Trascorsi 22 giorni dalla fine del deposito dei contrassegni per le elezioni europee che si terranno l'8 e il 9 giugno, solo oggi può dirsi terminato il contenzioso sui simboli presentati in quell'occasione. Quest'oggi, infatti, il Consiglio di Stato ha emesso tre sentenze sui due casi "simbolici" che hanno impegnato i giudici amministrativi in questa fase: quelli di Stati Uniti d'Europa (ci si riferisce al contrassegno - con la rosa nel pugno - presentato dalla Lista Marco Pannella, prima escluso e poi ammesso dal Tar del Lazio) e della Democrazia cristiana (quella guidata da Nino Luciani, che si è vista ricusare il contrassegno per l'uso dello scudo crociato e ne ha chiesto la riammissione). Paradossalmente le decisioni di oggi arrivano - a meno di un mese dal voto - mentre si sono già chiusi i contenziosi sulle liste, che pure sono iniziati inevitabilmente più tardi (ma, anche se hanno coinvolto i giudici amministrativi, non sono andati oltre il Tar del Lazio).
Stati Uniti d'Europa: le richieste del Viminale
La vicenda giuridica la cui soluzione era più attesa riguardava inevitabilmente il contrassegno presentato dalla Lista Pannella, pressoché identico - come si ricorderà - a quello già depositato nel 2019 ma ritenuto confondibile con quello della "lista di scopo" Stati Uniti d'Europa ed escluso fino alla sentenza del Tar Lazio che lunedì 6 maggio l'aveva riammesso. Si è già visto che il Ministero dell'interno aveva chiesto la riforma di quella pronuncia, ma il Consiglio di Stato venerdì 10 maggio aveva dichiarato il ricorso irricevibile, rilevando come fosse stato formalmente depositato presso il Tar Lazio oltre i due giorni previsti dal codice del processo amministrativo. Il giorno dopo la Lista Pannella ha tenuto una conferenza stampa presso la sede di Via di Torre Argentina per dare notizia della riammissione del contrassegno, ma alla fine di quella stessa conferenza si è appreso che il Viminale aveva presentato al Consiglio di Stato istanza di revocazione della sentenza del 10 maggio (con conseguente esame nel merito della questione) e, contestualmente, un nuovo ricorso per chiedere l'annullamento o la riforma della sentenza con cui il Tar Lazio il 9 maggio aveva ritenuto inammissibile il ricorso presentato presso quello stesso ufficio.
In particolare, con l'istanza di revoca l'Avvocatura dello Stato ha sottolineato di aver in effetti depositato copia del ricorso presso il Tar Lazio "alle ore 12,20 dell'8 maggio 2024", ma "per un disguido nel deposito dovuto ad un errore procedurale, questo veniva depositato quale 'deposito ricorso elettorale'" (e non, come era nell'intenzione della difesa erariale, come deposito richiesto dall'art. 129, comma 8 del codice del processo amministrativo). Sulla base di questo, la cancelleria del tribunale amministrativo regionale ha provveduto - sempre l'8 maggio - a "una errata nuova iscrizione a ruolo" (così si leggeva nel ricorso) e a comunicare nel tardo pomeriggio al ricorrente la fissazione della relativa udienza: a quel punto, l'Avvocatura dello Stato ha assunto informazioni per capire cosa fosse accaduto, apprendendo che il deposito dell'atto era stato qualificato come "deposito ricorso" e non come "deposito documentale" relativo al giudizio di primo grado già concluso davanti al Tar. Per questo la difesa erariale la mattina del 9 maggio (con il termine dei due giorni già spirato) ha depositato un'istanza al Tar con cui ha precisato che non intendeva intraprendere alcun giudizio, ma solo adempiere alla norma che prevedeva il deposito del ricorso al Consiglio di Stato per l'affissione (e il Tar, in un'apposita sentenza, ha comunque ritenuto inammissibile quel ricorso "non voluto" e frutto di un "errore materiale commesso dalla parte ricorrente", ma ne riparleremo tra poco) e, contemporaneamente, ha ridepositato presso lo stesso Tar il ricorso al Consiglio di Stato, questa volta espressamente a fini di affissione (ma, come si è detto, fuori termine).
