Tanto vale ammetterlo, senza problemi: chi gestisce questo blog cerca di non parlare troppo spesso della Democrazia cristiana, delle traversie del partito che cambiò nome nel 1994 in Partito popolare italiano (sia pure in un modo giuridicamente scorretto) ma secondo alcune persone che non si erano rassegnate alla sua "scomparsa" era piuttosto rimasto dormiente in attesa che i vecchi iscritti lo risvegliassero. Si cerca di non raccontare gli ennesimi tentativi di usare o rivendicare una qualche forma di scudo crociato per la "propria" Dc, impedendo ad altri gruppi politici di fare altrettanto. Alla lunga, però, trattenersi diventa impossibile: sono troppi gli avvenimenti che richiedono attenzione e spesso riguardano gruppi inconciliabili tra loro, per cui occorre fare chiarezza o almeno provarci. Ecco, dunque, il tentativo di capire che sta succedendo all'ombra dello scudo crociato (anzi, degli scudi, perché non ce n'è mai uno solo).
L'esposto di Rotondi
Si parte dall'ultima puntata, se non altro perché è quella che ha avuto più risonanza a livello nazionale. Proprio oggi il Corriere della Sera ospita un articolo - molto bello e godibile - di Tommaso Labate, in cui si dà conto di un esposto rivolto al ministro dell'interno Matteo Piantedosi (e inviato per conoscenza alle più alte cariche dello Stato e ai media) da Gianfranco Rotondi, eletto deputato nel collegio uninominale Campania 2 - 04 (Avellino) per il centrodestra e iscritto da indipendente al gruppo di Fratelli d'Italia (nelle cui liste era pure stato candidato) in rappresentanza del suo movimento Verde è Popolare. L'esposto riguarda quella che Rotondi chiama "incresciosa situazione" legata alla Dc e al suo simbolo e ripercorre nel testo avvenimenti accaduti dal 1994 in avanti, ovviamente offerti secondo il punto di vista dell'autore. Vale la pena riportare tutto il testo - diffuso su Facebook - per poter fare qualche riflessione alla fine e capire quali altri eventi recenti vengono citati o evocati.
Sede, 02 maggio 2023
Al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi
e, p.c.,
Al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Al Presidente del Senato Ignazio La Russa
Al Presidente della Camera Lorenzo Fontana
Al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni
Al Presidente del Gruppo Fratelli d’Italia Tommaso Foti
Ai Direttori Responsabili delle testate d’Agenzia di Stampa e Quotidiani nazionali
Oggetto: ESPOSTO/DIFFIDA ERGA OMNES
Eccellentissimo Signor Ministro,
nella mia qualità di rappresentante legale dell’Associazione denominata “Democrazia Cristiana con Rotondi”, concessionaria dell’utilizzo in esclusiva della denominazione “Democrazia Cristiana” per atto di cessione notarile da parte del “PPi ex Dc” Le espongo una incresciosa situazione determinatasi, chiedendoLe di valutare nei limiti della legge e dei poteri del Suo Ufficio, la possibilità di interventi per porre fine alla stessa.
Come è noto, Alcide De Gasperi, assieme a pochi, valorosi cattolici, ancora in tempo di clandestinità, durante il regime fascista, fondò il partito della Democrazia Cristiana, che è stato presente in tutte le elezioni politiche ed amministrative dal 1946 al 1993. Il 18 gennaio 1994 il segretario della Democrazia Cristiana sen. Fermo Mino Martinazzoli presentò al consiglio nazionale del partito, che la approvò col solo voto contrario dell’on. Remo Gaspari, la proposta di modificare la denominazione del partito in “Partito Popolare Italiano”. A tutti gli effetti giuridici ed elettorali non si trattò di scioglimento del partito, tant’è che rimasero in capo al Partito Popolare tutti i rapporti della Democrazia Cristiana e che in termini giuridici l’esatta denominazione del partito divenne “Partito Popolare Italiano ex Democrazia Cristiana”. Rimase intatto il codice fiscale, nonché gli organigrammi politici e le rappresentanze nelle innumerevoli società di gestione finanziaria possedute dal partito (Ser, Immobiliare, Affidavit per citare le più note).
