venerdì 29 luglio 2022

Fasci italiani del lavoro, fondatori assolti anche dopo la Cassazione

L'avvicinarsi delle elezioni, con tutto il loro speciale carico di simboli, non può far dimenticare altre vicende "simbolicamente" rilevanti, soprattutto se su queste pagine si sono seguite le loro puntate precedenti. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione (n. 28565/2022) che ha chiuso definitivamente il processo relativo ai Fasci italiani del lavoro, respingendo il ricorso presentato dal procuratore generale della Corte d'appello di Brescia contro la sentenza che aveva assolto anche in secondo grado i fondatori del partito che nel 2017 era stato al centro del "caso Sermide", scoppiato dopo che la lista era riuscita a ottenere una consigliera al comune di Sermide e Felonica, dopo aver partecipato per vari anni alle elezioni amministrative in vari comuni mantovani - spesso candidando uno dei fondatori, Claudio Negrini - senza risultati significativi, ma anche senza interessamenti della magistratura. Vale la pena ripercorrere le tappe precedenti, per capire meglio questa decisione.

L'annullamento delle elezioni del 2017

Come si ricorderà, dopo l'elezione in consiglio comunale della candidata sindaca, fu impugnata la proclamazione degli eletti e della questione si occuparono i giudici amministrativi. In primo grado il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Brescia, competente per la provincia di Mantova) aveva ritenuto che la lista fosse stata illegittimamente ammessa alle elezioni, ma che la sua presenza non avesse influenzato l'intero esito elettorale: si era dunque limitato a espungere ex post i Fasci da quella competizione, assegnando il seggio all'altra lista di opposizione.
I ricorrenti, però, volevano proprio ottenere l'annullamento totale delle elezioni, per cui si rivolsero al Consiglio di Stato e, in seconda battuta, lo ottennero (era ormai la fine di maggio del 2018): per il nuovo collegio, infatti, la lista dei Fasci aveva ottenuto più della differenza delle altre due liste in gioco (su un numero limitato di votanti), quindi aveva alterato "in maniera significativa il risultato complessivo della consultazione", senza che si potesse escludere con certezza che tutti coloro che avevano votato per loro avrebbero scelto - in loro assenza - la lista non vincitrice. In seguito a quell'annullamento, è scattato il commissariamento per il comune di Sermide e Felonica e nuove elezioni si sono tenute nella primavera del 2019.

