Inutile negarlo: occuparsi della Democrazia cristiana, o di ciò che ne resta, non consente mai di annoiarsi. Oggi, per dire, Il Tempo dedica l'intera pagina 2 e il soppalco della prima al patrimonio immobiliare (scomparso) della Dc "finito in procura". La Procura della Repubblica è quella di Roma: settimane fa ricevuto un esposto da parte di chi ha "il fondato timore che buona parte dei beni e delle risorse patrimoniali della storica e vivente Dc siano confluiti nei partiti di successiva formazione, i cui dirigenti hanno così potuto disporre d’ingenti cespiti, senza dichiararli né riportarli nei rispettivi rendiconti/bilanci".
Prime due pagine del Tempo, 10 febbraio 2016 |
Finora, come sa chi frequenta questo sito, non ho quasi mai scritto della questione del patrimonio immobiliare della Dc. Le ragioni sono diverse: innanzitutto quella vicenda giuridica e giudiziaria, già trattata da varie inchieste giornalistiche di carta stampata e televisive (pure il direttore del Tempo, Gian Marco Chiocci, se ne occupò per il Giornale), è "un casino di pazzi che la metà basta", parole usate da Gianfranco Rotondi (che citava Rocco Buttiglione) per descrivere la situazione della gestione patrimoniale post-democristiana. Quel "casino di pazzi", peraltro, si traduce in una quantità enorme di carte, processuali e non, di cui dispongo solo in minima parte: scriverne ugualmente sarebbe per lo meno incauto (c'è chi soffre di querelite acuta) e ingiusto verso chi quella storia la conosce meglio. Stavolta, però, occuparsi del patrimonio immobiliare permette di tornare sulla questione della "malatrasformazione" della Dc in Partito popolare italiano del 1994, che ha coinvolto anche il simbolo dello scudo crociato: vale dunque la pena di farsi un giro di "Monopoli diccì" (l'immagine, è giusto dirlo, è stata usata per la prima volta all'inizio di A pensar male..., la puntata di Report curata da Sabrina Giannini e andata in onda poco prima delle elezioni europee del 2014, la stessa trasmissione da cui viene la citazione rotondiana di qualche riga fa) e cercare di capire esattamente cosa stia succedendo.
L'esposto, presentato a Roma e in varie altre procure, risulta firmato da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni. Il primo si autodefinisce "presidente dell’Associazione degli iscritti alla Democrazia cristiana del 1993, nella qualità d’iscritto al Partito [...] nell'ultimo tesseramento regolarmente effettuato (1993)". Quell'associazione di fatto esiste almeno dall'inizio degli anni Duemila, quando mosse i primi passi per sostenere che la Dc non era in realtà mai stata sciolta e chi era iscritto all'ultimo tesseramento (1993) aveva mantenuto la qualità di socio del partito: una delle prime azioni, nel 2001, fu l'invito ad Alessandro Duce, ultimo segretario amministrativo Dc, a riconvocare gli organi del partito e, nel frattempo, a compiere tutti gli atti idonei a "evitare la dispersione incontrollata dell'insieme di beni materiali, politici, intellettuali e ideali del partito". Sempre Cerenza, tra l'altro, era stato tra coloro che, con un ricorso al Tribunale di Roma, tra il 2013 e il 2014 era riuscito prima a far sospendere, poi a far dichiarare nulli gli atti del "consiglio nazionale" con cui si era tentato, il 30 marzo 2012, di far ripartire l'attività della Dc, eleggendo alla segreteria Gianni Fontana.
De Simoni, invece, figura come "Coordinatore della Segreteria Politica Nazionale e Segretario Regionale (con poteri commissariali) della Democrazia cristiana del Lazio". La Dc in questione, è bene dirlo subito, è quella che si riconosce nella segreteria politica di Angelo Sandri: lo stesso, come scrive Valeria Di Corrado sul Tempo, figura anche come firmatario dell'esposto alla Procura di Roma, in qualità di "segretario nazionale pro tempore" del partito. Non è certo la prima volta che Sandri compie azioni legate al patrimonio della Dc (si era già rivolto in passato al Tribunale civile di Roma, sperando di far riconoscere alla "sua" Dc la titolarità dei beni che erano stati democristiani fino all'inizio del 1994, facendo invalidare ogni atto dispositivo sugli stessi successivo a quel periodo), ma stavolta il tentativo viene portato avanti insieme a soggetti che non si rifanno direttamente al partito guidato da Sandri.
