Chi frequenta assiduamente questo sito ne è pienamente consapevole: prima o poi un articolo sulla Democrazia cristiana (ri)spunta, ampliando ulteriormente la galleria di vicende relative allo scudo crociato e a coloro che se lo contendono (in varie forme e con o senza il vecchio nome). Oggetto di questo nuovo testo è una sentenza che era attesa da parecchio tempo, visto che il relativo processo è durato ben cinque anni (e il suo cammino è stato reso accidentato da varie cause, incluse le conseguenze della pandemia). In particolare, lunedì 4 luglio è stata pubblicata - ma solo ieri se n'è avita notizia - la decisione di primo grado del tribunale di Roma sulla richiesta di invalidare l'assemblea che si tenne all'hotel Ergife il (25 e il) 26 febbraio 2017 e che è stata considerata il primo passaggio concreto verso la riattivazione della Dc dopo la sua sostanziale inattività ultraventennale. In particolare, il giudice della sezione XVI civile Paolo Goggi ha respinto la domanda con cui si era chiesto di dichiarare nullo o comunque invalido o inefficace ogni atto (anche preparatorio) relativo a quell'assemblea degli iscritti, la cui la cui convocazione era stata disposta alla fine del 2016 sempre dal tribunale di Roma.
Il documento, lungo 14 pagine, merita una lettura attenta e varie considerazioni sulla concreta portata della decisione appena presa dal giudice. Gli effetti della sentenza, cioè, non vanno valutati solo alla luce del suo contenuto testuale (che offre alcuni punti fermi e altri sospesi, a patto di voler leggere bene e in modo completo le varie pagine, per ciò che è scritto e anche per ciò che non è scritto), ma anche degli sviluppi successivi della vicenda, tribolati quasi quanto il percorso che aveva portato a convocare l'assemblea che si era chiesto di demolire.
Piccolo riassunto, per cercare di capirci qualcosa
Prima di valutare il contenuto della sentenza, è importante riassumere in breve alcune puntate di questa vicenda - che in passato si è ripercorsa in modo ampio - per permettere di capire cos'è accaduto. Alla base di tutto, come al solito, c'è il percorso con cui, tra il 1993 e il primo mese del 1994, i vertici della Democrazia cristiana avevano scelto di cambiare nome al partito, adottando la denominazione sturziana di Partito popolare italiano. Dalla fine di gennaio 1994 la Dc smise di operare con quel nome e sparì dalla politica italiana. Sul piano giuridico non si volle sciogliere il partito (anche se più di qualcuno, sbagliando, interpretò così determinati atti), ma anche una decisione così delicata come il cambio di nome avrebbe dovuto essere presa da un congresso, che tuttavia non si svolse.
Se nel 2002 lo stesso Ppi scelse di sospendere la sua attività politica (e gli iscritti concorsero alla nascita della Margherita), da alcuni mesi si era intensificata l'azione di alcune persone - ma meglio sarebbe parlare di gruppi - per cercare di riportare in vita o comunque risvegliare la Democrazia cristiana, appunto sulla base del fatto che vari anni prima non si era seguita la procedura corretta nel passaggio da Dc A Ppi. Tra varie fasi e passaggi contraddittori (nonché, a volte, clamorosi), quella vicenda si chiuse alla fine del 2010 con una sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, che confermò una pronuncia della Corte d'appello di Roma emessa un anno e mezzo prima. La lettura congiunta dei due documenti - da inquadrare rigorosamente nel conflitto tra le parti allora in lite - da un lato confermava che il cambio di nome del 1994 era avvenuto violando lo statuto (che richiedeva un congresso) e quegli atti apparivano pesantemente viziati (ma quelle sentenze non li hanno in concreto invalidati, per cui risultano tuttora validi ed efficaci), quindi il Cdu e l'Udc non potevano vantare diritti di esclusiva sullo scudo crociato; dall'altro chiariva che la sedicente Democrazia cristiana (guidata prima da Angelo Sandri, poi da Giuseppe Pizza, peraltro con un conflitto che dal 2004 ha portato entrambi a rivendicare per sé la segreteria del partito) non aveva titolo per impedire ad altri l’uso del nome e del simbolo contesi, non potendo dimostrare di essere esattamente la Dc "storica" che ha continuato a operare anche dopo il 1994-1995.
