L'emergenza legata al Covid-19, oltre a bloccare o contenere movimenti e attività di quasi tutti gli italiani, ha inevitabilmente congelato o rallentato vari processi politici. Tra questi, anche quello che avrebbe dovuto - nelle intenzioni dei promotori - segnare il ritorno in campo dei democratici cristiani, da una parte con la Federazione popolare coordinata da Giuseppe Gargani che avrebbe dovuto dare luogo a un'iniziativa politico-elettorale con il concorso giuridico-simbolico dell'Udc, con nome ancora da definire (Democrazia cristiana o, secondo Gianfranco Rotondi, Partito del popolo italiano), dall'altra con un nuovo congresso - il XX - della Dc attualmente guidata da Renato Grassi, originariamente previsto per il 20 e 21 marzo ma che non risulta essersi svolto proprio per le restrizioni imposte dal governo per il Coronavirus.
Il blocco forzato delle attività e degli incontri in presenza, tuttavia, non ha fermato i pensieri e i contatti tra i vari partecipanti dei vari progetti, per via telefonica o telematica; in questo modo, peraltro, non sono venuti meno neppure i disaccordi su come procedere, per entrambi i percorsi politico-giuridici. Vale la pena fare un quadro riassuntivo della questione, pur nella consapevolezza che - vista la delicatezza delle questioni e la disomogeneità delle posizioni - qualcosa certamente sfuggirà o sarà involontariamente impreciso: di ciò corre l'obbligo di scusarsi preventivamente, al solito senza prendere le parti di nessun "litigante".
Ebbene, in quella lettera si conferma la "netta disponibilità espressa dagli amici Gargani, Grassi, Tassone e Rotondi e di molti responsabili di movimenti e associazioni che hanno condiviso il nostro patto federativo"; allo stesso tempo, però, si menzionano espressamente "le perplessità e i distinguo di Cesa e di alcuni dei suoi amici dell'Udc, i quali, forti della loro attuale disponibilità nell'utilizzo del simbolo dello scudo crociato, vorrebbero che quanto sin qui concordato si concludesse semplicemente con l’ingresso di tutti nel loro partito". Un'ipotesi che per Bonalberti è semplicemente "un'operazione fuori della realtà" (si vedrà subito perché). Anche Gianfranco Rotondi, in una mail di qualche giorno successiva (4 maggio), aveva riassunto così la questione: "Abbiamo costituito una federazione volta a ricostruire il partito cristiano. Siamo arrivati alla conclusione che - per rifondare la Dc - la modalità più realistica è l’allargamento dell'Udc, partito detentore dell’uso dello scudo crociato. Ma a tutt'oggi non c’è la certezza che ciò avvenga, né tutti sono concordi su questo percorso".
Già, perché l'idea che coloro che vogliono ridare vita a una presenza democratico-cristiana in politica aderiscano all'unico soggetto che elettoralmente può usare il simbolo dello scudo crociato senza troppi problemi (o, pur senza aderire, almeno si candidino sotto le sue insegne) è forse la più semplice sul piano pratico e, senza dubbio, quella che più conviene all'Udc, ma non tiene però conto di almeno due problemi. Sul piano giuridico, l'ingresso di nome o di fatto nell'Udc sarebbe come riconoscere la legittimità dell'uso (e, secondo alcuni, della titolarità) dello scudo crociato in capo a quel partito, cosa intollerabile per chi finora si è speso per la riattivazione della Dc (e lascerebbe la questione spinosa di tutte le cause ancora in essere); sul piano politico, allargando semplicemente l'Udc svanirebbe nel nulla il progetto di creare un nuovo soggetto politico cui partecipino a pieno titolo tutti i soggetti collettivi che avevano dato vita alla Federazione popolare. Non aiuta a risolvere la questione il fatto che tutti e tre gli eletti al Parlamento per il partito guidato da Lorenzo Cesa (Antonio De Poli, Paola Binetti, Antonio Saccone) aderiscano ai gruppi di Forza Italia e, comunque, il partito abbia ottenuto altre cariche sul territorio schierandosi con il centrodestra: il nuovo soggetto politico "laico, democratico, popolare, riformista, europeista, ispirato ai valori dell'umanesimo cristiano, inserito a pieno titolo nel Ppe da far tornare ai principi dei padri fondatori, alternativo alla deriva nazionalista populista a dominanza salviniana, e alla sinistra senza identità", come lo vorrebbero molti dei partecipanti alla Federazione, dovrebbe assumere una collocazione autonoma, una scelta che all'Udc non sembra convenire.