Il processo penale

Si è già ricordato in passato come, subito dopo la sentenza del Consiglio di Stato che aveva annullato le elezioni, la Procura della Repubblica di Mantova avesse iniziato a indagare, chiedendo per nove persone il rinvio a giudizio per i reati di riorganizzazione del partito fascista e apologia di fascismo (in particolare per vari passaggi dello statuto, risalente al 25 maggio 2000, per alcune manifestazioni pubbliche e pubblicazioni cartacee, nonché online). A metà aprile del 2019, tuttavia, in sede di giudizio abbreviato, il Tribunale di Mantova aveva assolto gli imputati (disponendo il non luogo a procedere per coloro che non avevano abbandonato il rito ordinario)
Il giudice di primo grado, in particolare, aveva riconosciuto come i Fasci italiani del lavoro fossero "di ispirazione palesemente e dichiaratamente fascista" (e lo stesso simbolo scelto lo dimostrava chiaramente), ma questo non era sufficiente per integrare una condotta penalmente rilevante, in particolare per parlarsi di riorganizzazione del partito fascista, non potendosi applicare in via estensiva norme eccezionali come la XII disposizione finale della Costituzione e gli articoli della "legge Scelba". Lo statuto conteneva, secondo la sentenza, giudizi storici su determinati fatti, vicende e fenomeni della storia italiana (dal ruolo del consenso nell'ascesa del fascismo alle possibili evoluzioni di quel regime, dal valore da attribuire all'8 settembre 1943 e al peso degli interventi armati stranieri nella conclusione della Repubblica sociale italiana, fino alla "democrazia dei partiti") sui quali non c'è concordanza tra gli studiosi (o nelle stesse aule parlamentari) o che comunque non possono ritenersi illegittimi. Non sono stati considerati illeciti nemmeno i riferimenti al programma di San Sepolcro del 1919 (denotavano l'ispirazione fascista, ma nessun "passo riorganizzativo") o al Manifesto di Verona del 1943 (il corporativismo in sé non integrava alcun reato), senza contare che era lo stesso statuto del partito a escludere "ogni forma di discriminazione razziale, rivendicando il rispetto di ogni etnia" e riconoscendo il valore del metodo democratico e la necessità di salvaguardare i diritti fondamentali. Non era stato dunque riconosciuto alcun potenziale rischio per l'integrità dell'ordinamento democratico e costituzionale legato all'attività delle persone incriminate, tanto con riguardo ai documenti prodotti, quanto con riferimento alle concrete azioni compiute (peraltro da un gruppo ristretto e poco organizzato di soggetti).
Insoddisfatta della decisione, la Procura della Repubblica impugnò la sentenza (lamentando una motivazione "contraddittoria e palesemente illogica, non potendo andare esenti da sanzione penale quei comportamenti assolutamente ambigui di soggetti e associazioni politiche che si insinuavano nell'ordinamento democratico [...] per inserirsi con le proprie regole e i propri cardini ispirati alle ideologie contrastanti con i principi democratici"): della vicenda si occupò la Corte d'assise d'appello di Brescia, che però il 26 giugno 2020 (in una sentenza depositata il 24 agosto) confermò l'assoluzione per le persone imputate. Posto che i giudici hanno subito rilevato "la peculiarità e difficoltà dell'indagine demandata oggi all'interprete" nel definire l'ambito applicativo delle norme penali", poiché l'interpretazione degli articoli della "legge Scelba" comporta "la rivisitazione di concetti che possono involgere spazi solitamente percorsi dallo storico, piuttosto che dal giurista", si è ribadito che la riorganizzazione del "disciolto partito fascista" aveva rilievo penale solo la riorganizzazione "del partito fascista, così come storicamente conosciuto, ovvero quel partito che ebbe ad agire e poi dominare la vita sociale, politica ed economica dello Stato italiano dal 1919 al 1943", ribadendo l'eccezionalità della norma (come la XII disposizione finale della Costituzione deroga agli artt. 18 e 49); si è poi confermato che la riorganizzazione del partito fascista è un "reato di pericolo concreto", per rispettare il principio di offensività. Si è in particolare richiamata la Corte di cassazione, per cui il pericolo che le condotte possano ricostituire le organizzazioni fasciste va valutato "in relazione al momento e all'ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi" (pur senza pretendere che il reato si abbia solo in presenza di condizioni identiche a quelle che avevano permesso il sorgere del partito fascista e l'instaurazione del fascismo). 
