mercoledì 6 maggio 2020

Craxi, pagine (simboliche e non) da sfogliare vent'anni dopo (2)

L'articolo dedicato il 19 gennaio ai libri appena pubblicati o ripubblicati su Bettino Craxi aveva permesso di fare una prima carrellata sui volumi rilevanti su una figura che, a vent'anni dalla morte, continua a destare dibattiti, riflessioni e ricerche (nonché polemiche, ma qui non interessano). Eppure quel percorso non aveva esaurito la schiera dei libri utili per tracciare un ritratto il più completo possibile dell'uomo politico su cui probabilmente la discussione non riesce ancora a essere - se non oggettiva - almeno realmente serena. Ecco dunque un nuovo itinerario di lettura, fatto di libri già editi, ma comunque rilevanti (per un verso o per l'altro) nella ricostruzione che si intende fare, e di nuove uscite che offrono punti di vista interessanti.
Tra queste rientra Un socialista a Palazzo Chigi, opera prima di Vincenzo Iacovissi, vicesegretario nazionale del Partito socialista italiano, pubblicata con la piattaforma Ilmiolibro. Spicca l'enorme garofano in copertina, in armonia con la filosofia di questo sito: "Il garofano - spiega Iacovissi - è da sempre il fiore che simboleggia il lavoro, la fiducia e la speranza. È anche il simbolo del Partito socialista guidato proprio dal segretario Bettino Craxi, che scelse di adottarlo come segno di svolta e innovazione del corso socialista, aprendo il partito a un approccio fieramente riformista. Ho ritenuto doveroso riprodurre il garofano nella copertina perché aiuta ad inquadrare efficacemente la stagione politica che racconto; in più, da socialista militante quale sono da circa venti anni, è anche un omaggio alla tradizione che guarda al presente e al futuro del socialismo italiano". 
Eppure, del fiore che Craxi volle come simbolo del Psi non si parla nel libro, ma non è una mancanza: il volume infatti ha scelto di indagare soprattutto il periodo dei governi guidati da Bettino Craxi, iniziato quattro anni dopo l'adozione del primo garofano (di Ettore Vitale) e terminato di fatto poco prima dell'apparizione del secondo (di Filippo Panseca). Altre opere si sono concentrate sulla biografia di Craxi, su aspetti personali o sull'ultima parte della vita passata ad Hammamet; finora non si era dedicata specifica attenzione ai governi guidati da Bettino Craxi, alla loro formazione e composizione, alla loro collocazione nelle vicende italiane e internazionali. Iacovissi l'ha fatto, prima che da militante, da studioso: laureato in Scienze politiche e Storia e società, tra le due lauree ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Teoria dello stato e Istituzioni politiche comparate. Nel 2013 la rivista giuridica Federalismi.it lanciò una call for papers sui governi italiani, con l'intento di analizzarli uno per uno dal punto di vista del diritto costituzionale: Iacovissi scelse i governi Craxi e l'articolo fu la base della ricerca ora diventata volume. 
"Ho realizzato il libro - continua l'autore - perché ritengo maturi i tempi di una riflessione storica e storiografica sulla stagione di governo interpretata dal leader socialista Bettino Craxi. A vent'anni dalla scomparsa e a quasi quaranta dalla nascita del primo esecutivo diretto da un esponente Psi, è utile e necessario aprire una riflessione sul tema. La mia vuole essere una ricerca monografica sui quattro anni di 'Craxi di Stato e di governo', che ho cercato di illustrare ricorrendo soprattutto alle fonti bibliografiche e giornalistiche di allora, studiando a fondo la stampa nazionale e di partito; ho poi inquadrato scelte, fatti, momenti, successi e occasioni mancate anche esaminando i lavori parlamentari, per individuare le ricadute sul sistema decisionale italiano. Il Governo più longevo della 'prima Repubblica' merita un autonomo spazio di considerazione, che spero potrà essere approfondito dagli studiosi".