Certo, al momento la Federazione popolare esiste ancora, ma altrettanto certamente non è (ancora) un partito, anche perché se lo fosse i soggetti che vi confluirebbero dovrebbero prima esprimersi nettamente con un congresso e deliberare la loro sospensione o, per i più piccoli, direttamente il loro scioglimento (l'infinita trafila di liti sulla "fine" della Dc dovrebbe aver insegnato almeno qualcosa). Certo, la Federazione potrebbe scegliere di comune accordo di presentare candidature alle prossime scadenze elettorali, ma dovrebbe darsi un simbolo, di cui probabilmente si parlerà nella riunione del 20 maggio. Pare non si possa prescindere dalla partecipazione dell'Udc all'operazione per poter usare senza contestazioni lo scudo crociato, ma i contrari all'annessione insistono perché nel contrassegno elettorale figuri solo lo scudo crociato, senza alcun riferimento al Ppe o all'Udc con il nome con cui è normalmente nota (Unione di centro); c'è la disponibilità a valutare l'uso della denominazione "Unione dei democratici cristiani" (che pure è parte del nome integrale dell'Udc, ma di fatto non viene usato nella pratica quotidiana), al più evidenziando le iniziali Udc se questo fosse utile (ad esempio) a evitare la raccolta firme in qualche elezione regionale, senza però che il simbolo sembri graficamente o nominalmente quello del partito di Cesa. Anche una soluzione di questo tipo, peraltro, non parrebbe del tutto condivida e non supererebbe i problemi legati alla titolarità dello scudo e alla possibilità di impiegare il contrassegno "federato" in futuro, se la Federazione dovesse perdere pezzi.
In ogni caso, rinviate per necessità sanitaria le elezioni di primavera (e nell'ovvia inopportunità, come pure qualcuno forse aveva ventilato, di votare a luglio per l'impossibilità di svolgere a dovere le operazioni serventi alle candidature e la stessa campagna elettorale), c'è un po' più di tempo per organizzarsi e mettere in campo una proposta politica o almeno elettorale, ma nemmeno molto. "Arranchiamo ancora tra racconti di controversie giudiziarie, slanci federativi a 36 sigle, progetto di partito unitario senza una data di scadenza", scriveva Gianfranco Rotondi nella sua lettera del 4 maggio, rilevando con amarezza che si era realizzata una "profezia" formulata da Arnaldo Forlani nel 1992: "la Scristianizzazione del Paese avrebbe ridotto la Dc al 10 per cento, e la legge maggioritaria avrebbe spaccato in due questa quota, producendo due partiti in lotta tra di loro per chi fosse più Cristiano", anche se le dispute sono state essenzialmente di altra natura e le scissioni non si sarebbero contate. "Avevo coltivato la velleità imperdonabile:[...] di poter chiudere la mia esperienza politica esibendo non solo un curriculum ma anche un risultato politico, la rifondazione della Dc. Temo di essermi illuso", scrive con amarezza Rotondi, mentre il virus "rallenta i processi, penalizza maggiormente una platea anziana e digitalmente non alfabetizzata come la nostra. E questo tempo sarà fatale per il nostro progetto; se non mettiamo in campo la Dc (o Ppi che dir si voglia) entro l'estate, dopo sarà tardi".
Per Rotondi, insomma, il 20 maggio - giorno della riunione telematica convocata da Gargani - sarà "la data ultimativa oltre la quale sapremo se prepararci a un congresso di rinascita o al definitivo epilogo della infinita transizione democristiana". Si vedrà, a questo punto, cosa decideranno le persone partecipanti a quella videoconferenza, in vista delle prossime elezioni ma - più in generale - con lo sguardo all'area popolare, democratica e cristiana.