Coloro che volevano a ogni costo vedere di nuovo la Democrazia cristiana in attività interpretarono le due sentenze ricordate come la "certificazione" che la Dc non era mai stata sciolta (anche se, come si è detto, nessuno aveva mai detto di volerla sciogliere, ma solo rinominare), che continuava a esistere pur essendo rimasta "in sonno" fino ad allora, in attesa che gli iscritti del 1993 - e solo loro - la ridestassero (nulla di ciò, ovviamente, era scritto in quelle pronunce). Tra la fine del 2011 e il 2012, dunque, si tentò di nuovo la strada della riattivazione, in un primo tempo autoconvocando il consiglio nazionale della Dc (l'ultimo organo a essersi espresso sul cambio di nome del partito), con convocazione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale per cercare di raggiungere tutti anche senza gli avvisi personali mandati a ogni componente; da lì uscì eletto segretario Gianni Fontana, confermato dal XIX congresso alla fine del 2012, ma tra il 2013 e il 2014 il tribunale di Roma dichiarò nullo il consiglio nazionale da cui tutto era partito, per il mancato avviso personale a tutti i membri. Si tentò allora un'altra strada: in base all'art. 20 del codice civile, si può ottenere dal presidente del tribunale la convocazione dell'assemblea di un'associazione se ne fa richiesta motivata almeno un decimo degli associati. Come elenco degli associati, tuttavia, non si utilizzò quello dell'ultimo tesseramento valido degli anni '90, ufficialmente non disponibile e comunque non alla portata di chi voleva concretamente rimettere in moto il partito (sarebbe stato necessario raccogliere oltre centomila firme), ma quello delle 1742 persone che in occasione del congresso del 2012 avevano confermato la loro adesione alla Dc.
Presentata alla metà di maggio del 2016, la richiesta fu accolta dal Tribunale di Roma il 14 dicembre: il giudice Guido Romano dispose che a occuparsi della convocazione dovesse essere il primo firmatario della richiesta, Nino Luciani. L'assemblea del (25 e) 26 febbraio 2017 fu piuttosto concitata e già in quell'occasione emersero le prime avvisaglie dei dissidi e dei ricorsi successivi. Fu eletto alla presidenza Gianni Fontana, che avrebbe dovuto portare di nuovo al XIX congresso (visto che quello precedente era stato invalidato) la Democrazia cristiana. Dopo vari spostamenti di data (e polemiche sulla gestione del partito), l'assise si tenne il 14 ottobre 2018, con l'elezione alla segreteria di Renato Grassi. Quel congresso, tuttavia, è stato a sua volta contestato: chi lo ritiene legittimo riconosce Grassi come segretario; chi invece lo ha ritenuto illegittimo ha seguito altre strade, non meno litigiose (c'è chi riconosce come segretario Luciani, chi si ritiene guidato da Emilio Cugliari, chi invece ha indicato come segretario Franco De Simoni e Raffaele Cerenza, senza dimenticare chi da anni ritiene che la Dc sia stata già correttamente riattivata e rappresentata da Angelo Sandri).
Le lamentele degli attori e le repliche
La sentenza n. 10564/2022 della XVI sezione civile del Tribunale di Roma si è espressa sull'atto di citazione che nel mese di aprile del 2017 era stato depositato da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni. Questi avevano agito come iscritti alla Dc nel 1993 e - rispettivamente - come presidente e vicepresidente dell'associazione degli iscritti alla Democrazia cristiana del 1993 (nel frattempo De Simoni è stato pure in giudizio come segretario della Democrazia cristiana sulla base del percorso di autoconvocazione curato da lui e da Cerenza nel 2018), chiamando in giudizio i cinque firmatari della richiesta di convocazione dell'assemblea (Luciani, Alberto Alessi, Grassi, Luigi D'Agrò e Renzo Gubert, che agirono in nome di almeno il 10% dei soci della Dc) e Gianni Fontana quale presidente dell'associazione eletto nel 2017.