Nel luglio 1994 il prof. Rocco Buttiglione succedette al Sen. Martinazzoli quale segretario politico del Ppi ex Dc, e nel successivo aprile 1995 il nuovo segretario del Ppi stipulò una intesa politica con la nuova coalizione di centro destra guidata dall’on. Silvio Berlusconi. A seguito di questa scelta, la minoranza di sinistra del partito presentò una mozione di sfiducia al segretario Buttiglione; essa fu respinta ma il risultato venne contestato dalla minoranza, che riconvocò un consiglio nazionale a cui parteciparono solo i consiglieri della sinistra che sfiduciarono Buttiglione ed elessero segretario politico del Ppi l’on. prof. Gerardo Bianco. Avvenne così la scissione del Ppi ex Dc, con due segretari politici che stipularono due distinte alleanze in occasione delle elezioni regionali: Buttiglione con il centro destra, Bianco con il centro sinistra.
Nel bureau del Ppe di Cannes, nell’estate del 1995, Buttiglione e Bianco decisero di porre fine a una vertenza divenuta nel frattempo giudiziaria, e addivennero alla conclusione che il partito dell’on. Buttiglione avrebbe conservato lo storico simbolo della Dc, mentre il partito dell’on. Bianco avrebbe mantenuto la denominazione di Partito Popolare Italiano. Tale accordo fu recepito nell’ordinanza del giudice Macioce che così disciplinò i rapporti tra i partiti democristiani: il prof. Buttiglione avrebbe costituito un nuovo soggetto politico con un nuovo codice fiscale, e fu il Cdu (Cristiani Democratici Uniti); l’on. Bianco avrebbe costituito un altrettanto nuovo soggetto politico che fu il cosiddetto PPI/gonfalone (dal simbolo disegnato a mo’ di gonfalone); il Partito Popolare Italiano ex Democrazia Cristiana, fondato da De Gasperi e avente come ultimi segretari Martinazzoli e Buttiglione, avrebbe mantenuto autonoma vita per amministrare il patrimonio della Democrazia Cristiana e liquidarne i debiti, e la gestione sarebbe stata in capo ai tesorieri del Cdu e del Ppi/gonfalone con poteri paritetici.
Il 15 aprile 1999 il consiglio nazionale del Cdu ha eletto me tesoriere e rappresentante legale del simbolo dello scudo crociato, e in tale veste nel 2002, assieme al segretario Buttiglione, sottoscrissi una intesa che riformulò gli accordi tra i due partiti rispetto all’ordinanza Macioce: il Cdu rinunciò a qualsiasi diritto sul patrimonio della Democrazia Cristiana, e la gestione del partito originario – Partito Popolare Italiano ex Democrazia Cristiana – rimase esclusivamente in capo al Ppi/gonfalone. Il Cdu di Buttiglione avrebbe mantenuto il diritto ad utilizzare lo scudo crociato in combinazione con altre formazioni politiche, e così nacque, dall’unione di Cdu e Ccd, l’Udc, partito politico, che tutt’ora si presenta alle elezioni con il simbolo dello scudo crociato. Nel 2004 l’Udc prese le distanze dal centrodestra berlusconiano, alcuni dirigenti di quel partito ritennero di non condividere più la linea del segretario Follini, e diedero vita a un nuovo partito politico denominato nuovamente Democrazia Cristiana, del quale fui eletto presidente e rappresentante legale. Poiché la denominazione Democrazia Cristiana era parte della denominazione del ´PPiexDc’, fu chiesta e ottenuta una autorizzazione notarile all’uso del nome Democrazia Cristiana a firma dei rappresentanti legali del ‘PpiexDc ‘ Luigi Gilli e Nicodemo Oliverio in data 21 dicembre 2004. La Democrazia Cristiana non utilizzò mai il simbolo dello scudo crociato che rimase in capo all’Udc, pur se il prof. Buttiglione non revocò me dall’incarico di rappresentante legale del simbolo nella certezza, rilevatasi fondata, che mai avrei tradito il suo mandato fiduciario, e avrei sempre garantito all’Udc l’uso del simbolo (nel frattempo assicurato dalle norme elettorali vigenti).