Il 14 marzo, infatti, si era tenuta in videoconferenza una "Assemblea dei soci" della Democrazia cristiana "storica", convocata a febbraio dal "presidente pro tempore" dell'associazione Nino Luciani (carica con cui lui si qualifica dopo che, il 12 ottobre 2019, in una riunione analoga a Roma si era ritenuto di dichiarare nullo il congresso svoltosi l'anno prima e che aveva portato all'elezione di Renato Grassi alla segreteria): l'incontro era stato convocato per l'avvicinarsi di un'udienza (originariamente prevista il 24 marzo, ma a quanto pare rinviata al 6 ottobre) della causa intentata da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni per far dichiarare illegittimo il XIX congresso Dc del 2018, tanto più che nel frattempo in quella stessa causa sempre Cerenza si era costituito pure come segretario amministrativo e rappresentante legale della Dc storica, in seguito all'assemblea (autoconvocata sempre il 12 novembre 2019, quasi contemporaneamente a quella guidata da Luciani ma in altro luogo di Roma) degli iscritti del 1993. Contestando la legittimità di quel passaggio, l'assemblea del 14 marzo guidata da Luciani aveva deliberato l'esclusione dalla Dc storica di Cerenza, di De Simoni e di Antonio Ciccarelli (ritenendo che assumendo cariche nella "loro" Dc abbiano indebitamente speso nome e simbolo della Democrazia cristiana, causando danno al partito). In quella stessa sede, a quanto si apprende dal verbale, si è deliberato (all'unanimità dei 15 presenti) di consentire, in deroga allo statuto Dc, la convocazione degli associati - anche e soprattutto per il XIX da ripetere - "per pubblici proclami" sulla Gazzetta Ufficiale e con avviso personale via e-mail.
Nella riunione in video conferenza del 14 marzo si era però anche deciso di aggiornare l'assemblea - senza bisogno di una nuova convocazione sulla Gazzetta - al 23 maggio, sempre in via telematica, per terminare l'esame dell'ordine del giorno. In quella sede si dovrebbero considerare vari punti, a partire dalla ratifica del regolamento congressuale, così come si dovrà discutere della data del congresso, anche in base alle decisioni del governo a proposito della pandemia (peraltro è curioso leggere nell'o.d.g. non trattato a marzo anche la discussione circa la "Ratifica dell'accordo del 15 novembre 2017 di G. Fontana, Franco De Simoni, Angelo Sandri, Paolo Magli per la riunificazione, nella Dc di tutte le loro presenze politiche", forse anche solo per riconoscere che l'accordo è ormai superato dagli eventi e quindi improduttivo di effetti); il gruppo avrebbe poi manifestato l'idea di presentare liste con il nome e il simbolo della Dc. Nel frattempo, peraltro, il 24 aprile sul sito della Democrazia cristiana guidata da Renato Grassi è apparsa una (nuova) diffida a Luciani, accusato a sua volta da Grassi di ledere l'immagine della Dc con le proprie "iniziative prive di fondamento giuridico e in aperta violazione delle norme statutarie" (il florilegio di critiche si può leggere direttamente nella nota pubblicata).
Attraverso lo stesso sito, sempre Grassi e il segretario amministrativo Mauro Carmagnola non hanno mancato di diffidare anche Cerenza e De Simoni: il 3 maggio questi (come segretario amministrativo e politico della Dc, assieme al coordinatore nazionale Ciccarelli) avevano reso pubblico un comunicato stampa in cui censuravano l'attività di formazioni - come la Dc-Grassi e la Dc guidata da Angelo Sandri - che utilizzavano la denominazione "Democrazia cristiana" (indicando a loro supporto determinate decisioni di organi giudiziari), chiedendo alle prefetture, alle questure e alla polizia postale di reagire contro l'uso illegittimo dei segni distintivi che nuocerebbe "gravemente alla credibilità della ricostituita Democrazia cristiana che desidera essere presente sulla scena politica come un partito fatto di persone che desiderano operare con spirito di servizio per la realizzazione del bene comune, per migliorare la qualità della vita di ogni persona e per rendere la nostra società più equa, più aperta, più collaborativa e non ultimo, più libera".