L'esigenza di tutelare le istituzioni democratiche dal pericolo del ritorno del fascismo, dunque, era stata ritenuta ancora attuale a distanza di vari anni - come testimoniato, del resto, dall'approvazione della "legge Mancino" nel 1993 - ma certamente occorreva che le condotte relative al partito fascista avessero la "capacità di influenzare gli orientamenti intellettuali e psicologici delle masse"; non era stata riconosciuta - in particolare con riferimento al Movimento fascismo e libertà, ma non solo - la concreta offensività di "quei gesti (quali l'adozione del fascio littorio) consistenti in un mero richiamo a una simbologia" fascista, non più influente sulla popolazione italiana. In concreto, benché secondo i giudici l'intento di raccontare ed elogiare il pensiero e l'ideologia fascista "trabocc[hi] da quasi tutti i documenti sequestrati", nel contenuto del "programma" perseguito dai Fasci italiani del lavoro per la corte non poteva "ravvisarsi, con tranquillizzante certezza, ovvero al di là di ogni ragionevole dubbio, la prova della condotta delittuosa ascritta agli imputati". 
Per il collegio - e, trattandosi di Corte d'assise d'appello, c'era pure la giuria popolare - il ragionamento del primo giudice sull'insussistenza della riorganizzazione del partito fascista mediante perseguimento di "finalità antidemocratiche" ed "esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito" era corretto e condivisibile. Quanto al programma desumibile dallo statuto - senza dare "rilevanza a ciò che programma non è", cioè alle valutazioni (pur ritenute faziose e "contrastanti con la prevalente critica storiografica") sull'origine e sull'evoluzione del partito fascista, sui motivi della sua caduta e sulla "democrazia dei partiti" - gli obiettivi del partito avrebbero contenuto "segnali contraddittori, che non consentono di chiaramente apprezzare se effettivamente il movimento intendesse organizzarsi al fine, davvero, di mettere nuovamente in pratica la dottrina fascista". Ad esempio, il riferimento alla democrazia corporativa e al fascismo come "grande rivoluzione ancora incompiuta [...], che garantisce la rappresentatività dei variegati interessi dei corpi sociali e delle correnti politiche" non implicava per forza l'approdo alla soppressione de facto della libertà sindacale; in generale, lo statuto dei Fasci italiani del lavoro, a fronte di passaggi assimilabili a una concezione - e teoricamente forieri di una deriva - autoritaria, ne avrebbe contenuti "altri, e peraltro, ben più consistenti, diretti ad esaltare il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali" (come i riferimenti alla salvaguardia delle libertà di stampa, associazione, espressione e religione, al rifiuto di ogni discriminazione razziale, alla Camera come luogo espressione dei partiti, pur avendo auspicato il superamento di questi). 
Se lo statuto e il programma non si riferivano alle pagine più buie del fascismo, nell'azione concreta non sono emerse condotte univocamente volte a "perseguire realmente l'abolizione del pluralismo etnico, culturale e religioso, nonché l'instaurazione di un sistema politico antidemocratico" (anzi, gli scritti e i testi presenti sul sito conterrebbero varie affermazioni contrarie al razzismo, alla xenofobia e all'antisemitismo, inconciliabili con i contenuti del Manifesto di Verona del 1943), mentre i post e i link provocatori o "pesanti" verso certi personaggi pubblici, "non avendo ad oggetto il programma politico dell'associazione, non consentono di dimostrare l'avvenuta riorganizzazione del disciolto partito fascista". Quanto alla partecipazione elettorale a Sermide, Felonica e Castelbelforte, questa non solo avrebbe dimostrato l'accettazione da parte del movimento "del metodo democratico e del pluralismo partitico" (così aveva argomentato la sentenza di primo grado), ma non era penalmente rilevante, mancando un programma univocamente antidemocratico. Le sentenze amministrative che avevano ritenuto illegittima la partecipazione alle elezioni amministrative di Sermide e Felonica nel 2017, infatti, rilevavano solo sul piano elettorale e non su quello penale; in ogni caso, si erano incentrate soprattutto sull'uso del fascio littorio all'interno del contrassegno di lista, già ritenuto irrilevante nella vicenda penale del Movimento Fascismo e libertà. Mancando la prova univoca che le persone imputate avessero perseguito fini antidemocratici propri del partito fascista (posto che condividere certi punti programmatici del fascismo, specie se non antidemocratici, non ha di per sé rilievo penale) e che "l'esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri" del partito fascista avesse raggiunto livelli tali da prefigurare un "pericolo concreto" di riorganizzazione del partito, era inevitabile assolvere gli imputati, sia pure per prova insufficiente o contraddittoria.