L'origine di tutto è quella già vista altre volte: la mancata convocazione di un congresso titolato a decidere il cambio di nome da Democrazia cristiana a Partito popolare italiano. Trattandosi di una modifica dello statuto, si doveva esprimere l'unico organo titolato a modificarlo, il congresso appunto; tra il 18 e il 29 gennaio 1994, invece, si sono espressi altri organi (assemblea, direzione e consiglio nazionali), tutti incompetenti però.
Ad accertare "quasi" definitivamente ciò (il "quasi" pesa come un macigno, lo si vedrà alla fine) è stata la Corte d'appello di Roma, con la sentenza n. 1305/2009, confermata dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 25999/2010). Cosa comporta questo? Per i firmatari dell'esposto, si assiste alla nascita, senza atto costitutivo, di un nuovo partito diverso dalla Dc, il Ppi: per questo, tutti gli atti dispositivi [del patrimonio, ndb] esplicati nel corso del tempo in danno della 'storica' Democrazia Cristiana e posti in essere da soggetti non legittimati sono nulli ed illegittimi, poiché fondati su di una delibera inesistente", emessa da chi non poteva decidere validamente sul tema. Di più, quei beni non potrebbero essere rivendicati da alcuna delle formazioni che, via via, "si sono autoproclamate 'eredi' della Democrazia cristiana 'storica'", mentre la Dc non si sarebbe estinta.
Il guaio è che, dal 1994 in poi, è facile perdere il conto delle liti sorte tra chi era democristiano, con la nascita di un numero incredibile di partiti dai nomi e simboli uguali o simili. Prima, con la trasformazione della Dc in Ppi, era nato il Ccd di Casini e Mastella; un anno dopo, nel 1995, la lotta intestina tra i popolari vicini a Rocco Buttiglione e quelli seguaci di Gerardo Bianco finì con la nascita del Cdu (buttiglioniano, nel centrodestra con lo scudo crociato), mentre il Ppi di Bianco (poi di Marini e Castagnetti) andò nel centrosinistra, mettendo lo scudo in un gonfalone. In entrambi i casi intervennero accordi scritti tra i gruppi, per regolare l'uso del simbolo, ma anche (e soprattutto) gli aspetti patrimoniali ed è proprio questo il "peccato originale" o, per lo meno, uno dei peccati che si possono trovare qui.
Secondo Cerenza, Sandri e De Simoni, infatti, "la dichiarata inesistenza" delle delibere che hanno cambiato il nome da Dc a Ppi "mina in radice la validità dei successivi procedimenti in riferimento ai quali il simbolo 'Scudo Crociato' ed il patrimonio [...] dalla 'storica' Democrazia Cristiana sono stati, dapprima, vantati ([...] abusivamente) dal Partito Popolare Italiano e successivamente suddivisi tra Ccd, Cdu, Udc". Suddivisione in cui avrebbero avuto "un ruolo primario [..] sia il Ppi-gonfalone sia il Ppi - ex Dc". Quest'ultimo è definito da sempre da Cerenza come "creazione strumentale", "scatola di comodo" creata nel 1995 dopo la scissione nel Ppi-scudo e la "ordinanza Macioce" del 24 luglio, che aveva imposto la "co-gestione obbligatoria dei due Tesorieri" nominati dalle opposte fazioni dei Popolari.
Quel regime doveva durare poco (l'ordinanza parlava di una condizione del dividendo Ppi "originale, inusuale e certamente transitoria"); in realtà la gestione congiunta è terminata solo il 5 luglio 2002, con una scrittura privata tra i segretari e i tesorieri di Ppi e Cdu con cui, tra l'altro, il partito di Buttiglione rinunciava "con effetto immediato in favore del Ppi-gonfalone alla gestione, nonché a ogni diritto [...] sul patrimonio mobiliare ed immobiliare del Ppi - ex Dc". Relativamente all'esercizio 1994 risulta depositato presso la Camera - e pubblicato in Gazzetta Ufficiale - il solo bilancio del Partito popolare italiano che riportava al suo interno tutto il patrimonio già della Dc; per l'anno 1995 risultano tre bilanci, quello del Ppi, del Cdu e del "Partito popolare italiano ex Democrazia cristiana", contenente di nuovo quei beni; dall'anno dopo gli stessi beni continuano a non risultare nei bilanci dei due partiti, mentre non c'è più traccia del bilancio del Ppi - ex Dc, il cui patrimonio è però stato gestito prima dai tesorieri di Ppi-gonfalone e Cdu e, dal 2002, dai soli responsabili amministrativi del Ppi-gonfalone (a tutt'oggi Luigi Gilli e Nicodemo Oliverio). Questi hanno continuato a farlo non solo dopo la sospensione dell'attività politica del Ppi e la confluenza nella Margherita (sempre nel 2002), ma anche dopo l'emissione delle citate sentenze di appello e di Cassazione.