La difesa del Ministero dell'interno ha riconosciuto che è stato commesso un errore nella procedura di deposito del ricorso, ma ha negato che si fosse prodotta alcuna decadenza: da una parte, la previsione del deposito al Tar Lazio, a suo dire, serviva solo per dare maggiore conoscenza del contenzioso e il mancato deposito nelle forme prescritte non danneggiava in alcun modo le parti del giudizio; dall'altra parte, per l'Avvocatura dello Stato non esistevano prescrizioni normative su come effettuare il deposito presso il Tar appellato, un deposito tempestivo era comunque stato fatto (e, non essendoci spazi per iniziare un nuovo giudizio davanti al Tar, non si sarebbe dovuto interpretare in quel modo il deposito compiuto, né la cancelleria ha emesso "comunicazioni di cortesia" che avrebbero consentito di conoscere prima l'errore nel deposito e di rimediare in tempo utile). Con l'istanza di revocazione della sentenza del 10 maggio, insomma, il Ministero dell'interno ha chiesto di esaminare nel merito il ricorso già presentato: ciò sia per far prevalere la "giustizia sostanziale" rispetto a "meri errori formali, che non importano lesività alle parti interessate" (più avanti si parla di un errore che "appare con immediatezza ed è di semplice rilevabilità" e che non "coinvolge l’attività di ragionamento e di apprezzamento" del Consiglio di Stato stesso), sia perché il mancato esame nel merito del ricorso arrecherebbe "un grande vulnus all'Amministrazione, anche tenuto conto delle già rappresentate difficoltà sottese l’esecuzione della sentenza del Tar, da cui potrebbe derivare un ritardo nelle competizioni elettorali europee", risultato ritenuto "non accettabile" dall'Avvocatura dello Stato (per la già vista impossibilità di rinviare le elezioni in una data successiva al 9 giugno, termine ultimo indicato a livello europeo, mentre la Lista Pannella, pur non avendo depositato le liste entro il 1° maggio, grazie alla sentenza del Tar Lazio sarebbe "in possesso di un titolo esecutivo con il conseguente diritto all’esecuzione di quanto statuito, pena una denegata giustizia").
La difesa del Ministero dell'interno ha riconosciuto che è stato commesso un errore nella procedura di deposito del ricorso, ma ha negato che si fosse prodotta alcuna decadenza: da una parte, la previsione del deposito al Tar Lazio, a suo dire, serviva solo per dare maggiore conoscenza del contenzioso e il mancato deposito nelle forme prescritte non danneggiava in alcun modo le parti del giudizio; dall'altra parte, per l'Avvocatura dello Stato non esistevano prescrizioni normative su come effettuare il deposito presso il Tar appellato, un deposito tempestivo era comunque stato fatto (e, non essendoci spazi per iniziare un nuovo giudizio davanti al Tar, non si sarebbe dovuto interpretare in quel modo il deposito compiuto, né la cancelleria ha emesso "comunicazioni di cortesia" che avrebbero consentito di conoscere prima l'errore nel deposito e di rimediare in tempo utile). Con l'istanza di revocazione della sentenza del 10 maggio, insomma, il Ministero dell'interno ha chiesto di esaminare nel merito il ricorso già presentato: ciò sia per far prevalere la "giustizia sostanziale" rispetto a "meri errori formali, che non importano lesività alle parti interessate" (più avanti si parla di un errore che "appare con immediatezza ed è di semplice rilevabilità" e che non "coinvolge l’attività di ragionamento e di apprezzamento" del Consiglio di Stato stesso), sia perché il mancato esame nel merito del ricorso arrecherebbe "un grande vulnus all'Amministrazione, anche tenuto conto delle già rappresentate difficoltà sottese l’esecuzione della sentenza del Tar, da cui potrebbe derivare un ritardo nelle competizioni elettorali europee", risultato ritenuto "non accettabile" dall'Avvocatura dello Stato (per la già vista impossibilità di rinviare le elezioni in una data successiva al 9 giugno, termine ultimo indicato a livello europeo, mentre la Lista Pannella, pur non avendo depositato le liste entro il 1° maggio, grazie alla sentenza del Tar Lazio sarebbe "in possesso di un titolo esecutivo con il conseguente diritto all’esecuzione di quanto statuito, pena una denegata giustizia").