La Democrazia Cristiana, da me guidata, si presentò alle elezioni regionali del 2005 in Campania, Piemonte e Puglia, in tutti i successivi turni amministrativi e alle elezioni politiche del 2006, dopo le quali costituì propri gruppi parlamentari alla Camera e al Senato. Nel 2008, al pari di FI e AN, la Democrazia Cristiana sospese le proprie attività elettorali, dando vita al partito del ‘Popolo delle libertà’. A causa dei noti dissidi tra Berlusconi e Fini, il PdL ebbe vita breve e nel giro di pochi anni i soggetti costituenti ripresero un’autonoma attività elettorale: rinacque cosi Forza Italia, fu fondato il partito ‘Fratelli d’Italia’, anche la piccola Democrazia Cristiana riprese un’autonoma seppur ridotta attività elettorale. Nel 2018 l’Udc dell’on. Cesa è ritornata nel centro destra, e più o meno spontaneamente i due partiti – la Democrazia Cristiana da me guidata e l’Udc – hanno presentato liste comuni, non avendo senso due liste democristiane nella medesima coalizione. In tal modo il nome e il simbolo della Democrazia Cristiana sono tornati sulla scheda elettorale in occasione delle elezioni regionali dell’Abruzzo, nel 2019, della Campania nel 2020 e a seguire fino alle elezioni amministrative in corso.
In tutti questi anni numerose associazioni e partiti hanno provato a rivendicare nome e simbolo della DC, a presentare liste elettorali con lo scudo crociato, a promuovere azioni di disturbo contro i partiti legittimamente eredi e continuatori della Democrazia Cristiana. Vi sono state innumerevoli cause amministrative, civili e penali, nelle quali tutte abbiamo ottenuto costantemente ragione. Abbiamo avuto sempre la convinzione che tali turbative non fossero casuali, esse infatti si replicavano anche a distanza di anni, cambiavano solo i soggetti promotori, mano a mano che i tribunali bocciavano le loro pretese fino a emettere una vera e propria ingiunzione a non molestare più i partiti eredi della Dc.
Una delle controversie più lunghe ha contrapposto il sottoscritto, quale rappresentante legale dello scudo crociato e della Democrazia Cristiana, al dott. Pino Pizza che asseriva di aver diritto alla continuità del partito. Tale scontro si è concluso con una sentenza della Corte di Cassazione che ha accolto le tesi da me sostenute e ha dichiarato legittimi tutti gli atti compiuti dalla originale Democrazia Cristiana fondata da De Gasperi (e non sciolta da Martinazzoli) e dalle associazioni-partiti suoi eredi (modifica del nome, patto di Cannes, gestione di patrimonio, nome, simbolo), riaffermando che il soggetto giuridico della Democrazia Cristiana storica continua la sua vita nel “PPiexDc”, ancora titolare di assetti patrimoniali della Dc, mentre l’uso di nome e simbolo da parte dei nuovi partiti trae legittimità appunto da accordi ed autorizzazioni provenienti dal soggetto originario: tra questi l’utilizzo in esclusiva in capo all’Associazione di cui sono rappresentante legale della denominazione “Democrazia Cristiana”.
A dispetto di tanta esemplare chiarezza di pronunce giudiziarie, le turbative sono proseguite. Sono nati ben tre partiti, peraltro in lite tra di loro, tutti denominati Democrazia Cristiana, e tutti fondano una presunta legittimità dal fatto che la Democrazia Cristiana non sarebbe mai morta e che pertanto suoi soci resilienti potrebbero riattivarla. Sono circostanze costantemente smentite in sede di controversie giudiziarie da sentenze passare in giudicato, peraltro la professionalità delle Corti d’Appello e dell’Ufficio Elettorale del Viminale ci hanno sempre permesso di presentarci con nome e simbolo, con esclusione di liste concorrenti aventi simbolo confondibile, secondo i dettami della legge.
La situazione è paradossale e determina grande confusione ed incertezza nell’opinione pubblica, stante l’abuso della denominazione “Democrazia Cristiana”, da parte di almeno tre diverse associazioni, che non ne hanno alcun diritto: come detto l’Associazione “Democrazia Cristiana” fondata da Alcide de Gasperi non si è mai sciolta e prosegue nel Partito Popolare. L’utilizzo dello scudo crociato è stato da questo concesso all’attuale UDC e quello della denominazione “Democrazia Cristiana” in esclusiva al sottoscritto.