Il primo avvicinamento al governo di Bettino Craxi, nel 1979 (con il primo incarico affidato a un socialista da un capo dello Stato socialista, Sandro Pertini, che pure detestava Craxi, come questi ricordò), era fallito per indisponibilità della Democrazia cristiana; nel 1983 - dopo una legislatura tormentata, ripercorsa da Iacovissi, e le elezioni chieste soprattutto dal Psi, per valutare il suo grado di maturità - la Dc di Ciriaco De Mita, arretrata di oltre 5 punti rispetto al 1979, acconsentì che guidasse il governo il segretario di un partito che aveva ottenuto un terzo dei suoi voti, ma era fondamentale per ogni soluzione parlamentare. Arrivò a Palazzo Chigi colui che in campagna elettorale aveva messo al centro "l'ottimismo della volontà", formando un governo con Dc, Pri, Psdi e Pli; i democristiani ebbero però tre posti di peso nel Consiglio di gabinetto, novità voluta da Craxi. 
L'autore passa in rassegna le numerose diffidenze e le poche aperture di credito che il governo ottenne dai commentatori sulla stampa e nella sua stessa coalizione. Era facile avere l'impressione che quel governo sarebbe durato poco (magari fino al 1985, con le regionali e un nuovo eletto al Quirinale), ma la storia avrebbe nettamente detto il contrario. Partito con un nutrito programma concordato su politica estera (con un ruolo pacifico e centrale per l'Italia), risanamento dell’economia e sviluppo del lavoro (combattendo l'inflazione e arginando la disoccupazione), politiche sociali, lotta alla criminalità e impegno sulla giustizia, "grande riforma" delle istituzioni (cui il segretario socialista pensava almeno dal 1981), il governo Craxi si era dato subito un orizzonte di legislatura, anche per sfuggire a richieste di "staffetta" a metà percorso; le Camere furono sciolte con un anno di anticipo, ma il leader socialista restò a Palazzo Chigi più dei suoi predecessori, incarnando la stabilità invocata dall'inizio, a dispetto di una maggioranza non proprio coesa e placida.
Può colpire che il primo governo Craxi abbia mirato innanzitutto all'accreditamento internazionale, specie con gli Stati Uniti e per procedere all'installazione degli euromissili (pur lasciando spazio ai negoziati tra Reagan e Gorbaciov), considerando che l'episodio più noto dell'epoca resta la "crisi di Sigonella" del 1985, che rischiò di compromettere il rapporto con gli americani, ma impose il capo del governo come protagonista (che superò in modo rocambolesco la crisi di governo di quei giorni). Sul piano interno, non mancarono gli incidenti, a partire dalla mancata conversione, alla prima uscita parlamentare, del decreto sul "condono edilizio" (impallinata dal voto segreto, cui allora i regolamenti parlamentari, secondo un modello consociativo, davano più spazio) e dalle polemiche craxiane contro la "lentocrazia" del Parlamento, senza trascurare la scaramuccia con la presidente della Camera Nilde Iotti sui decreti-legge reiterati. Si tagliò invece la "scala mobile", con una doppia decretazione d'urgenza (a prezzo di ampie tensioni sindacali e del peggioramento dei rapporti tra Psi e Pci) e si approvarono norme antievasione (stavolta con altri malumori interni alla maggioranza, aggirati con un nuovo ricorso a un decreto e al voto di fiducia); con meno travaglio si ottenne la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa, paradossalmente arrivata con un presidente del Consiglio di fede garibaldina, ma determinato a conseguire il traguardo. Non andò in porto il citato disegno della "grande riforma", perseguito con la "commissione Bozzi" (il cui lavoro, peraltro, resta il più organico e interessante tentativo di revisione costituzionale generato nella storia repubblicana) e tradottosi in varie proposte di intervento sulla Costituzione non andate in porto, sempre per la diffidenza e distanza di interessi tra le forze politiche della coalizione di governo.