Nel ricorso al Consiglio di Stato, presentato sempre l'11 maggio, il Viminale - sempre richiamando il "disguido nella procedura di deposito" del ricorso presso il Tar Lazio e le successive azioni per cercare di chiarire l'intenzione con cui l'atto era stato depositato e porre rimedio all'errore - aveva ribadito le proprie ragioni, questa volta per ottenere l'annullamento della sentenza con cui il Tar Lazio il 9 maggio aveva dichiarato inammissibile il (novo) ricorso al giudice di prime cure: il collegio, in particolare, si sarebbe dovuto limitare a prendere atto che il deposito del ricorso era avvenuto ai limitati fini della pubblicità del contenzioso elettorale (con una decisione di "non luogo a provvedere", in mancanza di reale materia del contendere), senza dichiarare inammissibile un ricorso qualificabile come "inesistente". Di più, la difesa erariale ha contestato come il verdetto d'inammissibilità sia stato reso ritenendo che il Ministero dell'interno non potesse "vantare interesse alcuno alla proposizione" del ricorso, sottolineando come in realtà ci fosse l'interesse a vedere considerato il deposito del ricorso "quale effettuato ai sensi dell’art. 129, comma 8, cod. pro. amm. e, dunque, quale denuntiatio litis, anche tenuto conto che la Scrivente Difesa provvedeva a rappresentare tale finalità"; anzi, proprio perché il Tar non ha rivalutato il deposito del ricorso ai fini del giudizio presso il Consiglio di Stato, quest'ultimo si è potuto concludere con una pronuncia di irricevibilità.
Le sentenze di Palazzo Spada
Oggi il Consiglio di Stato si è pronunciato su entrambi gli atti relativi a Stati Uniti d'Europa proposti dall'Avvocatura dello Stato per il Ministero dell'interno, dichiarando - già stamattina - inammissibile l'istanza di revocazione della sentenza degli stessi giudici di Palazzo Spada del 10 maggio e respingendo nel pomeriggio il ricorso contro la decisione di irricevibilità emessa il 9 maggio dal Tar Lazio. Un doppio rifiuto che merita di essere analizzato meglio.
La decisione più importante, di fatto, era già arrivata questa mattina, con il verdetto d'inammissibilità circa l'istanza di revocazione: una scelta di segno diverso, infatti, avrebbe permesso di riesaminare nel merito l'ammissione del simbolo della Lista Pannella disposta dal Tar Lazio. Per i giudici di secondo grado, invece, mancherebbero i presupposti per parlare di un "errore di fatto revocatorio", cioè di un travisamento delle risultanze processuali che sia dovuto a una semplice svista, in grado però di portare i giudici a ritenere inesistenti circostanze che esistono o viceversa: per esprimere con un'immagine efficace questa situazione si parla di solito di "abbaglio dei sensi". Per i giudici, però, il collegio non ha percepito scorrettamente gli atti del giudizio (in particolare, "la copia del ricorso in appello datata 8 maggio 2024 è un documento rimasto estraneo agli atti del giudizio concluso con la sentenza oggetto di revocazione", come avrebbe riconosciuto lo stesso Viminale, dunque i giudici non se ne sarebbero potuti occupare); in più, il punto del mancato rispetto (formale) del termine per compiere tutti i depositi del ricorso sarebbe stato tutt'altro che "non controverso" negli atti e in udienza, così come la stessa sentenza tratta la questione in sede di motivazione. Sulla base di questo, la sentenza nega che il Consiglio di Stato sia "incorso in alcuna 'svista” o 'abbaglio dei sensi'", ritenendo che questo abbia invece "correttamente percepito ed esaminato il materiale probatorio agli atti del giudizio".
Quanto invece al ricorso contro la decisione d'irricevibilità del Tar Lazio del 9 maggio, questo è stato respinto (dunque si è avuto un esame nel merito).Secondo il collegio del Consiglio di Stato, il Ministero dell'interno avrebbe dovuto espressamente chiedere la "riqualificazione del deposito effettuato", che non poteva essere disposta in autonomia dai giudici e in mancanza della quale era doveroso fissare l'udienza; la difesa erariale avrebbe invece chiesto lo "stralcio" del ricorso, "istituto processuale inesistente in quanto ad ogni atto introduttivo del giudizio deve far seguito una decisione in rito o nel merito che tale giudizio definisca" (la richiesta, però, è stata sufficiente a far dedurre la carenza d'interesse della parte a ottenere una decisione sul punto). Da ultimo, pur riconoscendo che il codice del processo amministrativo non stabilisce nei dettagli la procedura di deposito presso il giudice appellato, "è quantomeno evidente che debba trattarsi di un deposito all'interno del fascicolo deciso con la sentenza appellata; diversamente sarebbero del tutto vanificate le esigenze di tutela del diritto alla difesa, del contraddittorio e di pubblicità che la norma intende tutelare".