In effetti sembra essere in atto un tentativo da parte di tali associazioni – non avendo alcuna possibilità di sostenere giuridicamente la loro legittimità – di “buttarla in caciara” al punto che nei giorni scorsi due differenti associazioni auto proclamatesi “Democrazia Cristiana” hanno tenuto due distinti “XX Congresso della Democrazia Cristiana” e che un altro “XX Congresso della Democrazia Cristiana” è fissato per il giorno 7 maggio p.v. presso l’Hotel Sheraton di Roma.
Arreca comunque danno all’immagine e all’attività dei partiti democristiani la pubblicazione di dichiarazioni e resoconti di presunta incertezza sull’uso di nome e simbolo. Tutto ciò avviene sicuramente secondo una regia e per fini politici, tant’è che si contesta a me il diritto di aver portato alle ultime elezioni politiche la Democrazia Cristiana e il movimento ad essa federato “Verde è Popolare” a un’intesa elettorale con il partito “Fratelli d’Italia”, nelle cui liste proporzionali sono stato candidato proprio in quanto presidente della Democrazia Cristiana-Verde è Popolare, e nel cui gruppo parlamentare orgogliosamente siedo da indipendente, senza con ciò aver rinunciato all’autonomia e alla sovranità elettorale della Democrazia Cristiana, e nelle convinzione che l’azione politica e di governo di Giorgia Meloni sia pienamente coerente con le coordinate politiche e culturali dei governi democristiani.
Nel confermare stima e apprezzamento dell’opera svolta con professionalità dall’Ufficio elettorale del Viminale, tutto ciò rappresento nella consapevolezza che il Ministero possa intervenire, certamente, in sede elettorale, per fare cessare la situazione di illegittimità denunciata, ma anche chiedendoLe di valutare se il Ministero degli Interni abbia un potere di intervento, in una materia che avendo gravi riflessi elettorali potrebbe avere rilevanza anche in tema di ordine pubblico.
Mi consentirà, Signor Ministro, di informare gli organi di stampa del presente esposto e della conseguente diffida con la consapevolezza che già la semplice presentazione e comunicazione del presente esposto è da intendersi anche come “diffida erga omnes”: a chiunque, a qualsiasi titolo, perseveri nel presentarsi quale segretario o rappresentante legale della Democrazia Cristiana, la cui denominazione compete solamente all’Associazione di cui il sottoscritto è legale rappresentante, per concessione notarile proveniente dalla medesima Associazione, trasformatasi nella vigente “Ppi ex Dc”.
Con osservanza.
Gianfranco Rotondi
Ricapitolare le puntate precedenti è sempre utile e bisogna essere grati a Rotondi per avere dato la possibilità di farlo, come del resto aveva già fatto nel suo libro La variante Dc. Vale subito la pena precisare che il 18 gennaio 1994, in effetti, non si svolse il consiglio nazionale della Dc, ma l'assemblea con i coordinatori regionali, i dirigenti nazionali e i delegati dei tre movimenti del partito. Il verbale di quella seduta non parla di un voto contrario di Remo Gaspari sulla proposta di modificare il nome del soggetto politico da Dc a Ppi; Gaspari non risulta presente alla direzione nazionale del 21 gennaio 1994 (organo che approvò all'unanimità dei presenti il cambio di nome) e il suo nome non emerge nemmeno dalla lettura del verbale del consiglio nazionale del 29 gennaio 1994 (che approvò all'unanimità dei presenti il documento in cui si accoglieva, tra l'altro, la nuova denominazione). Ci fu invece in quell'occasione la lamentela di Maurizio Palombi, secondo il quale non erano stati invitati tutti i membri del consiglio nazionale per cui la riunione non era valida (la presidente dell'organo, Rosa Jervolino Russo, precisò che si era rispettato lo statuto nel non invitare i consiglieri nazionali che dovevano astenersi dall'attività di partito per la loro posizione giudiziaria e quelli che avevano frattanto aderito ad altri partiti, da identificare probabilmente nel nascente Ccd e in Alleanza nazionale).