La sentenza della Corte di cassazione 

Non condividendo nemmeno la decisione di secondo grado, la procura generale di Brescia ha presentato ricorso alla fine del 2020, chiedendo l'annullamento con rinvio della pronuncia di seconde cure. La sentenza della Corte di cassazione citata all'inizio dell'articolo - pronunciata dopo l'udienza del 15 marzo 2022, ma depositata soltanto il 20 luglio scorso - ha però respinto il ricorso del pubblico ministero, per cui ora l'assoluzione delle persone imputate risulta definitiva e non più soggetta a impugnazioni. 
Secondo la Procura generale della Corte d'appello di Brescia, in particolare, era stata violata la legge penale (in particolare gli artt. 1, 2 e 4 della "legge Scelba"), perché questa avrebbe sanzionato "un'associazione politica che abbia finalità di ricostituzione in qualsiasi forma del partito fascista" anche qualora questa non avesse condiviso tutti i fini del programma del partito fascista. Per il pubblico ministero era un errore distinguere tra "associazione fascista penalmente rilevante" e "partito politico di ispirazione fascista che si muove in democrazia" sulla base della coesistenza, per quest'ultimo, di punti programmatici di matrice fascista e altri "asettici o ambigui" (così come non sarebbe stato consentito "bilanciare" condotte ritenute vietate ai sensi dell'art. 1 della "legge Scelba" con la partecipazione al voto amministrativo come accettazione del cimento democratico, con l'esiguo numero di persone aderenti o simpatizzanti): il semplice costituire un'associazione con atto notarile, il darsi uno statuto e un sito, il creare schede di iscrizione, pubblicare libri e concorrere ad elezioni (arrivando a eleggere una persona in consiglio comunale) avrebbero costituito per il Pm un complesso di "condotte concretamente idonee a creare proseliti e ad operare nel tessuto democratico con ideologie fasciste che i Padri costituenti hanno ritenuto fossero inammissibili con l'assetto costituzionale democratico". Lo stesso ricorso aveva lamentato anche la violazione degli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e) del codice di procedura penale, nel senso che il collegio di secondo grado non avrebbe motivato circa la contestazione di aver compiuto manifestazioni esteriori di carattere fascista, ritenuta dalla Corte d'assise d'appello descritta nel capo d'imputazione, ma "non addebitata".
Quest'ultimo motivo di ricorso è stato giudicato inammissibile dalla prima sezione penale della Cassazione, che lo ha ritenuto generico (perché le manifestazioni pubbliche non sono state indicate e descritte in concreto) e, se riferito alle manifestazioni sulla rete Internet e sui social network, non in grado di aggiungere profili ulteriori rispetto alle condotte di "propaganda" che la Corte d'assise d'appello ha ritenuto penalmente non rilevanti. Ci si è dunque concentrati solo sulla lamentela circa la supposta violazione degli articoli della "legge Scelba", ritenuta genericamente ammissibile anche a norma dell'art. 608, comma 1-bis del c.p.p. (introdotto nel 2017), in base al quale a seguito di un'assoluzione delle persone imputate tanto in primo quanto in secondo grado non era possibile per il pubblico ministero presentare ricorso per mancata assunzione di una prova decisiva (a dispetto della richiesta del Pm in dibattimento) o per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione; era ed è invece possibile contestare sia l'erronea interpretazione della legge penale sostanziale (cioè la sua inosservanza), sia l'erronea applicazione della stessa al caso concreto (perché il fatto è stato qualificato giuridicamente in modo sbagliato o inquadrato in una fattispecie non idonea).