I socialisti uscirono rafforzati dalle elezioni del 1985 e lo stesso valeva per Bettino Craxi, che contò anche sulla vittoria del No al referendum sulla "scala mobile", anche se nei mesi precedenti la sua immagine era uscita provata dalla battaglia sull'etere televisivo, iniziata con i decreti dei pretori dell'autunno del 1984 in seguito ai quali Fininvest scelse di oscurare le sue trasmissioni e conclusa provvisoriamente con la conversione del "decreto Berlusconi-bis" dopo aspra battaglia parlamentare (è forse l'unica parte del volume troppo penalizzata dalla necessità di sintesi). La vicenda diede più peso alla Dc, che nel 1986 invocò di continuo la necessità dell'alternanza (per non allontanarsi troppo dal potere), fino alla fine dell'esperienza del primo esecutivo socialista nell'estate del 1986; nel frattempo Craxi, col ministro degli esteri Giulio Andreotti, era però riuscito a far avanzare il processo comunitario (forzando la mano al consiglio europeo di Milano del 1985). 
Il nuovo incarico a Craxi - dopo l'esplorazione di Amintore Fanfani, quella informale di Giovanni Spadolini e l'incarico fallito ad Andreotti - apri un secondo esecutivo a guida socialista, ma con una scadenza chiara (marzo 1987) e in una fase che per Iacovissi era "ancor più precaria e ricca di incertezze, che neanche la tenacia e l’autorevolezza del premier avrebbero potuto superare, secondo la logica del piano inclinato" che ormai portava alla fine della legislatura: l'autore riconosce al nuovo governo "la pressoché totale assenza di iniziativa politica, risultando per lo più immobilizzato dalle discussioni interne sulla sua permanenza in carica, circostanza che non gli fece mai assumere la spinta innovatrice e propulsiva" dell'esperienza precedente, proprio per l'ostilità tra Craxi e De Mita. Le nuove dimissioni di Craxi, il 3 marzo 1987, non arrivarono a sorpresa, ma posero fine con ritardo a "un'atmosfera politica che, da tesa qual era da tempo, ha finito con il divenire irrespirabile e nociva per tutti". La reputazione internazionale dell'Italia era decisamente migliorata, ma il "Craxi di Stato e di governo" era finito, suo malgrado, per questioni tutte interne (e non certo relative all'economia, visti gli esiti positivi sull'inflazione dello scontro sulla "scala mobile").
Il giudizio complessivo di Vincenzo Iacovissi sull'esperienza craxiana a Palazzo Chigi, sganciata dalla vicenda del Psi, tratteggia "uPresidente del Consiglio molto diverso dai suoi numerosi predecessori e simile ai Primi Ministri delle principali democrazie europee, pur senza gli stessi poteri di questi ultimi. Un Capo del Governo [...] che interpretò il proprio ruolo in modo netto e deciso. [...] Un Presidente forte dentro istituzioni deboli, che segnò con la propria azione un’intera stagione politica". Un giudizio condivisibile, sostanzialmente oggettivo, che va oltre i meriti o i demeriti dell'uomo di partito e non dev'essere visto attraverso le lenti della stagione di "Mani pulite". Che è esistita ed è indelebile, ma non è la sola da considerare per una visione davvero completa.


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Per allargare di nuovo lo sguardo, dopo essersi concentrati sull'esperienza dei governi Craxi, si può riprendere un volume ormai datato 2007, ma tuttora assai importante per chi cerca di "farsi un'idea" sulla figura di Bettino Craxi e sul suo ruolo nelle vicende politiche italiane. Si tratta di Craxi, una "biografia che è storia del nostro Paese" scritta da Luigi Musella, storico contemporaneista dell'università "Federico II" di Napoli e pubblicato da Salerno Editrice. Un lavoro corposo, che peraltro si apre con due pagine vergate da Giulio Andreotti, che ricordava il progetto craxiano di "sostituire i comunisti nella guida delle sinistre e sviluppare verso la DC un rapporto di colloquio competitivo": il sette volte presidente del Consiglio citava il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), bollandolo come "fantasiosa estensione giornalistica" di un rapporto politico-personale che pure tra i tre ci fu (e negando, nel contempo, di essere mai salito sul celebrato camper dell'accordo), fino a citare la "morte patetica di un uomo che aveva conosciuto - della vita pubblica italiana - più la polvere che gli altari".