Per Grassi e Carmagnola le decisioni citate sono state lette in modo scorretto, perché non sarebbero riferibili alla Dc-Grassi (che continua a rivendicare la continuità con la Dc storica) e non ci sarebbe ad oggi contro quello stesso partito "alcuna pronuncia giudiziale che ne abbia disconosciuto la sua legittima entità a rappresentarne la continuità con la Dc come storicamente l’abbiamo conosciuta" (a dire il vero ci sarebbe la decisione dell'Ufficio elettorale nazionale per il Parlamento Europeo del 2019, che - forse andando leggermente oltre ciò che era stato chiesto e non cogliendo pienamente la realtà - disse che dal 1993 la Dc aveva concluso la propria attività senza avere più rappresentanti in Parlamento, quindi il gruppo di Grassi non poteva "accreditarsi quale legittimo continuatore di quel partito"; quella decisione fu confermata dal Tar e dal Consiglio di Stato, anche se va riconosciuto che si tratta sempre di pronunce rese in sede elettorale per l'uso di un contrassegno, non direttamente relative alla continuità di due soggetti giuridici). Sempre Grassi e Carmagnola rivendicano la bontà del procedimento di riattivazione della Dc seguito alla richiesta di disporre la convocazione dei soci della Dc su domanda del 10% degli iscritti, cui il Tribunale di Roma diede seguito alla fine del 2016 (ma con gli elenchi degli aderenti del 2012, non certo del 1992-1993 come è scritto nella diffida), a differenza di quello messo in atto da De Simoni e Cerenza: per questo sono stati diffidati affinché non usino più nome e simbolo della Dc, "con riserva di ogni azione giudiziale a tutela".
La diatriba non si è arrestata qui, essendo continuata con scambi di mail tra le due parti, inviate a un pubblico non ristretto: un schermaglia in punto di diritto, con reciproche accuse di ricostruzioni parziali e faziose, e a volte anche con appunti sulle scelte politiche personali fatte nel corso del tempo (perché in una vicenda come questa hanno inevitabili ricadute giuridiche). In tutto ciò, il tempo scorre e le liti, invece che semplificarsi, si complicano: riuscire a districarvisi e a non perdere il filo di ciascuna di essa richiede un esercizio di pazienza e di saldezza di nervi notevole. Più di quanto, forse, chi nel 1994 scelse di voltare pagina rispetto alla Dc poteva immaginare.
Il blocco forzato delle attività e degli incontri in presenza, tuttavia, non ha fermato i pensieri e i contatti tra i vari partecipanti dei vari progetti, per via telefonica o telematica; in questo modo, peraltro, non sono venuti meno neppure i disaccordi su come procedere, per entrambi i percorsi politico-giuridici. Vale la pena fare un quadro riassuntivo della questione, pur nella consapevolezza che - vista la delicatezza delle questioni e la disomogeneità delle posizioni - qualcosa certamente sfuggirà o sarà involontariamente impreciso: di ciò corre l'obbligo di scusarsi preventivamente, al solito senza prendere le parti di nessun "litigante".