La Corte ha ricostruito in breve i principi - "per lo più risalenti, ma tuttora validi e condivisibili" - che si sono consolidati nella giurisprudenza sulla riorganizzazione del disciolto partito fascista. In particolare, ai fini di quel delitto, ci si riferisce al fondamento ideologico del partito "storico" e al metodo di lotta da questo praticato (per cui non si colpisce l'associazione, ma il suo modo di operare), ma la condotta è censurata se ritenuta concretamente idonea a determinare il risultato (creando dunque una situazione di "pericolo concreto", in cui per esperienza è probabile che si verifichi un evento dannoso per il bene tutelato); non si punisce la manifestazione del pensiero fascista in sé, a meno che non implichi il pericolo di una possibile ricostituzione di un partito che abbia gli stessi metodi e gli stessi scopi del fascismo; non è vietato costituire movimenti - e operare con questi - che aderiscano solo ad alcuni punti di programma del disciolto partito fascista; il ristretto numero di persone che aderiscono a un progetto di natura fascista non è di per sé sufficiente a escludere la rilevanza penale delle loro condotte.
Sulla base di questi principi, per la Corte "non può, in alcun modo, ritenersi fondata la censura [...] circa l'inosservanza della legge penale in cui sarebbe incorsa la Corte d'assise d'appello di Brescia" nel confermare l'assoluzione per le persone imputate. E il motivo principale per escludere il reato sarebbe la compresenza - nei documenti fondativi dei Fasci italiani del lavoro e nei loro documenti e pubblicazioni, cioè i mezzi con i quali il partito mirava a farsi conoscere e ad attirare consensi e adesioni - di obiettivi storicamente perseguiti dalla dottrina fascista (come il corporativismo) e di un modello di Stato e di principi ben lontani dal concreto svolgimento del regime fascista per come lo si è conosciuto. Allo stesso modo, per il Supremo collegio non è viziato neanche il ragionamento in base al quale i testi che esaltavano esponenti, principi, fatti e metodi fascisti non hanno mai raggiunto livelli tali da creare le condizioni di un "pericolo concreto" di riorganizzazione del disciolto partito fascista, non essendosi abbinata all'esaltazione "difensiva" del fascismo l'indicazione di obiettivi programmatici coerenti con l'esperienza storica del fascismo. Quanto all'esiguità di membri del gruppo e di simpatizzanti e alla ridotta scala locala dell'attività, non sono - come si è visto - argomenti che di per sé escludono il rilievo penale, ma hanno certamente concorso a una valutazione complessiva di mancato "pericolo concreto". 
Sarebbe invece "in contrasto con la cornice legislativa e giurisprudenziale esaminata" la lettura proposta dal pubblico ministero, perché avrebbe proposto "elementi spuri di valutazione che né il legislatore, né questa Corte di legittimità o la Corte costituzionale hanno mai apprezzato quali presupposti sufficienti per l'integrazione del reato". In particolare, i giudici non avrebbero mai "bilanciato" elementi "fascisti" e non fascisti nello statuto e nei programmi, ma soltanto rilevato "una palese contraddizione fra elementi, ostativa, proprio per tale obiettivo contrasto, alla individuazione lineare di un programma politico univocamente preordinato alla ricostituzione del partito fascista"; allo stesso modo, la Corte d'assise d'appello aveva correttamente ritenuto ininfluenti le sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che avevano ritenuto illegittima la partecipazione dei Fasci italiani del lavoro alle elezioni amministrative del 2017, "trattandosi di decisioni afferenti esclusivamente a quella competizione elettorale e sfornite di più specifiche verifiche sul programma politico dell'associazione (invece, effettuate in sede penale)". Tutto questo è bastato alla Corte di cassazione per respingere il ricorso del Pm, confermando nella sostanza le assoluzioni.
 