Rispetto alla monumentale biografia - analizzata nel primo articolo - di Massimo Pini, quella di Musella è scritta non con lo sguardo dell'amico, e collaboratore, ma con il piglio e l'attenzione dello storico, con un solido fondamento sui documenti in quel momento disponibili (non le carte dell'ex presidente del Consiglio, che ora invece sono in gran parte disponibili attraverso il sito della Fondazione Craxi) oltre che in una serie di interviste realizzate appositamente per quello studio. Il tutto nella consapevolezza che quella di Craxi è una storia politica "ancora molto presente nell'oggi e nell'oggi continua ad essere fonte di inesauribili battaglie e scontri" e che gli stessi media - che indubbiamente offrono una parte rilevante del materiale di cui tenere conto in una ricostruzione storica - hanno "finito per mettere in ordine i fatti secondo gerarchie, scale di rilevanza, ordini d’interesse, che nei misteriosi legami e fili tra i giornali e/o i mass media e i rispettivi lettori hanno finito per funzionare in base alla condivisione di opzioni politiche, scelte culturali, atteggiamenti di vita e prospettive di fondo".
In circa 400 pagine, il volume percorre tutte le tappe della vita (personale e politica) di Craxi, dalla prima esperienza in appoggio al padre alle elezioni del 1948 alla carriera da funzionario di partito (e proprio nelle vicende politiche nazionali del Psi Musella si sforza di contestualizzare il percorso del suo futuro segretario), fino all'incarico come responsabile di zona a Sesto San Giovanni e alla prima esperienza da assessore - della prima giunta di centrosinistra - a Milano dopo le amministrative del 1960, mentre il ruolo di Craxi cresceva anche nel partito, fino all'approdo alla segreteria milanese nel 1965. Proprio nella seconda metà degli anni Sessanta lo storico individua l'inizio di uno sforzo cospicuo del futuro presidente del Consiglio "in direzione della riaffermazione di una cultura riformista", benché il Psi si riconoscesse ancora "in una ideologia che rimaneva entro gli ambiti del marxismo": per lui invece i socialisti dovevano rifiutare "seccamente le tradizionali formulazioni frontiste propagandistiche e pseudo unitarie tipiche del comunismo togliattiano e posttogliattiano, ma promuovendo le chiarificazioni, le demistificazioni, sollecitando una presa di coscienza delle reali prospettive di trasformazione della società italiana". Ciò valeva in politica, come nel sindacato. Imperdibile, incidentalmente, la descrizione del "bunker milanese di piazza Duomo 19" (vero quartier generale craxiano a Milano), a dimostrazione che la storia non si fa - rendendola avvincente - solo con gli eventi e le carte.
Musella tratta con attenzione il cursus honorum craxiano verso la responsabilità nazionale, prima con l'elezione a deputato poi con l'approdo alla segreteria nel 1976 all'Hotel Midas, con la costruzione della squadra di collaboratori e la progressiva messa al margine di potenziali concorrenti alla guida del partito. In quel percorso, l'autore fa emergere l'impegno di Craxi per la costruzione di una nuova identità del partito e nell'opera rientra anche la "svolta simbolica" del congresso di Torino del 1978, raccontata con le parole di Walter Tobagi: "il simbolo del congresso non è il solito stemma, ma un disegno nuovo, dominato da un grande garofano rosso: il garofano è il simbolo di quel socialismo europeo, con cui il PSI ha cercato di stringere i rapporti negli ultimi due anni, guardando soprattutto al modello francese di Mitterrand. È un miraggio per i trentenni che sperano di cominciare, da Torino, una lunga marcia per avvicinarsi a quelle dimensioni elettorali (20 per cento) che il PSI riuscì a raggiungere solo nelle elezioni del 1946". 