Coglie invece pienamente nel segno la ricostruzione di Rotondi in base alla quale quegli atti non comportarono alcuno scioglimento del partito, "tant'è che rimasero in capo al Partito Popolare tutti i rapporti della Democrazia Cristiana e che in termini giuridici l'esatta denominazione del partito divenne 'Partito Popolare Italiano ex Democrazia Cristiana'", con tanto di conservazione del codice fiscale, della composizione degli organi interni e delle rappresentanze nelle società che gestivano il patrimonio immobiliare della Dc, ridenominata Ppi. In effetti non si dice che il cambio di nome fu fatto nel modo sbagliato, in mancanza del congresso necessario per modificare le disposizioni dello statuto, incluse quelle contenenti il nome del partito; di certo, però, il racconto di Rotondi chiarisce che non c'è stato alcuno scioglimento della Dc, così come non si è avuta alcuna sopravvivenza della stessa con la nascita contestuale di un altro partito (il Ppi).
Rotondi passa poi a raccontare i fatti del 1995, quelli che produssero la frattura nel Ppi tra i sostenitori di Rocco Buttiglione (che aveva stipulato un accordo con il centrodestra) e quelli che si riconobbero nella guida di Gerardo Bianco (che avversavano quella scelta). Il deputato di Verde è Popolare parla di una mozione di sfiducia a Buttiglione bocciata ma con esito del voto contestato dagli avversari di Buttiglione; in effetti, però, l'11 marzo 1995 si votò un ordine del giorno contrario alla linea del segretario, su cui lui stesso pose la questione di fiducia e in consiglio nazionale la tesi di Buttiglione fu bocciata con 102 voti a favore del documento e 99 contrari. Fu Buttiglione a ripensarci, non volendosi dimettere e a quel punto arrivò l'elezione di Bianco ad opera dei soli consiglieri della sinistra. Un accordo fu trovato a Cannes il 24 giugno 1995, effettivamente con l'impegno di Bianco a non contestare a Buttiglione l'uso dello scudo crociato e l'impegno di Buttiglione a non contestare a Bianco l'uso del nome "Partito popolare italiano": quel patto fu tradotto in un atto formale, che pure non estinse (subito) i giudizi in corso. L'ordinanza Macioce (24 luglio) di cui parla Rotondi, in effetti, non formalizzò l'accordo, ma stabilì il regime inedito della "co-gestione obbligatoria dei due tesorieri" di un partito che non aveva ancora completato la sua divisione tra Cdu e Ppi. Se però il Cdu in effetti fu costituito, del Ppi che si distingueva con il gonfalone concepito da Giuliano Bianucci non risulta alcun atto costitutivo; in compenso è vero che il Ppi - ex Dc (come lo chiama Rotondi) di fatto continuò ad esistere per vari anni, con le disposizioni sul patrimonio che era stato della Democrazia cristiana condivise - non senza difficoltà - dai tesorieri delle due fazioni divenute partiti.
Rotondi partecipò a quella cogestione dal 15 aprile 1999 (quando fu nominato tesoriere del Cdu dal consiglio nazionale del partito) al 5 luglio 2002, giorno in cui firmò (effettivamente insieme a Buttiglione) una scrittura privata con i rappresentanti del Ppi-gonfalone (Pierluigi Castagnetti come segretario, Luigi Gilli e Nicodemo Oliverio come tesorieri) per rinunciare del tutto alla gestione del patrimonio comune a favore del Ppi, mantenendo il diritto all'uso dello scudo crociato, associabile anche a "nuove aggregazioni politiche che direttamente emanino dall'esperienza politica della Democrazia cristiana", a partire dall'Udc (cui il Cdu concorse). Lo stesso Rotondi ricorda di aver abbandonato l'Udc (quando prese le distanze dal centrodestra berlusconiano) nel 2004, fondando un partito chiamato Democrazia cristiana, sulla base di una concessione - effettivamente datata 21 dicembre 2004 - da parte dei citati Gilli e Oliverio (legali rappresentanti del Ppi-gonfalone e del Ppi - ex Dc). Dice assolutamente il vero Rotondi nel ricordare che - nel rispetto della fiducia che Buttiglione gli aveva accordato - la "sua" Dc non usò mai lo scudo crociato, benché egli stesso fosse contemporaneamente presidente della "Dc-Rotondi" (chiamiamola così) e legale rappresentante del Cdu, dunque titolare dell'uso dello scudo crociato (e potenzialmente in grado di negarlo all'Udc, che pure aveva consolidato l'uso del simbolo grazie alle norme elettorali in vigore).
