Quando
Achille Occhetto, il 31 gennaio 1991, apre a Rimini il XX congresso del Partito
comunista italiano, militanti e giornalisti lo sanno già con certezza: sarà
anche l’ultimo con quel nome. Il leader del
partito, del resto, l’aveva già fatto sapere il 9 ottobre dell’anno precedente,
nella direzione nazionale più delicata del suo mandato: se gli iscritti
avessero seguito lui, il “nome della Cosa” sarebbe stato «Partito democratico
della sinistra» e il simbolo sarebbe stato una quercia. Così, per lo meno, il
segretario aveva interpretato il disegno cui Bruno Magno, grafico del Pci fin
dal 1972, aveva iniziato a lavorare dall’inizio di luglio, quando un giovane
Walter Veltroni gli aveva chiesto di produrre l’emblema della “nuova”
formazione politica.
«È
l’albero, non un albero. Volevo rappresentarne l’idea, l’immagine che viene in
mente a tutti» spiega Magno a una giovanissima (e non ancora glam)
Concita De Gregorio, mentre nelle settimane precedenti si era favoleggiato
di uomini, fiori, colombe. Per Veltroni, il nuovo simbolo deve rappresentare «forza,
sviluppo, rinnovamento, crescita e rispetto delle tradizioni»: ai primi quattro
punti provvede la quercia, l’ultimo è presidiato dalla falce e dal martello.
Già, perché l’emblema tradizionale, con tanto di sigla «P.C.I.» incorporata,
sta alla base dell’albero: è rimpicciolito, ma si vede ancora bene e nessuno dei dirigenti sembra volersene liberare del tutto.
Tempo
tre giorni e la storia del Pci finisce: il cammino iniziato un anno prima all’indomani
della caduta del muro di Berlino, lo sforzo di Occhetto per trasformare il più
forte partito comunista dell’Europa occidentale in una formazione di sinistra
ma riformatrice, trova in qualche modo un sigillo anche formale. Indolore,
però, non lo è affatto. Già, perché alla sola idea di cambiare nome e simbolo,
una porzione rilevantissima del partito è colta da malesseri di ogni natura, se
non da un autentico orrore. Armando Cossutta, del resto, lo ha dichiarato fin
da settembre del 1990, prima ancora che uscissero i nuovi segni distintivi: «Nome
e simbolo contano e parecchio – rimarca in un suo intervento a Perugia – cambiarli
comporta un rifiuto, una negazione, rompere in maniera definitiva con il
comunismo».
E quindi? «Se il congresso del Pci deciderà di cambiare nome e
simbolo per dare forma a un partito non più comunista, sarà inevitabile che
nasca un organismo davvero neo-comunista e per questo nuovo, forte, popolare». La
parola «scissione» nel discorso del compagno Armando non c’è, ma è come se
fosse stampata a caratteri cubitali. Quando poi il nuovo emblema viene svelato,
a Cossutta per fare a pezzi la quercia bastano tre parole, più affilate di un’accetta:
«Sembra un garofano». Con lui ci sono nomi di tutto rispetto: Lucio Magri,
Luciana Castellina, Aldo Tortorella, Alessandro Natta, Pietro Ingrao, perfino
il mitico Giancarlo Pajetta. Per loro gli arnesi, la falce e il martello con la
stella, devono restare dove sono.
Eppure,
si diceva, a Rimini la storia del Pci finisce. Ci si conta, in un rito quasi
drammatico – i congressi e i cambi di nome, in quel periodo, sono cose
dannatamente serie – e la linea Occhetto conta su 807 voti. Tanti, per carità, compresi
alcuni riconquistati ai contrari (a partire da Ingrao) ma è la prima volta che si
registrano 75 voti contrari, cui aggiungere 49 astenuti e i 328 che non hanno
proprio partecipato al voto. Una mazzata, per chi ha creduto fino a quel
momento al partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Logo del 1° congresso di Rifondazione comunista |
Il
fronte del «no», in ogni caso, non perde tempo. Sempre il 3 febbraio, mentre si
chiude il congresso del Pci, un gruppo degli scissionisti (formato soprattutto da chi aveva sostenuto la mozione "Rifondazione comunista") va dal notaio e costituisce
una nuova associazione, che si dà il nome – guarda caso – di «Partito comunista
italiano». Per Cossutta, Sergio Garavini – la scissione, in fondo, l’aveva
certificata lui a Rimini – Lucio Libertini e altri, la priorità è soprattutto
una: mettere al sicuro nome e simbolo. Dal Pds, certo, ma anche da altre
formazioni comuniste.
Garavini da una parte cerca di far registrare l’emblema
come marchio, dall’altra fa un timido passo di disponibilità verso il Pds: «Se
il problema formale del nome e del simbolo si porrà solo fra noi e il Pds, non
credo che saranno i tribunali a decidere. Sono convinto che finiremo per
metterci d’accordo». Forse è una frase convenzionale, forse lo pensa davvero;
sta di fatto che, in tribunale, la falce e il martello ci andranno eccome e
faranno persino scuola, da lì in avanti, per tanti altri casi di scissione.
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