Dopo le settimane drammatiche del sequestro Moro, l'opera identitaria continuò, di cui la pubblicazione del Vangelo socialista fu un tassello assolutamente rilevante. Musella analizza con attenzione la vicenda dell'incarico del 1979 a Craxi non andato a buon fine, così come gli anni che separano quell'incidente dall'arrivo - stavolta per davvero - del segretario socialista al governo, passando per tappe importanti come la conferenza programmatica riminese del 1982 (dal titolo Governare il cambiamento). Quanto al periodo di governo, non stupisce un intero, lungo capitolo dedicato a Sigonella, così come un altro incentrato sulle vicende mediorientali; in seguito la ricostruzione appare più rarefatta, alla pari del destino del Psi, mentre molte pagine sono incentrate sul disegno di "socialismo liberale" proposto e agito da Craxi, che tenesse conto della crescita e della modernizzazione. Gli ultimi otto anni di vita dell'ex presidente del Consiglio sono concentrati in tre brevi capitoli, uno sull'inchiesta milanese, uno sull'addio alla politica italiana (incentrato però su una riflessione sul rapporto tra politica e finanziamenti) e uno sulla "fine", tutti caratterizzati dalla prevalenza di interventi altrui, con le parole dello storico ridotte al minimo. Una scelta singolare e, in fondo, comprensibile: forse su questo di parole, anno dopo anno, ne erano state già dette davvero troppe.
Tra i volumi pubblicati negli anni scorsi se ne possono scegliere un paio, per un verso o per l'altro da considerare. Il primo, Bettino Craxi dunque colpevolepubblicato da Rubbettino nel 2013, è stato scritto da Nicolò Amato (avvocato, già magistrato e direttore dell'amministrazione penitenziaria). In copertina c'è anche il nome (anzi, il soprannome) del politico, anche perché lui "era Bettino, semplicemente Bettino", per gli amici veri che si identificavano in lui, per coloro che "desideravano esibire una qualche familiarità o contiguità con il mondo di potere e di successo che egli rappresentava" e per gli stessi avversari e nemici, che vedevano in lui "il Male assoluto, da sconfiggere, anzi, da distruggere". 
Amato fu procuratore nel processo legato al sequestro e all'assassinio di Aldo Moro e si disse colpito - pur non condividendolo - dall'atteggiamento di Craxi (sostenitore della linea della trattativa), riconoscendo in esso "una alta e acuta intelligenza politica" e "una vivissima sensibilità umana, assai rara nel mondo della politica", a dispetto della freddezza e della decisione visibili in superficie. Da allora, ha scritto Amato, tra lui e Craxi era nata un'amicizia che ha portato il secondo a nominare il primo come suo difensore, in parte dei processi cui era sottoposto. Anche sulla scorta di quella lunga esperienza, il libro si propone di cercare "un po' di verità per Bettino", attraverso gli occhi di chi è stato prima magistrato e poi avvocato, evitando in ogni passo di dare credito all'equivalenza tra "Craxi" e "colpevole" - che negli anni è stata ripetuta da più parti, come un mantra rassicurante - e domandandosi se il "male" sopravvissuto al suo ex cliente fosse la vicenda giudiziaria in cui era coinvolto o, piuttosto, l'essere stato coinvolto (indebitamente) in quella vicenda.
Il volume rappresenta ovviamente un punto di vista particolare sui fatti legati a "Mani pulite" (e sul filone processuale romano, quello appunto seguito da Amato), che ha avuto anche riflessi personali, come la volta in cui l'autore era stato individuato come possibile assessore della giunta guidata da Francesco Rutelli nel 1993, ma finì per rinunciare poiché gli era stato chiesto di rinunciare alla difesa di Craxi, cosa che lui rifiutò categoricamente ("piegandomi alla pressione e, in tal modo, calpestando la mia dignità e i valori nei quali avevo sempre creduto, io non avrei più avuto la forza di guardarmi allo specchio"). Così Amato analizza lo tsunami giudiziario che ha riguardato "Bettino" (e che forse lo aveva individuato/scelto espressamente come "il centro del malaffare"), ponendosi soprattutto domande sul momento in cui Craxi entrò davvero nell'indagine (basandosi sul contenuto di un'inchiesta della Stampa curata da Maurizio Molinari - fresco direttore della Repubblica - sui rapporti tra diplomazia americana e pool milanese, in parte richiamata anche nei libri di Mario Pacelli e Marcello Sorgi). 