Nell'atto di citazione, Cerenza e De Simoni avevano innanzitutto negato che l'elenco degli iscritti sulla cui base era stata convocata l'assemblea fosse "l'unico e ultimo elenco degli iscritti alla Democrazia cristiana storica", ritenendolo invece frutto del tesseramento effettuato nel 2012 dopo il consiglio nazionale e prima del congresso, passaggi entrambi dichiarati nulli; in ogni caso, per gli attori coloro che erano stati convocati per l'assemblea del 26 febbraio 2017 erano decaduti dalla qualità di soci del partito, "non avendo essi dato prova della loro iscrizione al partito nel 1993" (anzi, alcuni avrebbero detto di non aver partecipato al congresso del 2012 e di non essere mai stati iscritti alla Dc). Si era poi rilevata la difformità dell'ordine del giorno dell'assemblea fissato da Nino Luciani rispetto a quello indicato nel decreto del giudice Romano (che prevedeva la nomina del presidente pro tempore della assemblea e del verbalizzante, la nomina del presidente dell’associazione e "varie ed eventuali"), essendo state aggiunte la presa d'atto che alla funzione di presidente dell'assemblea "e a tutte le formalità necessarie" era stato designato Luciani e la nomina di un vicepresidente (mentre mancava la nomina degli altri organi previsti dallo statuto Dc). I cinque che avevano chiesto al tribunale di Roma di convocare l'assemblea, poi, non sarebbero stati più regolarmente iscritti, perché erano stati invalidati tutti gli atti seguenti al consiglio nazionale del 2012 e perché alcuni dei cinque avevano aderito ad altri partiti e per lo statuto Dc erano decaduti da soci. Altre critiche riguardavano proprio l'assemblea: vista la ridottissima partecipazione all'evento (un centinaio di persone), non si sarebbe potuta assimilare quella platea a quella degli iscritti. Ciò avrebbe dovuto portare, per gli attori, a far dichiarare nulli o comunque a far invalidare tutti gli atti dell'assemblea del febbraio 2017 (inclusi quelli preparatori) e le loro conseguenze, anche in termini di cariche del partito.
Quattro dei cinque richiedenti la convocazione dell'assemblea (Luciani, Alessi, Grassi, Gubert) e Fontana hanno replicato alle lamentele degli attori: per loro il Tribunale di Roma aveva già valutato l'esistenza e la "bontà" dei presupposti per convocare l'assemblea dei soci della Dc nel decreto con cui era stata disposta la convocazione, dunque non c'era più spazio per contestare la legittimità dell'assemblea, né la "qualità" dei richiedenti (in più, tanto l'ordine del giorno quanto la convocazione dell'assemblea sarebbero state rispondenti a quanto disposto dal giudice nel suo decreto del 2016); gli stessi attori, poi, non avrebbero dato prova della loro iscrizione alla Dc nel 1993, né del loro interesse ad agire (vista "la natura meramente amministrativa del decreto" del giudice che ha permesso di svolgere l'assemblea). Quanto all'elenco dei soci del 2012 usato per cercare le firme e ottenere la convocazione, questo non sarebbe stato invalido perché nessuno lo aveva impugnato prima e perché in fondo si trattava di una semplice "ricognizione dell'elenco dei soci del 1992 sulla base di un'autocertificazione", un passaggio che le decisioni del Tribunale di Roma sul consiglio nazionale e sul congresso del 2012 non avrebbero privato di validità. Quanto alle altre lamentele degli attori, per i convenuti erano semplicemente prive di rilievo.
A rendere più complessa la situazione ha concorso l'intervento in giudizio di Angelo Sandri, Gabriella Strizzi, Gianfranco Melillo, Palmiro Scalabrin e Graziella Duca. Costoro formalmente hanno sostenuto le stesse tesi fatte valere da Cerenza e De Simoni, anche se lo lo hanno fatto da un diverso punto di vista: loro, infatti, ritengono di essere rispettivamente segretario politico e vicesegretaria, segretario e vicesegretario amministrativo, nonché vicepresidente nazionale vicaria della Democrazia cristiana, vale a dire quella che per convenzione viene definita Dc-Sandri (e che ritiene di avere già correttamente attuato la procedura di riattivazione del partito fin dal 2002-2003 e di essere in opera da allora).
La sentenza
Come si è visto, la causa è stata particolarmente lunga. I tempi si sono allungati per varie ragioni: tra queste, anche cambi di giudice (almeno un paio), l'intersezione con l'impugnazione degli atti del congresso del 2018 e, ovviamente, gli effetti della pandemia Covid-19 sulla trattazione del processo. In ogni caso, la sentenza è arrivata e merita di essere considerata con attenzione.