Anche per questo, Cerenza, Sandri e De Simoni parlano, con riferimento a tutti gli atti di disposizione del patrimonio (compresi gli accordi del 1994 e del 1995 tra Ppi, Ccd e futuro Cdu) di "grave violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti", così da "sottrarre i beni della Democrazia cristiana al regime pubblicistico previsto dalle leggi regolatrici delle procedure relative all’attività amministrativa dei partiti" e "precludere, di fatto, agli iscritti della 'storica' Dc e agli Organi parlamentari qualsiasi controllo circa la consistenza e la variazione del ragguardevole compendio dei beni immobili in discorso". Beni che, per l'esposto, "ammonterebbero oggi a circa un miliardo di euro"; somma in cui entrerebbero anche i beni già intestati a società sottoposte nel frattempo a procedure fallimentari.
"Avendo il Ppi e il Cdu non dichiarato anno per anno dal 1995 al 2015, le variazioni patrimoniali e ipotecarie dei beni della DC, di cui hanno indebitamente dedotto di essere titolari, si presume che almeno taluni di essi beni ancora esistano; gli stessi devono essere restituiti alla Democrazia Cristiana e ai suoi iscritti del 1993". Beni che, invece, secondo i firmatari dell'esposto, rischiano seriamente di essere stati "incamerati" e utilizzati dai "partiti nuovi", senza lasciare minimamente traccia nei bilanci (con violazione anche delle norme tributarie): il problema più grave riguarderebbe la Margherita, che di fatto avrebbe beneficiato della "struttura organizzativa" della "storica" Dc.
Cerenza e la Dc-Sandri, dunque, chiedono alla Procura di indagare per accertare eventuali condotte illecite e contestarle a chi di dovere; lo stesso Cerenza, nei mesi precedenti, si era già rivolto alla presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e all'amministrazione di Montecitorio, chiedendo di ricostruire i bilanci della “storica” Dc e compiere una ricognizione sui bilanci dei partiti che hanno tratto benefici dal patrimonio diccì, per "ricomporre il fondo comune" del partito dello scudo crociato e "garantire la regolarità e l’integrità dell’utilizzo dei rimborsi elettorali e del finanziamento pubblico".
Che obiettivamente qualcosa sia stato poco lineare, tanto sul piano del cambio di nome da Dc a Ppi quanto su quello economico-finanziario, è davvero difficile da smentire (soprattutto sul piano del nome); per i magistrati di Roma e delle altre procure d'Italia la missione si presenta già particolarmente ardua ed è legittimo sperare che l'esposto di Cerenza, Sandri e De Simoni aiuti a fare luce. A complicare le cose, però, interviene un "piccolo" particolare di cui si deve tenere conto: le sentenze citate del 2009 e del 2010 dicono effettivamente che il cambio di denominazione Dc-Ppi è stato illegittimo e che nessuno dei partiti che hanno partecipato al giudizio (Dc-Pizza, Dc-Sandri, Ccd, Cdu, Udc) può ritenersi in continuità giuridica con la Dc "storica". Le stesse sentenze, tuttavia, escludono espressamente che il contenuto delle sentenze valga anche per il Ppi (o ciò che ne resta), perché non ha partecipato al giudizio e non doveva esserne parte necessaria.
Che significa questo? Che, ammesso che nel 1994 la trasformazione in Ppi abbia davvero creato un partito nuovo, il contenuto delle sentenze non può essere opposto ai Popolari. Almeno finché qualcuno - magari lo stesso Cerenza - non riuscirà a ottenere una pronuncia che estenda anche al Ppi gli effetti delle sentenze viste fin qui. Allora, forse, si potrà discutere con qualche effetto degli atti con cui il partito - da Martinazzoli in poi - ha disposto del suo patrimonio, simbolo compreso, ora in uso (ma non in proprietà...) all'Udc. Nel frattempo, però, capire che fine hanno fatto le proprietà immobiliari della Dc resterà una mission almost impossible tutta italiana. Dai colori dello scudo crociato, ovviamente.
Questa è una complessa telenovella politica all'Italiana! Qcuì, in tutta questa storia ingarbugliata di scatole e micro-scatole Cinesi, dalle quali non sarà facile venirne a capo e fare piena luce a chiarezza dell'impciman........ c'è solo da augurarsi che qualche pool di giuristi ci si dedichino, perchè trionfi la giustizia, per dignità e rispetto dei grandi padri fondatori : a partire da Sturzo- De Gasperi - Moro -Famfani ed altri..... i quali con altivalori e nobili sentimenti costituirono questa forza politica, che rispecchiasse il più alto spirito di DEMOCRAZIA, Libertà e di Giustizia SOCIALE nel nostro paese.
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