La Dc-Rotondi, nel frattempo denominata Democrazia cristiana per le autonomie - sia in vista di un matrimonio politico con il Mpa di Raffaele Lombardo, che pure non avvenne, sia per evitare polemiche con chi aveva concesso il nome e con chi tentava di "risvegliare" il partito di De Gasperi - nel 2008 sospese le sue attività per concorrere alla formazione del Pdl; le riprese in seguito, nel 2013 (con la fine del Pdl) per tutelare le sue prerogative, nel 2018 per cercare di federare varie anime democristiane. Nel 2019, in effetti, grazie al ritorno nel centrodestra dell'Udc (guidata ormai da tempo da Lorenzo Cesa), la Dc-Rotondi e l'Udc presentarono liste comuni alle elezioni regionali in Abruzzo (2019, cui si riferisce il simbolo a fianco), in Campania (2020), in Lazio (2023) e in alcune amministrative: i simboli hanno più volte unito lo scudo crociato e il vecchio nome della Dc, apportato da Rotondi in virtù della concessione del 2004.
Ha buon gioco Rotondi a ricordare i numerosissimi tentativi di associazioni e gruppi di rivendicare la continuità con la Dc storica e la titolarità (più o meno) esclusiva del simbolo dello scudo crociato, quasi tutti analizzati in questo sito a più riprese e compendiati in vari articoli. Per il deputato di Verde è Popolare si è trattato di "azioni di disturbo contro i partiti legittimamente eredi e continuatori della Democrazia Cristiana", peraltro non casuali ("si replicavano anche a distanza di anni, cambiavano solo i soggetti promotori, mano a mano che i tribunali bocciavano le loro pretese fino a emettere una vera e propria ingiunzione a non molestare più i partiti eredi della Dc"). Quanto all'affermazione per cui in tutte le cause, di varia natura, "abbiamo ottenuto costantemente ragione", se il soggetto fosse "i legittimi eredi e continuatori della Dc" potrebbe anche essere corretta, ma con qualche postilla. Le sentenze definitive hanno in effetti dato torto a chi avrebbe voluto intestarsi la titolarità esclusiva di nome e simbolo della Dc e impedirne l'uso a Cdu e Udc; non è invece andato tutto liscio su altri fronti.
Rotondi cita la lunghissima causa iniziata dalla Dc guidata prima da Angelo Sandri e poi da Giuseppe Pizza, che nel 2006 aveva ottenuto dal tribunale di Roma una sentenza che aveva intimato al Cdu (legale rappresentante: Rotondi) di cessare ogni molestia verso la Dc, al punto che in tanti avevano creduto che la Dc-Pizza fosse stata ritenuta in continuità giuridica con la Dc storica: quel contenzioso è proseguito fino a una sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, emessa alla fine del 2010, spesso citata ma quasi mai davvero letta e compresa. Dichiarando inammissibili tutti i ricorsi (tranne uno) contro la sentenza d'appello del 2009, incluso quello del Cdu, e respingendo quello del Ppi, la sentenza del 2010 confermò quella di secondo grado dell'anno precedente: questa aveva riconosciuto che il cambio di nome del 1994 era avvenuto senza congresso, quindi sarebbe stato giuridicamente inesistente (e gli atti successivi, inclusi quelli di Cannes, avevano valore solo politico), ma ciò bastava a demolire ogni pretesa di continuità della Dc-Pizza rispetto alla Dc storica, visto che la Dc non era stata sciolta ma esisteva ancora, pur credendo di chiamarsi Ppi; in più, la questione del nome cambiato male era servita solo a decidere le liti tra Dc-Pizza (e Sandri), Cdu e Udc, ma visto che il Ppi - ex Dc non era parte di quel processo (e non era obbligatorio che lo fosse), l'accertamento di quel vizio procedurale non aveva effetti pratici e tutti gli atti compiuti dal 1994 in poi rimanevano validi. Inclusi, quindi, gli accordi che avevano disposto circa l'uso e la titolarità dei segni distintivi della Dc (simbolo e nome) e del Ppi.