Per prima cosa, il giudice ha ritenuto che Angelo Sandri e gli altri dirigenti della "sua" Dc non avessero titolo per intervenire nel processo, ritenendo che non avessero fornito "alcuna evidenza documentale" a supporto tanto della loro dichiarata iscrizione alla Democrazia cristiana nel tesseramento 1992/1993, quanto delle loro cariche all'interno della Dc (derivanti dal congresso di Perugia del 14-15 dicembre 2013): ciò significa, in sostanza, che la Dc-Sandri non è stata ritenuta coincidente dal giudice con la Dc "storica" o, comunque, con quella che sarebbe stata "riattivata" tra il 2016 e il 2017. Quanto a Cerenza e De Simoni, si è ritenuto che fossero legittimati ad agire in proprio (De Simoni perché ammesso a partecipare dalla stessa assemblea all'Ergife del 2017, Cerenza anche perché riconosciuto come socio della Dc "storica" dalla sentenza del 2015 che ha dichiarato nullo il congresso del 2012); il giudice invece non ha ritenuto ammissibile l'intervento dello stesso De Simoni anche quale segretario politico della Dc (eletto dopo la procedura di riattivazione curata da lui e Cerenza), sia perché non sarebbe stato indicato a tempo debito il titolo alla base di quell'investitura, sia perché voler ritenere che la Dc guidata da De Simoni fosse la stessa di cui lui stesso aveva chiesto di invalidare l'assemblea degli iscritti avrebbe prodotto la situazione "ben singolare – ed anzi abnorme in rapporto al sistema vigente" in base alla quale le delibere di un organo della Dc sarebbero state impugnate da un altro organo del partito in nome e per conto del partito stesso.
Ciò, in ogni caso, non è bastato a far ritenere fondate le domande di Cerenza e De Simoni, che dunque sono state respinte. Il giudice ha innanzitutto richiamato l'art. 23 del codice civile, in base al quale "le deliberazioni dell'assemblea contrarie alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell'ente" o "di qualunque associato": si tratta di una regola dettata per le associazioni con personalità giuridica, ma che senza dubbio si applica anche a quelle non riconosciute come i partiti (e, oltre che essere annullate, possono essere dichiarate nulle in caso di vizi più gravi ab origine). A dispetto di questa premessa, nessuna delibera è stata ritenuta viziata, per le ragioni che di seguito si riportano.
Il giudice ha innanzitutto ritenuto che la contestazione della validità dell'elenco degli iscritti alla Dc - usato dai cinque richiedenti l'assemblea dei soci per ottenere le firme del 10% degli aderenti e presentato al Tribunale di Roma per ottenere il decreto di convocazione - non riguardasse tanto il modo in cui l'assemblea del (25 e del) 26 febbraio 2017 era stata convocata, ma la legittimazione dei richiedenti a chiedere e ottenere il decreto di convocazione di cui si è detto. Il decreto del giudice Romano non è però stato impugnato in modo esplicito da Raffaele Cerenza e da Franco De Simoni, dunque ogni lamentela relativa all'elenco per il giudice sarebbe affetta da "irrilevanza". In effetti è probabile che la difesa di Cerenza e De Simoni avesse mentalmente incluso il decreto tra gli atti preparatori dell'assemblea del 26 febbraio 2017: per il giudice, invece, non era possibile considerare il decreto del giudice come implicitamente "prodromico" all'assemblea, perché non serviva a preparare l'assemblea, ma al diverso scopo di "superare l'inerzia nella convocazione assembleare su iniziativa di un decimo degli associati" in una "logicamente preliminare e cronologicamente precedente" a quella della convocazione (che invece è davvero atto prodromico all'assemblea) e proprio a quello scopo era stato espressamente chiesto al giudice. Anche le altre lamentele legate direttamente alla legittimazione di Luciani e degli altri a chiedere e ottenere la convocazione dell'assemblea (perché decaduti da soci) per il giudice si devono considerare irrilevanti.
Quanto alla lamentata difformità dell'ordine del giorno indicato dalla convocazione curata da Nino Luciani rispetto a quanto previsto nel decreto del giudice Romano, secondo la sentenza si trattava di differenze relative a un "contenuto accessorio della delibera" non in grado di pregiudicare i diritti degli attori; quanto alla nomina del vicepresidente - peraltro non avvenuta, per cui già questo rendeva la critica irrilevante - riguardava una "figura ammessa implicitamente dai principi generali dell’ordinamento" (mentre per il giudice era irragionevole lamentare l'inserimento di un punto non previsto nel decreto iniziale e poi dolersi per la mancata inclusione delle altre nomine contemplate dallo statuto). Da ultimo, il fatto che solo un centinaio di persone (su circa 1750 iscritti dichiarati) abbia partecipato all'assemblea sarebbe altrettanto irrilevante, perché i partecipanti avrebbero comunque "votato nel rispetto del principio maggioritario previsto dalle disposizioni statutarie".
