Quando è stato depositato per la prima volta alle elezioni politiche, nel 1992, probabilmente i funzionari del Ministero dell’interno non avranno tradito nessuna emozione particolare, ma certamente deve aver fatto loro impressione vedere, per la prima volta nella storia repubblicana, un simbolo con un fascio in bella vista. Per giunta, con la parola «Fascismo» altrettanto evidente nell’emblema, scritta col normografo o qualcosa di simile. Si trattava del «Movimento fascismo e libertà», che Giorgio Pisanò aveva fondato a luglio dell’anno prima: nel preambolo dello statuto si legge che il soggetto politico «si rifà solo e semplicemente al fascismo, quel Fascismo che nacque come Terza Via fra socialismo e destra liberale, e che seppe conciliare, grazie alla genialità del Duce, una pluralità di uomini provenienti dalle esperienze politiche e sociali più disparate».
Lo stesso Viminale, in realtà, conosceva già il movimento di Pisanò, se non altro per le denunce che in poco tempo ha accumulato dopo la sua costituzione (e, almeno in un caso, anche prima), con l’accusa di aver ricostituito il “disciolto partito fascista” o di aver fatto apologia di fascismo. Tutti i giudici intervenuti fino ad allora, tuttavia (come pure quelli chiamati a giudicare in seguito) hanno sempre archiviato le accuse o assolto Pisanò e gli altri: per la legge Scelba (n. 645/1952, attuativa della XII disposizione finale della Costituzione) sono punibili l’esaltazione o l’uso della violenza, la soppressione delle libertà democratiche o la denigrazione della democrazia, se presenti nel programma del partito o nella condotta dei suoi aderenti. Così non è per Fascismo e libertà, che nello statuto esclude espressamente ogni tipo di violenza e inquadra le sue azioni in un contesto pienamente democratico.
Per il Ministero, tuttavia, questo non basta: il simbolo, così com’è, non va per niente bene e deve cambiare. Pur di partecipare alle elezioni, Pisanò accetta di modificare l’emblema: dell’originale, però, resta ben poco. Via il fascio, via la parola «fascismo»: resta giusto la parola «libertà», scritta a mano e inserita in due circonferenze concentriche (una rossa e una verde). Il nome sulla bacheca è rimasto lo stesso, ma il marchio politico è del tutto irriconoscibile e non aiuta a raccogliere voti: alla Camera il partito prende lo 0,01%, al Senato poco di più. Pisanò, comunque, non si arrende e continua a partecipare ad altre elezioni, soprattutto a livello locale. O, per lo meno, ci prova.
Lo stesso Viminale, in realtà, conosceva già il movimento di Pisanò, se non altro per le denunce che in poco tempo ha accumulato dopo la sua costituzione (e, almeno in un caso, anche prima), con l’accusa di aver ricostituito il “disciolto partito fascista” o di aver fatto apologia di fascismo. Tutti i giudici intervenuti fino ad allora, tuttavia (come pure quelli chiamati a giudicare in seguito) hanno sempre archiviato le accuse o assolto Pisanò e gli altri: per la legge Scelba (n. 645/1952, attuativa della XII disposizione finale della Costituzione) sono punibili l’esaltazione o l’uso della violenza, la soppressione delle libertà democratiche o la denigrazione della democrazia, se presenti nel programma del partito o nella condotta dei suoi aderenti. Così non è per Fascismo e libertà, che nello statuto esclude espressamente ogni tipo di violenza e inquadra le sue azioni in un contesto pienamente democratico.
Per il Ministero, tuttavia, questo non basta: il simbolo, così com’è, non va per niente bene e deve cambiare. Pur di partecipare alle elezioni, Pisanò accetta di modificare l’emblema: dell’originale, però, resta ben poco. Via il fascio, via la parola «fascismo»: resta giusto la parola «libertà», scritta a mano e inserita in due circonferenze concentriche (una rossa e una verde). Il nome sulla bacheca è rimasto lo stesso, ma il marchio politico è del tutto irriconoscibile e non aiuta a raccogliere voti: alla Camera il partito prende lo 0,01%, al Senato poco di più. Pisanò, comunque, non si arrende e continua a partecipare ad altre elezioni, soprattutto a livello locale. O, per lo meno, ci prova.
Già, perché quasi sempre le commissioni elettorali si mettono di traverso: non accade quasi mai che l'emblema sia accettato così com'è, qualche volta il contrassegno viene del tutto bocciato, più spesso se ne chiede solo la modifica. Alle elezioni comunali di Roma del 1993 (quelle da cui esce sindaco Francesco Rutelli), per dire, per la commissione il fascio può restare, ma la parola «fascismo» dev'essere sostituita e al suo posto c'è l'espressione «democrazia corporativa», che invece sembra non creare problemi. Altrove i tagli sono peggiori (riguardando sia il fascio, sia il riferimento al fascismo) e a volte il movimento non riesce nemmeno a presentare la propria lista.