Si passano poi in rassegna i discorsi di Craxi tra il 1992 e il 1993, pronunciati in Parlamento (a partire da quello della dichiarazione generale di correità della politica italiana, a Montecitorio il 3 luglio '92: il silenzio di tutta l'aula davanti alle parole di Craxi, per Amato, equivale a una "clamorosa confessione collettiva") e davanti ai magistrati, come dichiarazioni o interrogatori. L'autore ne è convinto: non erano confessioni di natura penale, ma "una denuncia politica e morale della devastante degenerazione del sistema politico-economico", che includeva Craxi stesso ma era inevitabilmente molto più ampio. Spettava però, sempre secondo Amato, alla politica e non alla magistratura combattere questo fenomeno, attraverso nuove norme e una nuova coscienza civile. Bettino Craxi, invece, divenne "il capro espiatorio della squallida vicenda di tangentopoli", senza che peraltro quel trattamento risolvesse in alcun modo il problema della corruzione, come nuovi fatti si sarebbero incaricati di dimostrare. I magistrati, secondo Amato, non colsero l'opportunità di avere da Craxi le informazioni di cui era in possesso, chiedendo lui solo "di essere prima ascoltato, poi giudicato, secondo verità e con il rispetto dovuto a ogni uomo"; l'atteggiamento della magistratura fu altro. Il giurista contesta alla radice l'idea che Craxi fosse qualificabile come latitante ("un marchio d'infamia"), spiegando la sua tesi in punto di diritto; allo stesso modo, passa in rassegna le condanne emesse nel tempo e ne mette in dubbio il fondamento, a partire dal teorema - non previsto dall'ordinamento - del "non poteva non sapere".
Quella di Bettino Craxi dunque colpevole è una lettura difficile, per molti versi. Un po' per lo stile enfatico dell'autore, ricco di appelli al lettore e di riferimenti letterari, un po' perché chi è stato ragazzo negli anni '90 fatica a spogliarsi del'idea che il tentativo di fare pulizia iniziato nel 1992 abbia contenuto più ombre che luci. Epperò ci si può basare, se non sulla prefazione di Vittorio Feltri ("Ho partecipato alla battuta di caccia al Cinghialone. Nel 1992 stavo al fianco di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedicato i titoli più carogna della mia vita professionale al tempo dell'Indipendente [...] Non sono stato cinico, ma cieco"), su una frase detta nel 2011 dall'ex procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli, che pensando al degrado del "bunga-bunga" si scusava "per il disastro seguito a mani pulite. Non valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per per cascare poi in quello attuale". Se non ricorda I reduci di Giorgio Gaber, poco ci manca.
Altro libro da considerare, più recente (è uscito nel 2017 per i tipi di Male Edizioni di Monica Macchioni), è I conti con Craxi, scritto da Paola Sacchi, giornalista di Panorama dopo un lungo lavoro all'Unità. Si tratta, in effetti, di un testo piuttosto breve, che raccoglie l'ultima intervista rilasciata dal politico alla giornalista a settembre del 1999, proprio nel periodo in cui scriveva per l'Unità (ma era un colloquio privato, destinato a un libro che lei intendeva scrivere sulla mancata unità a sinistra) e contornato da una serie di riflessioni della stessa Sacchi, anche con riferimento ad altre conversazioni tenute con l'ex leader socialista, e di altri articoli a firma sua (compreso un colloquio con Anna Moncini, moglie di Craxi). Già tre anni fa (e forse anche prima) l'autrice poteva scrivere che "è un fatto che l'Italia si trovi sempre più a fare i conti politici e storici con la figura di Craxi, la cui ombra si allunga ogni volta da Hammamet, per un verso o per l'altro, incombendo sulla nostra politica". Poteva valere per una via da dedicare a Bettino, come per un paragone più o meno appropriato con lui fatto per questo o quell'uomo politico. Pur trattandosi di un libro decisamente anomalo rispetto agli altri, lo si è scelto perché dà conto di come un'intervista sciolta dall'attualità da quotidiano possa andare a cogliere posizioni o dettagli fino a quel momento poco noti o valorizzati.