Coglie perfettamente nel segno Rotondi nel ricordare che le "turbative" sono proseguite a dispetto delle tante sentenze emesse, inclusa quella della Cassazione (forse non così chiare per i non addetti ai lavori, oltre che lette troppo poco anche da chi avrebbe dovuto farlo). Le Dc nate nel frattempo in realtà non sono affatto solo tre (lo si vedrà in seguito), mentre è vero che di fatto sono "in lite tra di loro", rivendicando per sé e negando agli altri tentativi la correttezza del procedimento di riattivazione della Democrazia cristiana "dormiente" (ammesso e per niente concesso che ci sia qualcosa da riattivare). Per Rotondi si sarebbe di fronte a un "tentativo di 'buttarla in caciara'" da parte di questi gruppi, un tentativo che genera una "situazione [...] paradossale", che "determina grande confusione ed incertezza nell'opinione pubblica" e "arreca comunque danno all'immagine e all'attività dei partiti democristiani": tra i primi danneggiati ci sarebbe proprio Rotondi, con le sue iniziative. Per questo, il deputato ha chiesto al Viminale - rivolgendosi al ministro - oltre che di continuare a "intervenire [...] in sede elettorale, per fare cessare la situazione di illegittimità denunciata", di valutare un eventuale "potere di intervento, in una materia che avendo gravi riflessi elettorali potrebbe avere rilevanza anche in tema di ordine pubblico".
Difficile dire, sinceramente, cosa il Viminale potrebbe fare di più di quanto fa già in sede elettorale (anche se, come forse lettrici e lettori di questo sito ricorderanno, nel 2022 il ministero ha ammesso la Democrazia cristiana guidata da Renato Grassi, che peraltro non usa lo scudo crociato ma una bandiera crociata). La Direzione centrale dei servizi elettorali, infatti, interviene in occasione delle elezioni politiche ed europee per valutare l'ammissibilità dei contrassegni, così come è possibile che il personale prefettizio che fa parte delle (sotto)commissioni elettorali circondariali sia invitato a prestare particolare attenzione agli elementi di confondibilità (non quelli di area democristiana nello specifico, ovviamente, ma tutti, inclusi quelli) nei giudizi di ammissibilità delle liste e dei loro contrassegni nelle elezioni amministrative. Fuori da quell'ambito, però, riesce difficile immaginare qualche intervento, almeno con un certo margine di serietà: sembra irrealistico, per esempio, pensare che si possa negare uno spazio pubblico a una manifestazione organizzata da un partito, un'associazione o un ente con il nome di Democrazia cristiana (diversa da quella legata a Rotondi o a ciò che dovesse nascere in futuro col suo apporto, ovviamente), come pure impedire la formazione di gruppi consiliari così denominati o, peggio ancora, immaginare poteri di polizia pervasivi.
L'esposto al ministro Piantedosi, in ogni caso, fa seguito alle dichiarazioni di Gianfranco Rotondi di qualche settimana fa, in base alle quali sarebbe stata chiesta una consulenza giuridica per evitare ogni ulteriore ostacolo sulla via del "ritorno alla Dc", sia pure grazie all'unione del simbolo usato dall'Udc e del nome della "Democrazia cristiana con Rotondi". Già, perché questo è il nome - finora, che si sappia, mai trasformato in simbolo - citato nell'esposto dal deputato di Verde è Popolare, legato a un'associazione che peraltro risultava aver sospeso di nuovo le sue attività nel 2019 (senza essere sciolta). Lo conferma lo stesso Rotondi, espressamente interrogato sul punto dall'autore di questo articolo: la delibera di sospensione aggiunse "con Rotondi" al nome originario, "per evitare confusioni con molte altre Dc", rivendicando una volta di più la bontà del titolo alla base della denominazione storica. Si può stare sicuri, in ogni caso, che delle iniziative democristiane di Rotondi si sentirà ancora parlare, con o senza annessi giuridici, così come della saga "dello scudocrociato finito - come ha scritto poche ore fa Tommaso Labate - per via testamentaria chissà dove, nella disponibilità di chissà chi, per essere utilizzato chissà quando, come una specie di sudario misterioso in cui cercare, a mo' di certificato di autenticità, tracce passate di Alcide de Gasperi e Aldo Moro, Amintore Fanfani e Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Ciriaco De Mita". .