Qualche riflessione finale

Sulla base di questa decisione, che chiude definitivamente la vicenda processuale per quei fatti, è il caso di proporre qualche riflessione conclusiva. Per la terza volta, dunque, il movimento Fasci italiani del lavoro non è stato ritenuto dai giudici una riorganizzazione del partito fascista. Esattamente come in innumerevoli casi si è ritenuto di non poter procedere allo scioglimento del Movimento Fascismo e libertà o anche solo alla condanna dei suoi promotori o esponenti per reati di apologia di fascismo o manifestazioni fasciste. A fronte di queste decisioni, peraltro, è noto che nel corso del tempo si è riscontrato un giudizio sempre più severo in materia di contrassegni elettorali: pur essendo stato sempre piuttosto rigido alle elezioni politiche, con riguardo alle amministrative nei primi tempi si era più spesso tollerata la presenza del fascio repubblicana (purché, come sottolineato dal Consiglio di Stato, fosse disgiunto dalla parola "Fascismo"), accompagnato ad altri elementi o da solo, mentre negli ultimi anni non si è più accettato nemmeno quello (e hanno creato problemi anche soluzioni alternative, come ad esempio l'aquila ad ali spiegate, specie se abbinata a determinati elementi testuali). Le stesse liste, però, si sono potute presentare quando hanno sostituito i simboli "incriminati" con altri più innocui - pur nettamente polemici, come quello della lista Censurati - senza che naturalmente sia cambiato assolutamente nulla nelle idee delle persone candidate e nei loro programmi.
Ora, per chi studia il diritto costituzionale è noto che l'Italia non si fa rientrare tra le cosiddette "democrazie protette" o "militanti", che approntano determinati strumenti per difendersi (tra l'altro) da chi abusa di determinati diritti o degli strumenti democratici per scardinarle: in Italia, in particolare, non è previsto in Costituzione che un partito possa essere sciolto in determinate condizioni (prevedendo anche per questo un procedimento con particolari tutele). In Germania, dove invece è previsto (all'art. 21 della Legge fondamentale), il Tribunale costituzionale tedesco nel 2017 ha deciso di non sciogliere il partito Npd pur giudicandolo "anticostituzionale" (dunque un passo più indietro rispetto all'incostituzionalità, non essendo stata iniziata alcuna opera di "distruzione" dell'ordinamento): ha ritenuto infatti che la situazione di pericolo legata a quella forza politica fosse limitata, anche per la limitata azione territoriale, il numero di iscritti contenuto e lo scarso peso del partito a livello federale, statale locale, come se il sistema avesse gli "anticorpi" per contenere o fronteggiare quel pericolo; è pur vero che, dopo quella storica sentenza del 2017, si è scelto di modificare in fretta la Costituzione, introducendo l'ipotesi dell'anticostituzionalità dei partiti e prevedendo come sanzione il venir meno del finanziamento pubblico, ma questo non agiva e non agisce sulla possibilità di partecipare alle elezioni, che resta libera.
Oggettivamente colpisce vedere che un paese a "democrazia protetta" (la Germania) sceglie di non proteggersi pur riconoscendo sulla carta il potenziale pericoloso di un soggetto politico e consente a questo di continuare a partecipare alle elezioni senza cambiare nome e logo (pur precludendo l'accesso ai finanziamenti pubblici, ma comunque dopo lo stesso iter garantista davanti al Tribunale costituzionale federale dettato per lo scioglimento), mentre un altro paese a democrazia non militante (l'Italia) non scioglie un partito, ma gli vieta di partecipare al voto con certi nomi e simboli - e via via gliene vieta sempre di più, per giunta senza avere scritto regole specifiche in materia - accettando però che partecipi con altre insegne che di certo non implicano un cambio di idee (né lo si potrebbe pretendere o verificare). In Germania, è vero, non è comunque possibile impiegare la svastica in politica o comunque mostrarla in manifestazioni pubbliche, perché una legge lo vieta; in Italia una norma analoga non c'è (del resto non si è portata a termine nemmeno l'approvazione del "ddl Fiano" che prevedeva qualcosa di simile), ma da vari anni di fatto i fasci sono ugualmente banditi. Si può censurare il fatto che a determinati partiti riconosciuti "non illeciti" e comunque non pericolosi non sia poi consentito agire politicamente e alle elezioni - il momento più importante della politica - con le loro insegne, così come qualcuno potrebbe pensare che quei partiti non siano pericolosi proprio perché non si consente loro di partecipare con quei fregi (e comunque non ci sarebbe ugualmente da stare tranquilli). In ogni caso, sul tema si dovrà riflettere ancora. 

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