In quel dialogo, Craxi rifiutò categoricamente la voce in base alla quale si sarebbe personalmente arricchito, addebitava in qualche modo l'antisocialismo di Berlinguer alla rottura da questi consumata con il padre socialista, disse che l'unità socialista tentata nel 1990 era fallita perché Achille Occhetto non aveva accettato ("Gli dissi: Achille faccio prima a fare l’Unità socialista che a rubarti due milioni di voti. Lui tornò in Via del Corso e mi disse: 'Bettino, mi dispiace ma la maggior parte del mio partito preferisce un rapporto con la Dc'. Fu allora che Occhetto si alleò con quella parte del Psi che era contro di me") ed era convinto che Claudio Martelli avesse qualcosa a che fare con quella scelta. "Craxi ha provato seriamente a capire se ci fossero le condizioni perché si giungesse finalmente a realizzare un'alternativa di sinistra - ha scritto la figlia Stefania Craxi nella prefazione - tanto da aggiungere al simbolo del Psi, quello del garofano [...], la dicitura 'unità socialista'. Con la caduta del muro di Berlino pensò che la storia avrebbe condotto in modo naturale i post comunisti a compiere la svolta e a diventare socialisti, un nome che ancora oggi resta impronunciabile in una sinistra che si è inventata 'democratica' e oggi vagheggia di Ulivo 4.0 dopo essere passata negli anni da cose o cosette con numerazioni progressive e fallimentari".
Si diceva però di Claudio Martelli, datosi da molto tempo alla scrittura e già autore, tra l'altro, di Ricordati di vivere (Bompiani, 2013), autobiografia politico-personale che molto ha incrociato della militanza nel Psi e del rapporto di Martelli con l'allora segretario. In concomitanza con il ventesimo anniversario della scomparsa, La nave di Teseo ha pubblicato L'antipatico. Bettino Craxi e la Grande Coalizione.  Si tratta di un nuovo racconto, questa volta incentrato sulla figura di Craxi, sui suoi modi e sul modo in cui è stato trattato, anche attraverso gli occhi di chi gli è stato accanto a lungo (e non sempre facendosi apprezzare, come visto). Il risultato è, per usare le parole dello stesso Martelli, "la storia di un manifesto, politico e intellettuale, è la storia di programmi di governo, di coalizioni, di compromessi, di scelte fatte in un’epoca sfrenata e demonizzata da parte di un uomo enigmatico".
Il volume, insieme a quello che lo ha preceduto, merita di essere letto dando qui poche anticipazioni, proprio per la delicatezza del punto di vista e per lo status particolare e un po' imprendibile di Martelli, tuttora una delle figure più note e riconosciute di quel periodo, con le sue qualità e difetti. Nel lasciare a lettori e lettrici di questo spazio la possibilità di scoprire e approfondire direttamente le parole di Martelli, ci si limita a un assaggio di natura simbolica. 
In questo senso, era già interessante un passaggio di Ricordati di vivere rilevava più di altri: quando Martelli disse che all'inizio degli anni Ottanta "c'era attenzione anche per la nuova cura dell'immagine del partito, dei suoi congressi, delle federazioni rinnovate, dei circoli culturali accanto alle sezioni, ma soprattutto delle idee nuove, dei convegni creativi, provocatorii e glamour. A cominciare dal simbolo, dal garofano rosso che sostituì la falce e il martello, e poi gli arredi di via del Corso e dei congressi, il look e lo stile di vita dei dirigenti. Venivamo scoprendo la dimensione anche estetica della politica, la politica dell'immagine e, impreparati, sottovalutavamo i rischi di tanta esposizione pubblica".
