite dal gruppo attraverso la propria partecipazione alla vita collettiva"; è altrettanto noto e assodato che il "diritto al nome" si estenda anche al simbolo, alla sigla e ad altri segni "che abbiano anche solo fattualmente assunto un valore identificativo". 
Per il Ple (rappresentato dal presidente Francesco Patamia), nemmeno la denominazione "Partito liberale italiano", in quanto meramente descrittiva (e non nuova), poteva fondare un diritto di esclusiva a favore del Pli su una qualunque delle parole che compongono il nome e, in ogni caso, la denominazione del Ple era sufficientemente diversa da quella del Pli (ribadendo, in sostanza quanto è stato detto per i segni distintivi). Il giudice ha riconosciuto che, in ambito politico, nomi che usino "espressioni descrittivo-generiche, comuni nello specifico settore di operatività" hanno scarso carattere distintivo e che - come si era detto già nella storica ordinanza del 26 aprile 1991 del Tribunale di Roma sulla disputa tra la futura Rifondazione comunista e il Pds"ai segni di identificazione delle associazioni non riconosciute si applicano le norme che disciplinano i segni distintivi dell’impresa, in quanto espressione di un’esigenza di carattere generale di chiarezza e di non confondibilità"; ha però aggiunto che, anche di fronte a "marchi deboli", per escludere i rischi di confondibilità tra due segni identificativi di associazioni occorre che vi siano state modifiche "idonee ad essere percepite dal pubblico degli elettori con effettivo valore differenziante"
In altre parole, se le variazioni (o le aggiunte) al nome non escludono del tutto il rischio di confusione con le denominazioni già esistenti, "comportando così una scorretta identificazione nella comunità sociale dei due partiti in reciproca competizione", si è comunque di fronte a una confondibilità indebita, anche tra "marchi deboli". Questo principio è stato ricordato, da ultimo, da un'importante sentenza della Corte di cassazione che, a metà di giugno del 2020, ha annullato la sentenza della Corte d'appello di Firenze che nel 2016 aveva sorprendentemente respinto la richiesta di Alleanza nazionale e della Fondazione An di inibire al Nuovo Msi di Gaetano Saya e Maria Antonietta Cannizzaro l'uso del nome del Msi e del simbolo della fiamma tricolore: per la Suprema Corte, se era stato giusto premettere che "la confondibilità va apprezzata in termini non analitici, ma globali e sintetici", non si poteva poi dire che l'aggettivo "sociale" non aveva carattere distintivo e affermare in modo apodittico (quindi senza dare adeguate dimostrazioni) che l'aggiunta dell'aggettivo "Nuovo" e dell'espressione "Destra nazionale" erano sufficienti a evitare la confondibilità.
In concreto, tanto il nome del Pli quanto quello del Ple sono formati da tre parole "di per sé descrittive" ed entrambi i segni identificativi hanno dunque "scarsa capacità distintiva". Riconosciuto questo, per il giudice - nel solco di quanto affermato l'anno scorso dalla Cassazione - non è possibile "valorizzare del tutto isolatamente il significato non distintivo dell'aggettivo 'europeo' presente nel Ple, in luogo di quello “italiano” presente nel Pli, al fine di escludere qualsiasi pericolo di confondibilità di tali enti da parte del pubblico degli elettori e la conseguente confusione sugli elementi essenziali che caratterizzano ciascuno di esso come entità propria nella comunità sociale". La variazione del nome del Ple rispetto a quello del Pli, dunque, non basterebbe a evitare la confondibilità di due partiti "che sono entrambi italiani e operano in posizione di diretta e immediata competizione tra di loro": se non la si pensasse così, per il magistrato, si dovrebbero ritenere non confondibili "denominazioni del tutto simili di partiti politici italiani, differenziate soltanto sulla base dell'aggettivo riguardante soltanto l'ambito territoriale regionale o locale in cui ciascuno di essi opera, ad es. Partito liberale italiano, da una parte, e Partito liberale laziale o romano, ecc., dall'altra"; si penserebbe cioè di essere di fronte a due livelli territoriali dello stesso partito (il che potrebbe dirsi anche per il livello italiano e quello europeo) e non a due soggetti politici diversi. 
Basta la possibilità che la confusione avvenga (senza bisogno che il pericolo si sia tradotto in concreto) per far scattare il presupposto per la tutela richiesta. In più, benché sia passato un certo tempo tra le prime condotte del Ple ritenute lesive e l'avvio del procedimento cautelare da parte del Pli (dieci mesi dopo la costituzione dell'altro partito), è stato comunque ritenuto esistente il requisito del periculum in mora: le prime diffide del Pli al Ple affinché non usasse più quel nome non avevano avuto effetti, nel frattempo il Ple aveva presentato candidature alle elezioni amministrative e suppletive d'autunno e appena aveva saputo di questo il Pli aveva iniziato l'azione cautelare; una volta passato quel momento elettorale, resterebbe comunque intatta "la concreta probabilità che il Ple, ove non venga inibito l'uso indebito, possa partecipare alle future elezioni politiche e amministrative del 2022 con la denominazione 'Partito liberale europeo'".
Il giudice, incidentalmente, ha riconosciuto che i simboli dei due partiti sono diversi, ma "è tuttavia ovvio che, in caso di accertamento dell’usurpazione del nome, il partito che ha violato il diritto al nome altrui non può utilizzare la denominazione ritenuta confondibile neppure nel proprio simboloindipendentemente dal fatto che le parti figurative dei rispettivi simboli non siano tra di loro confondibili". Tutto ciò ha fondato l'ordine al Ple di cessare qualunque uso del nome "incriminato" (specificando che non potrà essere usato nemmeno nel simbolo o sulla Rete), prevedendo anche che Aruba e Facebook diano immediata esecuzione all'ordinanza, in modo che non sia più usata online la denominazione "Partito liberale europeo".