Queste osservazioni (e altre, di minore o comunque trascurabile entità) hanno dunque portato il giudice a respingere la richiesta degli attori, condivisa anche da coloro che avevano chiesto di intervenire nel giudizio. Questa decisione, peraltro, non è stata affatto indolore: in base al principio della soccombenza, infatti, attori e terzi intervenuti sono stati condannati - in solido, quindi tutte e tutti insieme dovranno l'intera somma - a pagare le spese processuali dei convenuti, quantificate in 9.275 euro (oltre all'Iva e ad altre spese, senza contare ovviamente le spese processuali che dovranno affrontare in proprio).
Osservazioni sulla sentenza (che va letta bene)
Fin qui il contenuto della sentenza di primo grado, prontamente diffusa da alcuni dirigenti della Democrazia cristiana guidata da Renato Grassi a sostegno delle loro posizioni: c'è chi ha scritto che la pronuncia del tribunale ha "stabilito la continuità tra la Dc di Spataro e De Gasperi del 1943 e l'assemblea del 2017" che sarebbe stata ritenuta "pienamente legittima", contrastando "i sabotatori dell'autentica Dc". Si può comprendere, soprattutto umanamente, l'atteggiamento di coloro che hanno appena ottenuto una vittoria in sede giudiziaria, arrivata dopo essersi difesi per molti anni e dopo aver affrontato in precedenza un percorso lungo e sofferto per cercare di riattivare la Dc; tuttavia, anche a costo di smorzare l'entusiasmo di cui parlano gli stessi estensori dei commenti appena citati, qui si deve suggerire una lettura della sentenza più aderente alla realtà, con riguardo al suo contenuto e ai suoi effetti.
Innanzitutto, anche se questo riguarda solo "di striscio" la pronuncia in sé e per sé, bisogna subito scacciare la tentazione di pensare che questa decisione del giudice ponga fine ai contenziosi tra i vari gruppi di democristiani o perfino alla "diaspora" democristiana. Posto che la decisione potrebbe sempre essere impugnata, si può star certi che le quattordici pagine del tribunale di Roma non ricomporranno nessuna frattura tra coloro che ritengono di incarnare la Dc "storica" in modo giuridicamente corretto, a differenza di altri. Tanto per essere chiari, la sentenza sull'assemblea del 2017 non incide minimamente sui contrasti politico-giuridici successivi sulla validità del congresso del 2018, a seguito dei quali - come si è detto - convivono la Dc guidata da Grassi (che riconosce la validità del congresso) e quelle a guida di Luciani (che ritiene di averlo revocato) e di Cugliari (il quale la pensa allo stesso modo, ma ritiene di essere arrivato in seguito al vertice del partito, dopo la sfiducia a Luciani, da questi non riconosciuta). Per ora non risulta che questi scontri si siano tradotti in contenziosi in tribunale (altri sì, ma non è il caso di complicare il quadro), ma di certo permangono, a dispetto della sentenza analizzata qui. Così come sembra ben difficile che, in seguito a questa decisione, Angelo Sandri o altre persone a lui vicine possano convergere verso la Dc-Grassi, accettandone la "legittimità" (si spiegheranno le virgolette) o comunque non contestandola più.