In entrambi i casi i giudici hanno compensato le spese del grado. La situazione resta però immutata, con il contrassegno "Stati Uniti d'Europa" della Lista Pannella riammesso perché ritenuto non confondibile sulla base di una valutazione comparativa complessiva rispetto al fregio della "lista di scopo" (valutazione nella quale l'impatto della rosa nel pugno sarebbe ben maggiore rispetto a quello della dicitura scelta in entrambi i casi come denominazione) e potenzialmente da riammettere alla competizione. Se dunque l'idea del confronto grafico sintetico-complessivo risulta vincente e rafforzata da questo caso, restano senza risposta i dubbi della Lista Pannella circa gli spazi per la tutela elettorale del preuso di un nome o di un simbolo (anche se non sono state presentate candidature), così come i dubbi del Viminale sulla possibilità che, in nome di quell'esame sintetico citato sopra, siano ammessi (o si debbano ammettere) contrassegni con nomi uguali o molto simili ma con grafiche del tutto diverse. Così come non si sa cosa potrebbe accadere se, in futuro, fosse riammesso di nuovo un contrassegno prima escluso ma nel frattempo fossero ormai spirati i termini per depositare le liste (e senza possibilità di rinvii della data del voto).
La vicenda della Democrazia cristiana (Luciani)
Oltre alle due - attese - pronunce sulla questione "Stati Uniti d'Europa", il Consiglio di Stato ha deciso anche sul ricorso depositato in nome e per conto della Democrazia cristiana, da intendersi qui come partito rappresentato da Nino Luciani (che se ne proclama segretario politico) e Carlo Leonetti (in qualità di segretario amministrativo). Dopo che il Viminale aveva chiesto ai depositanti di sostituire il contrassegno togliendo lo scudo crociato per la sua somiglianza con quello dell'Udc, Luciani aveva presentato opposizione, ma l'Ufficio elettorale nazionale presso la Corte di cassazione non ha accolto la decisione.
Su tale base, Luciani e Leonetti avevano fatto ricorso al Tar Lazio, contestando la tutela attribuita al simbolo dell'Udc (e la sua stessa ammissione), partito che sarebbe nato molto dopo la Dc e in ogni caso non avrebbe eletto direttamente parlamentari; avevano rivendicato invece la legittimità del proprio uso, sia sulla base delle decisioni dei giudici civili (inclusa la ben nota sentenza delle sezioni uniti civili della Corte di cassazione del 2010), sia invocando come precedente il "caso Pizza" del 2008 (anche se, in effetti, dopo la riammissione della lista della Dc da parte del Consiglio di Stato, il partito non partecipò alle elezioni, per rinuncia dello stesso Pizza e per un'altra pronuncia della Cassazione). Dal ricorso al Tar, tra l'altro, si apprende che Luciani e Leonetti si erano nel frattempo rivolti di nuovo all'Ufficio elettorale nazionale, chiedendo la riammissione del loro contrassegno (e l'eventuale rimessione in termini per presentare le liste) sulla base del fatto che l'Udc, pur avendo visto ammettere il proprio contrassegno, non aveva presentato alcuna candidatura alle europee, dunque non c'era motivo di tutelare il simbolo con lo scudo; il collegio aveva però respinto le richieste di parte.
Non è andata meglio davanti ai giudici amministrativi. Il Tar Lazio, infatti, il 9 maggio ha dichiarato il ricorso davanti a sé, già solo per la mancata notifica contemporanea - così si legge nella sentenza - all'Ufficio che ha emesso gli atti impugnati, alla Prefettura e al controinteressato; ha poi ricordato che il ricorso amministrativo serve solo a impugnare i "provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio", non anche l'ammissione di altri simboli.
Il Consiglio di Stato, per parte sua, non ha nemmeno considerato le richieste della difesa di Luciani (che chiedeva la rimessione nei termini per il giudizio di primo grado - in modo da poter compiere, tra l'altro, correttamente le varie notificazioni e i depositi - in nome della scusabilità dell'errore dovuta alla presentazione del ricorso diretta, senza l'assistenza di un avvocato). I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno rilevato profili di irricevibilità del ricorso, legati innanzitutto al mancato deposito del ricorso presso il Tar appellato: è bastato questo profilo a precludere ogni esame delle questioni nel merito.
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