Alle elezioni politiche del 1994, per dire, Pisanò ci riprova, presentando una versione del contrassegno più curata graficamente. Il Viminale, tanto per cambiare, dà pollice verso, ma stavolta il Mfl si oppone: vuole usare il proprio simbolo integrale e si rivolge all'Ufficio elettorale nazionale presso la Cassazione. I giudici riconoscono che l'emblema non viola nessuna delle regole tassative previste per i contrassegni, ma per loro «la
denominazione "fascismo" e il simbolo del fascio littorio, ponendosi
in contrasto con la disposizione finale XII della Costituzione, giustificano e
rendono dovuta l’esclusione del contrassegno dalle competizioni elettorali». Esclusione definitiva e niente da fare; ad altre elezioni amministrative, in cui le commissioni bocciano anche versioni sprovviste della parola «fascismo», il simbolo "depurato" viene invece riammessso dal Tar.
A questo punto il Viminale, per sicurezza, chiede un parere sull'ammissibilità anche al Consiglio di Stato, che si esprime sulla questione il 23 febbraio 1994. Anche per i giudici di Palazzo Spada «non è
concepibile che un raggruppamento politico partecipi alla competizione
elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito
fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione»; non è nemmeno accettabile, per questo, che nello stesso emblema siano contenuti contemporaneamente il fascio e la parola «fascismo». Se invece c'è solo il fascio, il discorso cambia. «Il fascio, usato nell’antica Roma come insegna dei magistrati elettivi dotati di potere di comando (imperium) - scrivono i giudici - ha assunto nel tempo il valore di simbolo della forma repubblicana dello Stato, e in particolare di una repubblica non oligarchica né aristocratica, ma retta dalla volontà popolare espressa mediante libere elezioni». Non a caso l'emblema (che pure in origine non è romano, come sostengono i magistrati, ma è etrusco) è stato adottato, tra l'altro, dalla Rivoluzione francese e dalla Repubblica romana: lo statuto del Mfl, del resto, parla di «fascio repubblicano di Mazzini».
Sanno bene, i giudici, che del fascio si è appropriato anche il Duce (come se il regime mussoliniano fosse davvero il continuatore della Roma repubblicana ed imperiale) e a chi vede il fascio viene in mente essenzialmente quel precedente, ma questo non basta a dare al segno un significato univoco. Morale, per i giudici del Consiglio di Stato, se il fascio romano è «disgiunto dalla parola "fascismo"», può stare su un contrassegno elettorale.
Da allora, in effetti, il Movimento fascismo e libertà riesce a partecipare più spesso alle elezioni, qualche volta addirittura col suo simbolo integrale, più spesso con la sua variante che agli elementi testuali sostituisce la sigla del partito (nera o a tinte tricolori) o quella del Partito socialista nazionale (altra parte della sigla), nei casi in cui persino la lettera "F" è considerata pari al termine "incriminato"; altre volte chi presenta gli emblemi copre con una "mascherina" grigia la parola «fascismo», magari scrivendo sopra «Censurato» in segno di protesta, oppure toglie ogni riferimento testuale, lasciando il solo fascio. Di solito, quei contrassegni vengono ammessi, per lo meno in seconda battuta, alle consultazioni locali.
Alle elezioni nazonali, invece, le cose continuano ad andare piuttosto male: il Viminale, infatti, continua a bocciare gli emblemi, sia pure presentati in modi e forme diverse, magari prive della parola «fascismo»: per loro, è lo stesso fascio ad essere impresentabile, nonostante il parere molto chiaro del Consiglio di Stato in senso opposto. L'unica volta in cui il deposito va a buon fine (e dopo la ricusazione del contrassegno con la sigla tricolore) è alle elezioni politiche del 2006, quando due mascherine grigie coprono non solo la parola già nota, ma anche buona parte del fascio, pur lasciando visibile (e riconoscibile) la lama dell'ascia.
Da allora, tuttavia, Carlo Gariglio (segretario del movimento dal 2001) lamenta come in più casi le prefetture avrebbero ricevuto comunicazioni dal Ministero dell'interno, con allegato proprio il simbolo ammesso nel 2006, chiedendo che fosse utilizzato quello e non altri, magari col fascio in evidenza; dal Viminale, tuttavia, hanno sempre e prontamente smentito l'invio di qualunque comunicazione. Comunque siano andate le cose, sarebbe bene che chiunque, d'ora in poi, si uniformasse a quanto suggerito autorevolmente dal Consiglio di Stato: il fascio, se utilizzato da solo, non è illegittimo. Può non piacere e, in alcune persone, suscita sentimenti di disapprovazione comprensibili, ma non per questo si può ritenere scorretto ciò che, in base alle regole vigenti, non lo è. Se ne terrà conto, nei prossimi giorni?
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