Il futuro della Federazione popolare dei democratici cristiani
Con riguardo alla Federazione popolare dei democratici cristiani, una data chiave dovrebbe essere il 20 maggio, giorno in cui Giuseppe Gargani ha fissato un incontro - ancora però in via telematica, visto che i partecipanti sono di regioni diverse - di coloro che stanno lavorando al progetto; proprio sul "che fare", tuttavia, si appuntano numerosi dubbi e soprattutto differenze di vedute. Questi emergono con una certa chiarezza da una lettera aperta "agli amici della Federazione popolare" pubblicata il 17 aprile da Ettore Bonalberti, presidente dell'Associazione liberi e forti (Alef), ma soprattutto tra coloro che da anni lavorano per il ritorno di un soggetto politico democratico cristiano (come testimonia il suo lungo impegno per la Dc-Fontana e, attualmente, nella Dc-Grassi).Ebbene, in quella lettera si conferma la "netta disponibilità espressa dagli amici Gargani, Grassi, Tassone e Rotondi e di molti responsabili di movimenti e associazioni che hanno condiviso il nostro patto federativo"; allo stesso tempo, però, si menzionano espressamente "le perplessità e i distinguo di Cesa e di alcuni dei suoi amici dell'Udc, i quali, forti della loro attuale disponibilità nell'utilizzo del simbolo dello scudo crociato, vorrebbero che quanto sin qui concordato si concludesse semplicemente con l’ingresso di tutti nel loro partito". Un'ipotesi che per Bonalberti è semplicemente "un'operazione fuori della realtà" (si vedrà subito perché). Anche Gianfranco Rotondi, in una mail di qualche giorno successiva (4 maggio), aveva riassunto così la questione: "Abbiamo costituito una federazione volta a ricostruire il partito cristiano. Siamo arrivati alla conclusione che - per rifondare la Dc - la modalità più realistica è l’allargamento dell'Udc, partito detentore dell’uso dello scudo crociato. Ma a tutt'oggi non c’è la certezza che ciò avvenga, né tutti sono concordi su questo percorso".
Già, perché l'idea che coloro che vogliono ridare vita a una presenza democratico-cristiana in politica aderiscano all'unico soggetto che elettoralmente può usare il simbolo dello scudo crociato senza troppi problemi (o, pur senza aderire, almeno si candidino sotto le sue insegne) è forse la più semplice sul piano pratico e, senza dubbio, quella che più conviene all'Udc, ma non tiene però conto di almeno due problemi. Sul piano giuridico, l'ingresso di nome o di fatto nell'Udc sarebbe come riconoscere la legittimità dell'uso (e, secondo alcuni, della titolarità) dello scudo crociato in capo a quel partito, cosa intollerabile per chi finora si è speso per la riattivazione della Dc (e lascerebbe la questione spinosa di tutte le cause ancora in essere); sul piano politico, allargando semplicemente l'Udc svanirebbe nel nulla il progetto di creare un nuovo soggetto politico cui partecipino a pieno titolo tutti i soggetti collettivi che avevano dato vita alla Federazione popolare. Non aiuta a risolvere la questione il fatto che tutti e tre gli eletti al Parlamento per il partito guidato da Lorenzo Cesa (Antonio De Poli, Paola Binetti, Antonio Saccone) aderiscano ai gruppi di Forza Italia e, comunque, il partito abbia ottenuto altre cariche sul territorio schierandosi con il centrodestra: il nuovo soggetto politico "laico, democratico, popolare, riformista, europeista, ispirato ai valori dell'umanesimo cristiano, inserito a pieno titolo nel Ppe da far tornare ai principi dei padri fondatori, alternativo alla deriva nazionalista populista a dominanza salviniana, e alla sinistra senza identità", come lo vorrebbero molti dei partecipanti alla Federazione, dovrebbe assumere una collocazione autonoma, una scelta che all'Udc non sembra convenire.
Una delle proposte in circolo, tradotta in grafica |
In ogni caso, rinviate per necessità sanitaria le elezioni di primavera (e nell'ovvia inopportunità, come pure qualcuno forse aveva ventilato, di votare a luglio per l'impossibilità di svolgere a dovere le operazioni serventi alle candidature e la stessa campagna elettorale), c'è un po' più di tempo per organizzarsi e mettere in campo una proposta politica o almeno elettorale, ma nemmeno molto. "Arranchiamo ancora tra racconti di controversie giudiziarie, slanci federativi a 36 sigle, progetto di partito unitario senza una data di scadenza", scriveva Gianfranco Rotondi nella sua lettera del 4 maggio, rilevando con amarezza che si era realizzata una "profezia" formulata da Arnaldo Forlani nel 1992: "la Scristianizzazione del Paese avrebbe ridotto la Dc al 10 per cento, e la legge maggioritaria avrebbe spaccato in due questa quota, producendo due partiti in lotta tra di loro per chi fosse più Cristiano", anche se le dispute sono state essenzialmente di altra natura e le scissioni non si sarebbero contate. "Avevo coltivato la velleità imperdonabile:[...] di poter chiudere la mia esperienza politica esibendo non solo un curriculum ma anche un risultato politico, la rifondazione della Dc. Temo di essermi illuso", scrive con amarezza Rotondi, mentre il virus "rallenta i processi, penalizza maggiormente una platea anziana e digitalmente non alfabetizzata come la nostra. E questo tempo sarà fatale per il nostro progetto; se non mettiamo in campo la Dc (o Ppi che dir si voglia) entro l'estate, dopo sarà tardi".
