Una cosa è certa: una volta, ad avere anche solo l'idea di cambiare il simbolo di un partito, si poteva rischiare anche l'incolumità fisica; bene che andasse, ci si limitava a uno psicodramma collettivo. C'era da capirli, visto che allora ci credevano sul serio, a quelle immaginette rigorosamente in bianco e nero che crocettavano sulle schede, in quelle circonferenze larghe giusto 2 centimetri di diametro. Prendete i vecchi militanti del Pci, per dire, e pensate come l'hanno presa quando hanno sentito dire per la prima volta che avrebbero abbandonato l'emblema con cui erano cresciuti, facendosi uomini e donne del loro tempo: «Un martello e una falce - scrisse all'Unità un vecchio militante all'inizio degli anni '90 - portano alla mente sensazioni, esperienze, emozioni, martiri dal mondo del lavoro e per la libertà, posizioni di coscienza, valori e culture alternativi, ma soprattutto portano alla mente giustizia e libertà in tutti i momenti della nostra storia». Nientemeno.
Quando, il 3 febbraio 1991, il XX congresso del Partito comunista italiano a Rimini decise di cambiare definitivamente nome e simbolo del partito più importante della sinistra italiana, riducendo la falce e il martello a minuscola base per il tronco della quercia (che poi era genericamente "l'albero della sinistra", a sentire il grafico Bruno Magno che l'aveva concepito e disegnato), qualcuno aveva pianto. A lungo e magari non solo quel giorno, mentre altri non si erano arresi a quella "fine" e avevano scelto un'altra strada. Ma quattro anni dopo, a Fiuggi, il 27 gennaio 1995, tra i camerati del Msi non è andata in modo diverso: nel giorno in cui la creatura politica di Giorgio Almirante archiviò il suo passato sostituendolo con l'orizzonte di Alleanza nazionale, lasciando a testimonianza di una storia di quasi mezzo secolo una piccola fiamma tricolore, le lacrime non risparmiarono nessuno, mentre si metteva in scena l'ultimo canto corale dell'Inno a Roma e qualcuno già pensava di continuare altrove la storia del Movimento sociale italiano.
Da allora sono trascorsi vent'anni, su per giù, eppure il mondo sembra essersi ribaltato. Ci sono partiti - vedere alle voci Mir, Samorì - che possono nascere a novembre, avere già cambiato un simbolo e mutarlo di nuovo sotto elezioni; altri - leggi Popolari di Italia domani - possono piazzare sulle schede un contrassegno che nessuno, a parte chi stava in Sicilia, ha mai visto prima, senza peraltro che nel sito web ce ne fosse traccia al momento del deposito al Viminale. Certi emblemi nascono e muoiono nel giro di un giorno - basta che un segretario o un funzionario facciano un'espressione schifata al grafico di turno - o passano di moda semplicemente quando c'è un'altra agenzia di comunicazione da interpellare o da accontentare. Un partito, insomma, può cambiare logo due volte in tre mesi come fosse uno spazzolino, ma non piange più nessuno; anzi, è più probabile che qualcuno non se ne sia nemmeno accorto, che è nato un fregio, che è stato tolto un nastro e così via. Forse, semplicemente, emozioni, sensazioni, esperienze e valori non abitano più in quei simboli ormai divenuti marchi: sono diventati più spaziosi e in molti hanno il terrore di lasciarli vuoti, ma al posto di un'emozione è più semplice metterci una sfumatura di azzurro o una spruzzata tricolore.
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