Per convincersi che certe cose durano molto più del previsto e, soprattutto, di quanto la gente possa immaginare, può essere utile fare un salto al Ministero dell'interno per una qualunque ragione plausibile e, già che ci si è, cercare quella parte di corridoi del piano terra che ospita tuttora le bacheche dei contrassegni depositati a gennaio. Lasciate perdere quella pletora di emblemi ammessi, che potrebbero finire sulla scheda che userete per votare (gli altri, la maggior parte, si perderanno fino alla prossima consultazione); lasciate stare anche, per una volta, i simboli ricusati - di quello ci siamo occupati fin troppo nei giorni scorsi - e puntate decisamente su quelli senza effetto. Contrassegni magari validissimi, ma che non potrebbero mai finire sulla scheda perché i partiti non hanno presentato tutta la documentazione: alle rispettive formazioni politiche, in fondo, interessa solo tutelare il loro "marchio" da furbate altrui.
Nel mezzo di quella bacheca, ci trovereste anche la quercia ancora ben piantata dei Democratici di sinistra, nella sua ultima versione - adottata nel 2005 dal congresso di Roma - con la rosa del Pse in bella vista alla base di quello che il "padre" del simbolo del Pds, Bruno Magno, aveva chiamato "l'albero della sinistra", senza specificarne la specie. Chiunque pensava che i Ds fossero finiti con la nascita del Pd e avessero semplicemente cambiato casa, sbaglia di grosso: del resto qui se n'è già parlato, in Italia chiudere un partito è terribilmente difficile. Finché c'è una sola pendenza, per dire, una formazione politica non può chiudere bottega (a meno che non scelga la strada dello scioglimento-liquidazione, passando tutto in mano a un commissario che pensi a sbrogliare la partita di debiti e crediti).
Ora, i Ds - che al 31 maggio dell'anno scorso contavano ancora 49 rapporti di lavoro - l'ultimo bilancio l'hanno reso noto il 25 giugno 2012, pubblicandolo su quattro pagine dell'Unità: alla fine del 2011 risultavano varie procedure di liquidazione ancora in corso, 8,47 milioni di euro di disavanzo, ma soprattutto 156,6 milioni di euro di debiti (ereditati in gran parte dall'Unità, quando era l'organo del partito), 150 milioni dei quali verso banche. Dodici mesi prima la somma era più alta di 30 milioni: ad abbassarla ci ha pensato la quota di rimborsi elettorali che il Tribunale di Roma ha destinato a quello scopo, ma dalla fine del 2011 ai Ds non spetta più alcuna risorsa pubblica.
In queste condizioni è difficile, se non impossibile chiudere la baracca. Così, se i Democratici di sinistra devono continuare a vivere, tanto vale impegnarsi a tutelarne anche il contrassegno. La cosa non è di poco conto, se si considera che nel 2008 tale Antonio Corvasce da Barletta si era presentato al Viminale a depositare proprio il contrassegno dei Ds, sostenendo di esserne stato eletto presidente in un V congresso sconosciuto ai più (chissà perché) svoltosi - guarda guarda - a Barletta il 28 febbraio dello stesso anno. Il Viminale bocciò il contrassegno quell'anno e lo fece anche l'Ufficio elettorale centrale nazionale; la stessa cosa accadde l'anno dopo, ma quella volta il legale rappresentante dei Ds, Ugo Sposetti, fece depositare comunque l'emblema, per maggiore sicurezza. Corvasce ci avrebbe riprovato in seguito, cercando anche di intervenire nel processo esecutivo che era stato iniziato dalle banche per recuperare una parte dei loro crediti attraverso i rimborsi elettorali del partito: anche in quel caso, peraltro, gli sarebbe andata male.
L'esperienza, in ogni caso, ha insegnato: per questo, anche quest'anno la collaboratrice di Sposetti è andata con tutta calma a presentare l'ultimo simbolo dei Ds al Ministero. Non occorreva certo essere i primi, ma era importante esserci. Depositato il contrassegno (ovviamente senza la documentazione, ché tanto non serviva) è uscita soddisfatta: magari non ci saranno problemi - Corvasce quest'anno non si è visto - ma la prudenza non fa male. Meglio non rischiare che la Quercia (o ciò che ne resta) sia messa in pericolo.
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