Conclusioni

Il sito del Ple, in effetti, non è più accessibile da alcuni giorni, così come buona parte delle pagine ufficiali social del partito (quelle che resistono non sono aggiornate da oltre due mesi). La decisione del Tribunale di Roma, dunque, questa volta ha avuto effetti concreti e tempestivi. 
Volendo esprimere un giudizio sul provvedimento, il maggior spazio per le argomentazioni e le valutazioni previsto in questa sede - rispetto a quella del decreto emesso inaudita altera parte - rende l'ordinanza meno problematica (per lo meno sul contenuto: la forma, tra concordanze dubbie e parole saltate, è migliorabile...) e comunque più condivisibile. Questo vale soprattutto per le osservazioni dedicate alla tutela del diritto al marchio (qui non applicabile) e, almeno in parte, anche per quelle sul diritto al nome: si sono date oggettivamente più spiegazioni sulla confondibilità e questo aiuta a ragionare e a cercare di seguire le argomentazioni del giudice. 
Certo, il punto del diritto al nome resta il più delicato perché non sembrano sciolti tutti i dubbi, relativi soprattutto all'applicazione dei principi fatti valere qui in altri casi già noti. Si deve premettere - rispondendo con un po' di sorriso, sperando che nessuno si offenda - che non è facile, per chi scrive e per chiunque appartenga alla categoria dei #drogatidipolitica, ammettere che "l'elettore medio" possa non conoscere ed apprezzare la differenza tra Partito liberale italiano e Partito liberale europeo o che, non conoscendola, si faccia confondere invece che cercare di informarsi: occorre riconoscere che "il pubblico degli elettori" di cui parla il giudice è variegato e spesso non troppo interessato a quelli che può considerare dettagli (anche quando non lo sono). Ciò detto, è impossibile non notare che finora nessuno si è sognato di contestare, men che meno in ambito elettorale, la coesistenza del Partito comunista (Rizzo) e del Partito comunista italiano (Alboresi): sono due soggetti ben distinti (e anche piuttosto battaglieri), ma benché un nome sia di due parole e l'altro di tre non sembra troppa la differenza rispetto all'esempio "Partito liberale italiano / Partito liberale laziale" fatto nell'ordinanza. Certo, si potrebbe dire che quella coesistenza è stata permessa dal fatto che in quel caso non c'è stato - che si sappia - alcun contenzioso in sede civile, ma se ci fosse stato il problema si sarebbe posto: in ogni caso, la convivenza tra Pc e Pci rimane ed è giusto interrogarsi sui due casi a confronto. 
Sul piano giuridico la causa, come si diceva all'inizio, non è chiusa: il processo di merito è previsto tra cinque mesi (e in quella sede si dovrà anche decidere sulle spese del giudizio cautelare). Sul piano politico, appare pienamente soddisfatto il Pli (che, anzi, nel suo sito espone che "valuterà la richiesta dei danni essendosi presentato il P.L E. alle amministrative in alcune città e anche alle elezioni suppletive camerali in un collegio", ma intanto "esulta per questa vittoria ed ora potrà dedicarsi a festeggiare il suo centenario che si terrà in varie città d’ Italia per concludersi l’ 8 ottobre del 2022"). Sull'altro fronte, non è peregrino pensare che la vita di quello che fino a pochi giorni fa si chiamava Partito liberale europeo non sarà molto duratura: posto che per agire dovrebbe comunque cambiare nome (anche se "alleggerito" rispetto al decreto inaudita altera parte, il contenuto dell'ordinanza non cambia la situazione del già-Ple, a meno che nel giudizio di merito ovviamente la sentenza sia di segno diverso), non è improbabile che alcuni dei suoi aderenti o fondatori scelgano di continuare la loro attività politica in altri soggetti di area liberale. Probabilmente sarà sufficiente attendere qualche settimana per capire come andranno le cose.

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