Per Rotondi, insomma, il 20 maggio - giorno della riunione telematica convocata da Gargani - sarà "la data ultimativa oltre la quale sapremo se prepararci a un congresso di rinascita o al definitivo epilogo della infinita transizione democristiana". Si vedrà, a questo punto, cosa decideranno le persone partecipanti a quella videoconferenza, in vista delle prossime elezioni ma - più in generale - con lo sguardo all'area popolare, democratica e cristiana.
Quale Democrazia cristiana?
Nel frattempo, come detto, al di là delle vicende della Federazione popolare, prosegue il percorso della Democrazia cristiana, che mantiene la sua autonoma esistenza giuridica. Si è detto del XX congresso del 20 e 21 marzo che non si è svolto, causa Coronavirus; non è ancora dato sapere se il percorso congressuale riprenderà. In compenso, questo periodo - come gli ultimi 18 anni del resto - non è comunque di "pace" nell'area di chi si riconosce nel nome e nel simbolo del partito che fu di Alcide De Gasperi.Il 14 marzo, infatti, si era tenuta in videoconferenza una "Assemblea dei soci" della Democrazia cristiana "storica", convocata a febbraio dal "presidente pro tempore" dell'associazione Nino Luciani (carica con cui lui si qualifica dopo che, il 12 ottobre 2019, in una riunione analoga a Roma si era ritenuto di dichiarare nullo il congresso svoltosi l'anno prima e che aveva portato all'elezione di Renato Grassi alla segreteria): l'incontro era stato convocato per l'avvicinarsi di un'udienza (originariamente prevista il 24 marzo, ma a quanto pare rinviata al 6 ottobre) della causa intentata da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni per far dichiarare illegittimo il XIX congresso Dc del 2018, tanto più che nel frattempo in quella stessa causa sempre Cerenza si era costituito pure come segretario amministrativo e rappresentante legale della Dc storica, in seguito all'assemblea (autoconvocata sempre il 12 novembre 2019, quasi contemporaneamente a quella guidata da Luciani ma in altro luogo di Roma) degli iscritti del 1993. Contestando la legittimità di quel passaggio, l'assemblea del 14 marzo guidata da Luciani aveva deliberato l'esclusione dalla Dc storica di Cerenza, di De Simoni e di Antonio Ciccarelli (ritenendo che assumendo cariche nella "loro" Dc abbiano indebitamente speso nome e simbolo della Democrazia cristiana, causando danno al partito). In quella stessa sede, a quanto si apprende dal verbale, si è deliberato (all'unanimità dei 15 presenti) di consentire, in deroga allo statuto Dc, la convocazione degli associati - anche e soprattutto per il XIX da ripetere - "per pubblici proclami" sulla Gazzetta Ufficiale e con avviso personale via e-mail.
Nella riunione in video conferenza del 14 marzo si era però anche deciso di aggiornare l'assemblea - senza bisogno di una nuova convocazione sulla Gazzetta - al 23 maggio, sempre in via telematica, per terminare l'esame dell'ordine del giorno. In quella sede si dovrebbero considerare vari punti, a partire dalla ratifica del regolamento congressuale, così come si dovrà discutere della data del congresso, anche in base alle decisioni del governo a proposito della pandemia (peraltro è curioso leggere nell'o.d.g. non trattato a marzo anche la discussione circa la "Ratifica dell'accordo del 15 novembre 2017 di G. Fontana, Franco De Simoni, Angelo Sandri, Paolo Magli per la riunificazione, nella Dc di tutte le loro presenze politiche", forse anche solo per riconoscere che l'accordo è ormai superato dagli eventi e quindi improduttivo di effetti); il gruppo avrebbe poi manifestato l'idea di presentare liste con il nome e il simbolo della Dc. Nel frattempo, peraltro, il 24 aprile sul sito della Democrazia cristiana guidata da Renato Grassi è apparsa una (nuova) diffida a Luciani, accusato a sua volta da Grassi di ledere l'immagine della Dc con le proprie "iniziative prive di fondamento giuridico e in aperta violazione delle norme statutarie" (il florilegio di critiche si può leggere direttamente nella nota pubblicata).
