Probabilmente è stato il suo miglior colpo di sempre. Non era stato certo il primo, secondo vari mentitori di professione non sarebbe stato l'ultimo, ma certamente fu quello architettato meglio e, in un certo senso, il più luciferino messo a segno da lui. Lui poi sarebbe Renzo Rabellino, colui che il venerabile maestro Filippo Ceccarelli definisce "il mago delle false apparenze elettorali", che altri hanno battezzato di volta in volta come "genio delle liste patacca", "regista delle operazioni alias" e, specie quando da lui arrivava un inatteso sgambetto elettorale, "volgare taroccatore". Più titoli nobiliari che epiteti di scherno, che comunque lasciano piuttosto indifferente il nostro Rabellino, che ridacchia e poi riprende tranquillo la sua esistenza.
Ma non divaghiamo, si diceva del colpo. Era l'anno di scarsa grazia 2001, quando si votava contemporaneamente per rinnovare il Parlamento (una volta tanto, a scadenza naturale) e varie amministrazioni locali, compresa quella di Torino. Candidato del centrodestra, il segretario regionale di Forza Italia Roberto Rosso: per il suo partito e per molti commentatori, le elezioni le avrebbe vinte sicuramente lui, anche perché a sinistra Valentino Castellani aveva già fatto due mandati. La coalizione aveva deciso di candidare il suo vice, Domenico Carpanini: era stato proprio lui a chiedere un apparentamento, tra gli altri, anche a quel burlone di Rabellino, che - dopo una militanza autonomista e leghista della prim'ora - si era già prodotto in alcune iniziative interessanti di distrazione (dalla Lega per Torino a Piemonte nazione, fino a vari simboli localistici testati alle elezioni politiche, che meriterebbero un capitolo a parte) ma fatte sempre con cognizione e un significato politico serio.
Rabellino non si era tirato indietro, anche se aveva avvertito l'amico Carpanini: avrebbe portato qualche voto, ma Piemonte Nazione non era una corazzata. Neanche il tempo di dare seguito all'accordo che - pace all'anima sua - a Carpanini era venuto un infarto e ci era rimasto. Secco. Sconcerto a Torino per la tragedia - lo stimavano in molti, quell'uomo - e sconforto nel centrosinistra, che doveva trovarsi un altro candidato e anche alla svelta. Dal cappello era uscito il nome di Sergio Chiamparino, ma Rosso non si era scomposto di un millimetro: era sicuro di vincere - e di soldi in quella campagna ne aveva messi parecchi - e per scuoterlo ci voleva altro. Uno come Rabellino, per esempio, che sullo stomaco aveva ancora una faccenda di due anni prima, quando proprio Rosso gli aveva proposto un accordo per le provinciali a Torino e a Cuneo ma poi non aveva candidato nessuno di Piemonte Nazione. Un colpo basso, per Rabellino, che avrebbe ricambiato alla prima occasione utile. Quella.
L'idea la espose a un amico vicino a Chiamparino: fare una lista "Rosso sindaco": Rosso nel senso di Gianfranco, lombardo, giornalista, già membro del Parlamento padano e ovviamente amico del Nostro. Idea fulminante, ma il tempo era poco, anche solo per raccogliere le firme: saltarono fuori tutte in 48 ore, quasi tutte in un'assemblea degli allora Democratici di sinistra e tutte perfettamente regolari. La mossa non sfuggì a Roberto Rosso, che improvvisamente si inquietò, anche perché un simbolo col suo nome sulla scheda non c'era. La lista di Rabellino si presentava con il nome "Comitato Torino libera", ma nel contrassegno sfoggiava un vistoso "Rosso sindaco" tutto in maiuscolo, con il nome di battesimo del candidato microscopico, schiacciato tra le due parolone; a coronare il tutto, quelle stesse scritte bianche su fondo blu e il segmento circolare in basso occupato dal tricolore. Praticamente, un clone della Casa delle libertà.
Rosso si infuriò, probabilmente accolse con sollievo la notizia che la commissione elettorale aveva bocciato il simbolo del suo cognonimo, perché, con quei colori del Pdl e il nome "Gianfranco" quasi invisibile, faceva pensare proprio a Roberto Rosso; quando invece l'organo ammise la variante dell'emblema, meno confondibile forse ma molto più curata, iniziò a sbottare e ad attaccare quell'inatteso concorrente. Lui, Gianfranco, intanto aveva cominciato a farsi conoscere e intervistare, mostrando di non essere affatto un pesce fuor d'acqua.
Al primo turno Roberto Rosso, arcisicuro di vincere a colpo sicuro solo un pugno di giorni prima, si fermò al 44,4% (Chiamparino prese il 44,9%, 2600 voti in più), ma Gianfranco Rosso portò a casa il 2,23% e a quel turno si contarono 25mila schede nulle, un'enormità: tra esse, anche quelle in cui gli elettori avevano votato Forza Italia e, contemporaneamente, Rosso Sindaco. Sbagliando Rosso, ovviamente. Una sfida praticamente già definita aveva cambiato esito in zona Cesarini e non era ancora finita: al ballottaggio, si sa, vinse Chiamparino, mentre Rosso perse addirittura qualche voto rispetto al primo turno. Quella volta Renzo Rabellino non c'entrava, ma se Sergio Chiamparino è riuscito a restare in corsa, per poi guadagnarsi per la prima volta la poltrona di sindaco, lo deve soprattutto all'idea esplosiva, quasi sulfurea di quel mago elettorale dall'abilità indiscussa.
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