Venendo a un'analisi più attenta della decisione del giudice Goggi del Tribunale di Roma, non ci sono dubbi sul fatto che quel provvedimento rappresenti una vittoria della Dc-Grassi, sia pure solo con riguardo alle lamentele contenute nell'atto di citazione e per il modo in cui sono state formulate. In questo sito, tuttavia, non si ha l'abitudine di far dire a una sentenza ciò che non dice, né potrebbe dire, dunque occorre fare qualche precisazione. La prima è tanto ovvia quanto necessaria: non c'è un solo punto della sentenza in cui si dica o si faccia capire che la Dc riattivata tra il 2016 e il 2017 è lo stesso soggetto giuridico di Spataro e De Gasperi. Nelle quattordici pagine scritte, infatti, non c'è un solo riferimento alla "bontà", veridicità o affidabilità dell'elenco degli iscritti alla base della convocazione dell'Ergife o del procedimento seguito per compilare quell'elenco: non si dice mai, in particolare, che chi era iscritto nel 1993 è stato correttamente ritenuto iscritto nel 2012 (la sentenza si è limitata a citare la "pronuncia Scerrato" del 2015 con cui si era dichiarato nullo il congresso del 2012 per rilevare che Raffaele Cerenza, in difetto di esclusioni o recesso, doveva essere ritenuto "a tutti gli effetti ancora associato" alla Dc "storica": di più, quelle osservazioni valevano per un diverso procedimento di riattivazione della Dc, peraltro giuridicamente "finito male", fin dall'atto che aveva dato avvio al percorso).
Secondariamente, se nessuno può negare che il giudice abbia dato torto agli attori Cerenza e De Simoni (con riferimento a quelle lamentele e per il modo in cui sono state poste), non si può però dire che la sentenza abbia stabilito la piena legittimità dell'assemblea Dc all'Ergife e, soprattutto, la piena fondatezza del "decreto Romano" che la rese possibile. A ben guardare, infatti, il giudice ha detto con una certa nettezza che la difesa degli attori ha sbagliato a lamentare eventuali vizi del provvedimento giudiziale alla base dell'assemblea senza impugnarlo, ma non ha affatto detto che quelle lamentele fossero infondate. Al contrario - senza pretendere di voler interpretare in modo univoco e magari distorto la sentenza - è lo stesso testo scritto dal giudice a precisare che le questioni legate a eventuali difetti di legittimazione dei presentatori della richiesta di convocazione dell'assemblea (anche con riguardo alla formazione dell'elenco degli iscritti da considerare per la raccolta firme e il raggiungimento del 10%) sono irrilevanti "nel presente giudizio": ciò come a dire che potrebbero invece avere rilievo in un altro processo a monte del quale fosse impugnato anche il decreto del giudice Romano. E, paradossalmente, a suggerire che questo decreto possa forse ancora essere impugnato - a dispetto del decorso del tempo, ormai oltre cinque anni - è la stessa sentenza, quando non esclude in modo tranchant che la facoltà di impugnare il decreto del giudice possa essere considerata ancora attuale "in virtù dell’omessa notifica del provvedimento idonea a far decorrere il termine di cui all'art. 739 secondo comma c.p.c.." (il termine sarebbe di dieci giorni dalla notifica, che però non sarebbe mai avvenuta, essendo il decreto stato semplicemente pubblicato all'epoca).
Non è ovviamente detto che ora Cerenza, De Simoni o altri soggetti decidano di impugnare ora il "decreto Romano" per far valere le lamentele che in quest'occasione non sono state considerate (anche perché non è detto che un altro giudice non contesti loro la tardività della loro azione); in ogni caso ci si sente di dire che la mancata impugnazione del decreto appare determinante per gli esiti di questa vicenda. Il rigetto delle domande degli attori sta portando i rappresentanti della Dc-Grassi a rivendicare la piena legittimità del loro percorso, quando il giudice non ha detto nulla, soprattutto, su un punto molto delicato, forse il più delicato di tutti: era legittimo che la richiesta di convocazione dell'assemblea dei soci Dc fosse fondata su un elenco di iscritti formato - in base a un tesseramento o a una semplice ricognizione delle adesioni mediante autocertificazione, poco importa - nell'ambito delle attività riprese dopo il consiglio nazionale del 2012, prima sospeso e poi dichiarato nulla dal Tribunale di Roma (e, ironia della sorte, proprio dal giudice Guido Romano)? Il giudice non è stato messo in condizione di pronunciarsi su questa domanda - perché nessuno ha impugnato il "decreto Romano" - ma la sua risposta sarebbe stata molto interessante, potendo essere anche sfavorevole alla Dc-Grassi (già guidata da Fontana).
Si vedrà ora come intenderanno procedere Cerenza e De Simoni dopo una sentenza che certamente non li soddisfa. Restano i dubbi sulle domande cui il giudice non ha risposto (perché non ne ha avuto la possibilità), le perplessità sull'ennesima decisione giudiziaria letta in modo parziale o forzato e, soprattutto, una domanda: a quando la prossima lite sul simbolo dello scudo crociato?
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