Attraverso lo stesso sito, sempre Grassi e il segretario amministrativo Mauro Carmagnola non hanno mancato di diffidare anche Cerenza e De Simoni: il 3 maggio questi (come segretario amministrativo e politico della Dc, assieme al coordinatore nazionale Ciccarelli) avevano reso pubblico un comunicato stampa in cui censuravano l'attività di formazioni - come la Dc-Grassi e la Dc guidata da Angelo Sandri - che utilizzavano la denominazione "Democrazia cristiana" (indicando a loro supporto determinate decisioni di organi giudiziari), chiedendo alle prefetture, alle questure e alla polizia postale di reagire contro l'uso illegittimo dei segni distintivi che nuocerebbe "gravemente alla credibilità della ricostituita Democrazia cristiana che desidera essere presente sulla scena politica come un partito fatto di persone che desiderano operare con spirito di servizio per la realizzazione del bene comune, per migliorare la qualità della vita di ogni persona e per rendere la nostra società più equa, più aperta, più collaborativa e non ultimo, più libera".
Per Grassi e Carmagnola le decisioni citate sono state lette in modo scorretto, perché non sarebbero riferibili alla Dc-Grassi (che continua a rivendicare la continuità con la Dc storica) e non ci sarebbe ad oggi contro quello stesso partito "alcuna pronuncia giudiziale che ne abbia disconosciuto la sua legittima entità a rappresentarne la continuità con la Dc come storicamente l’abbiamo conosciuta" (a dire il vero ci sarebbe la decisione dell'Ufficio elettorale nazionale per il Parlamento Europeo del 2019, che - forse andando leggermente oltre ciò che era stato chiesto e non cogliendo pienamente la realtà - disse che dal 1993 la Dc aveva concluso la propria attività senza avere più rappresentanti in Parlamento, quindi il gruppo di Grassi non poteva "accreditarsi quale legittimo continuatore di quel partito"; quella decisione fu confermata dal Tar e dal Consiglio di Stato, anche se va riconosciuto che si tratta sempre di pronunce rese in sede elettorale per l'uso di un contrassegno, non direttamente relative alla continuità di due soggetti giuridici). Sempre Grassi e Carmagnola rivendicano la bontà del procedimento di riattivazione della Dc seguito alla richiesta di disporre la convocazione dei soci della Dc su domanda del 10% degli iscritti, cui il Tribunale di Roma diede seguito alla fine del 2016 (ma con gli elenchi degli aderenti del 2012, non certo del 1992-1993 come è scritto nella diffida), a differenza di quello messo in atto da De Simoni e Cerenza: per questo sono stati diffidati affinché non usino più nome e simbolo della Dc, "con riserva di ogni azione giudiziale a tutela".
La diatriba non si è arrestata qui, essendo continuata con scambi di mail tra le due parti, inviate a un pubblico non ristretto: un schermaglia in punto di diritto, con reciproche accuse di ricostruzioni parziali e faziose, e a volte anche con appunti sulle scelte politiche personali fatte nel corso del tempo (perché in una vicenda come questa hanno inevitabili ricadute giuridiche). In tutto ciò, il tempo scorre e le liti, invece che semplificarsi, si complicano: riuscire a districarvisi e a non perdere il filo di ciascuna di essa richiede un esercizio di pazienza e di saldezza di nervi notevole. Più di quanto, forse, chi nel 1994 scelse di voltare pagina rispetto alla Dc poteva immaginare.
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