Congressi e segretari della discordia
Nel suo esposto, Gianfranco Rotondi ha citato congressi con identica numerazione appena svolti o in procinto di essere celebrati, evidentemente da Democrazie cristiane di rito diverso. Sabato 6 e domenica 7 maggio, per esempio, dovrebbe celebrare il XX congresso all'Hotel Sheraton di Roma la Dc guidata da Renato Grassi (e che prosegue il tentativo di riattivazione iniziato alla fine del 2016 e che in un primo momento si era riconosciuto nella guida di Gianni Fontana; il XIX congresso, che aveva eletto Grassi, si era tenuto nel 2018): si tratta, come si è detto, dell'unica Dc che ha visto ammettere il proprio contrassegno - pur privo di scudo crociato, anzi, proprio perché privo di esso - alle ultime elezioni politiche, nonché del partito che in Sicilia ha come commissario Salvatore "Totò" Cuffaro.
Tutto a posto? Manco per idea: all'inizio di maggio il sito Betapress.it ha pubblicato un pezzo in base al quale era appena terminato il XX congresso della Dc (non è dato sapere dove e in che forma si sia svolto), con l'elezione a segretario tale Rosario Lupo Salvatore Migliaccio di San Felice (anche grazie all'impegno del confermato presidente Gabriele Pazienza), sostituendo il precedente segretario, Nino Luciani, eletto nel mese di ottobre del 2020 dal XIX congresso (ricelebrato online dopo la revoca, compiuta da un'assemblea degli iscritti nel 2019, degli atti del congresso che aveva eletto Grassi). Una manciata di ore dopo lo stesso Luciani ha smentito, precisando sul suo profilo Facebook che il congresso si svolgerà, come da norme statutarie, nel 2024, mentre colui che era stato indicato come nuovo segretario in realtà sarebbe ineleggibile, essendo "decaduto anche da socio, perché non rinnovò l'iscrizione"; lo stesso Luciani ha colto anzi l'occasione per dire che "grazie al codice fiscale (ottenuto dal Ministero delle Finanze - Agenzia delle entrate, quello della DC dal 1980) e alla attribuzione della rappresentanza legale al segretario amministrativo [...] potremo finalmente risolvere il problema finanziario, con Iban intestato alla Dc".
Non si hanno invece notizie recentissime delle Dc rappresentate da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni (al di là dell'impugnazione di una sentenza di inammissibilità resa dal tribunale di Roma lo scorso anno, a chiusura del giudizio volto a invalidare l'assemblea dell'Ergife del 2017), da Francesco Petrino e Francesco Mortellaro (il loro simbolo non fu ammesso nel 2013 e nel 2022) e da Emilio Cugliari (che si qualifica come presidente facente funzione da luglio del 2020, al posto di Luciani).
Non basta? Evidentemente no, visto che si era avuta notizia del congresso del 17-18 febbraio di un altro tentativo di riattivazione della Dc, con segretario Antonio Cirillo (già difensore in Cassazione del depositante del simbolo al Viminale) e portavoce nazionale Fabio Desideri (sì, l'ex sindaco di Marino ed ex consigliere regionale del Lazio, lo stesso che aveva tentato di opporsi all'uso della denominazione "Impegno civico" da parte di Luigi Di Maio, visto il suo preuso). Proprio Desideri aveva già criticato Rotondi e Cuffaro, facendo sapere ai media che loro non rappresentavano la Dc e che, anzi, si sarebbe prestata molta attenzione alle elezioni amministrative (incluse quelle siciliane) per reagire contro ogni uso del nome o del simbolo ritenuto indebito.
Per complicare ulteriormente il quadro, coloro che si riconoscono nella segreteria di Angelo Sandri potrebbero alzare la voce dicendo che i discorsi appena fatti sono assurdi, visto che in quest'anno la "loro" Dc (l'unica correttamente operante, a loro dire) dovrebbe celebrare addirittura il XXIV congresso nazionale, avendo celebrato il XIX già nel 2003 (quello che elesse Pizza alla segreteria) e il XX a Trieste nel 2005, per poi seguire con l'attività fino a oggi (tra tentativi più o meno riusciti di presentare liste sul territorio ed escursioni non fortunate nelle aule di tribunale).
Come si vede, la situazione è tutto meno che placida, potendosi anzi complicare ulteriormente. Ciò mentre quest'anno si celebrano appunto tre decenni dalle ultime partecipazioni elettorali della Democrazia cristiana "storica" (alle amministrative del 1993, non molto fortunate per lo scudo crociato). Si sospetta che nemmeno in questo anniversario tondo lo scudo crociato conoscerà pace.
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