Ecco invece il ritratto contenuto già nel prologo di L'antipatico
Era un politico moderno, consapevole che l’immagine - "Viviamo nella civiltà dell’immagine" - anche quella della politica, dei partiti e dei loro simboli, era diventata un mezzo di comunicazione più potente della parola. Ne diede prova con tante felici invenzioni, a cominciare dal garofano rosso che sostituì la falce e il martello come simbolo del partito, lanciando un messaggio più potente e duraturo di un congresso. Con quel cambio d’immagine di cui fu l’unico autore Craxi annunciava la fine della lunga, convulsa storia del PSI massimalista, confusionario e perciò subalterno all'egemonia ideologica del comunismo internazionale - così subalterno da adottarne i simboli e spesso il linguaggio. 'Chi non ha idee prende a prestito quelle degli altri', soleva dire, e ce l'aveva coi massimalisti di ieri e i superstiti di oggi. Con i primi perché avevano 'copiato' i comunisti, con i secondi perché si erano affezionati all'imitazione. Craxi di idee nuove ne sfornò davvero parecchie, sempre cercando di connetterle alla storia autonoma, originale, creativa del socialismo delle origini. Così, tolti i simboli e l’iconografia sovietizzanti, ecco riemergere dalla storia del PSI quel garofano rosso già presente nelle iconografie liberty d'inizio secolo e usato come coccarda infilata nell'asola della giacca dai lavoratori di varie nazioni nella festa del Primo Maggio. Quel simbolo floreale, gentile e primaverile, lontano dagli estremismi e dai duri connotati di classe, era a un tempo mezzo e messaggio. "Dillo con un fiore" furono le parole che accompagnavano il gesto di un Craxi sorridente nell’atto di porgere un garofano nel corso di una famosa intervista tv con Giovanni Minoli. Dunque sapeva essere gentile, e anche simpatico.
Epperò, messo da parte per un attimo il garofano, non ci si può sottrarre alle righe che nel libro vengono subito dopo, forse per smentire l'ultima frase (e concordare con l'immagine scelta come titolo), o forse per sottolineare che il codice craxiano non conosceva eccezioni, di nessuna sorta, nemmeno dai collaboratori più vicini:
Da un leader così moderno e così esperto nella comunicazione e nell'arte della persuasione non ti aspetteresti gaffe, scivoloni, gesti maldestri. Semplicemente, essendo un politico serio, prima di parlare si concentrava, rifletteva, come in quel momento a pranzo, seduto sotto il sole di Caprera al centro di una lunga, bianca tavolata di compagni intenti a rifocillarsi dopo il comizio. Così, quando Onofrio Pirrotta, il più devoto dei giornalisti socialisti del Tg2 e il più familiare in quanto sposo della sua segretaria, Serenella Carloni, senza ulteriore preavviso gli piazzò il microfono tra il piatto e il mento interrogandolo, accadde l’inevitabile: "Presidente, qual è l’attualità politica di Garibaldi?" E Craxi senza guardarlo - "senza degnarlo di uno sguardo", avrebbero poi infierito i colleghi cronisti - scansò il microfono, si girò verso il commensale alla sua destra e, sollevando il braccio, gli intimò: "Passami l'olio".
Gli avesse offerto un fiore (quel fiore), forse, sarebbe arrivato comunque al momento sbagliato. Chissà. [Chiosa di puntiglio: "Si può avere un po' d'olio?" Craxi lo disse dopo che un cronista col microfono gli aveva fatto notare che Cossiga avrebbe votato al referendum Segni sulla preferenza unica. E a dire quella frase non era stato Pirrotta, ma il giornalista del Tg3 Maurizio Santarelli. Poco cambia, nella sostanza, ma persino la memoria di Martelli non è perfetta].

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