venerdì 22 febbraio 2013

Falce e martello in tribunale

Alla fine, come era prevedibile, in tribunale la falce e il martello ci finiscono sul serio, e non certo come strumenti di un omicidio. Oddio, una specie di morto in realtà c'è, almeno secondo Garavini, Cossutta e compagni: con quel congresso di Rimini dell'inizio del 1991, infatti, la maggioranza dei delegati del Pci non si era limitata a cambiare il nome al partito, ma aveva "ripudiato la sua precedente identità politica" e operato - come suggerito probabilmente da uno dei difensori degli scissionisti, l'esperto di diritto industriale Giorgio Floridia - una "dismissione volontaria e irreversibile del suo precedente patrimonio simbolico". Morale: avete cambiato faccia, nome e simbolo, volete pure impedire a noi di chiamarci come ci siamo sempre chiamati?
Messo così, ovviamente, il discorso al Partito democratico della sinistra non va bene per niente: "Siamo noi a essere gli stessi di prima, il nome l'abbiamo cambiato ma secondo le regole, eppoi il simbolo l'abbiamo tenuto anche se in piccolo - assicurano da via delle Botteghe oscure -. Voi invece ve ne siete andati e avete fondato un altro partito". Quando i dirigenti del Pds vengono citati davanti al tribunale di Roma dal Pci di Garavini, i loro avvocati - compreso un gigante della materia come Francesco Galgano e Romano Vaccarella non ancora arcinoto come difensore di Fininvest - precisano che, se c'è qualcuno deve smettere di usare il vecchio segno e la sigla del Pci, quello è proprio Garavini. E deve smetterla subito.
A decidere la questione è una sezione del tribunale civile, presieduta da Mario Delli Priscoli - lo stesso, a quanto pare, che molti anni dopo da procuratore generale della Corte di cassazione, avrebbe avviato azioni disciplinari contro Luigi De Magistris e Clementina Forleo. Il caso è molto delicato, l'attenzione e la prudenza con cui viene trattato lo mostrano: l'ordinanza che risolve in prima battuta (e in sede cautelare) il caso, la numero 9043 del 26 aprile 1991 (scritta dallo stesso Delli Priscoli), diventa una sorta di pietra miliare per tutti coloro che devono occuparsi delle scissioni dei partiti e delle loro conseguenze in tema di nomi e simboli.
Per prima cosa, i giudici ricordano che i partiti sono associazioni non riconosciute, ma godono comunque di diritti della personalità, specie quelli relativi al nome, alla sigla e al simbolo (cioè gli unici segni con cui quei soggetti possono essere identificati dalla società); partiti e sindacati, poi, meritano su questo piano una tutela ancora maggiore rispetto alle altre associazioni, per il ruolo che la Costituzione riconosce loro. Forse il discorso non è nuovo, ma è la prima volta che viene esposto in modo piuttosto completo: da qui in avanti nessuno ne dubiterà più.
Ai partiti in gioco, tuttavia, questa premessa preme relativamente poco. I giudici mettono subito in chiaro che non si può chiedere loro di valutare la continuità ideologica di un'associazione: fare gli esami del sangue ai soggetti di una scissione per decidere chi sia più rispettoso delle tradizioni - chi sia più comunista o davvero comunista, in questo caso - equivale a dare un giudizio politico e i giudici non possono farlo. Il parametro di giudizio, quindi, dev'essere un altro. Per Garavini e Cossutta, il simbolo del "vecchio" Pci appartiene alla tradizione comunista e non permetterne l'uso è una lesione dell'identità personale; per Occhetto, invece, quel simbolo nella sua interezza appartiene all'associazione che si chiamava Pci e ora si chiama Pds, per cui non possono usarlo altri.
Il fatto è che, secondo il giudice, il Pds non ha affatto "dismesso" la falce e il martello: li ha rimpiccioliti, sì, ma alla base dell'albero della sinistra si vedono bene e, se li usasse qualcun altro, la gente si confonderebbe e si creerebbero equivoci tra gli elettori. Sono le stesse regole, in fondo, che valgono per le elezioni e per un ambito solo apparentemente diverso, quello dei marchi: alla base c'è sempre "una esigenza di carattere generale di chiarezza e non confondibilità". In più, se il Pds è lo stesso soggetto che prima era noto come Pci, significa che chi è rimasto al suo interno (pur col cambio di nome, simbolo e idee) è ancora titolare dei vecchi segni: chi come Garavini e gli altri se n'è andato, anche se per perseguire gli antichi ideali, ha fondato un soggetto nuovo e sul vecchio patrimonio (anche simbolico) non ha più diritti.
A vincere la prima battaglia, dunque, è il Pds, che può tenere la falce e il martello alla base della quercia; il Pci di Garavini e Cossutta, invece, deve cambiare nome e simbolo. La vecchia etichetta della mozione, "Rifondazione comunista", torna utile; quanto al simbolo, c'è tempo per pensarci. Almeno fino alle elezioni del 1992, in tempo per un altro litigio epico.

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